Gaia Perini: Le Cine di Angela Pascucci
Contributo alla giornata di dialogo sul “Pianeta Cina” del 10 ottobre 2020 a Bologna promosso da Il Manifesto in Rete e la Fondazione Claudio Sabattini
Ringrazio Il Manifesto in Rete e la fondazione Claudio Sabattini per aver organizzato questa giornata, in cui si è aperto un dibattito tanto acceso quanto fondamentale sulla Cina contemporanea, ed in cui inoltre mi si offre l’occasione di ricordare Angela Pascucci.
Parlare di lei e del vuoto che ha lasciato è per me qualcosa di molto personale, visto il legame affettivo che ci univa, ma non solo; se dovessi riassumere in una battuta sola il succo di questo mio intervento, direi che non è soltanto Angela che non c’è più, ma è la Cina che io e lei abbiamo vissuto insieme ad essere ormai scomparsa. O ad essersi trasformata al punto da risultare quasi irriconoscibile.
Dal 2006 al 2012 – ossia negli anni della dirigenza di Hu Jintao e Wen Jiabao – scortai Angela nelle sue missioni in Cina in qualità di sua ‘fixer’, o ‘stringer’: in pratica, oltre a farle da interprete, la aiutavo a selezionare i temi su cui basare le inchieste e insieme costruivamo la scaletta di incontri con le persone che accettavano di essere intervistate. Due libri hanno preso vita in questo modo, due libri che fedelmente raccolgono le voci di chi decise di fidarsi e raccontare la sua storia: “Talkin’ China” (Manifestolibri, 2008) e “Potere e Società in Cina. Storie di resistenza nella grande trasformazione” (Edizioni dell’Asino, 2013). Non credo che oggi questo meticoloso lavoro di inchiesta sarebbe ancora possibile.
Prima di entrare nel vivo, vorrei fare qui una piccola digressione, che c’entra e si intreccia con i miei ricordi di Angela, anche se si situa in un orizzonte temporale assai più ravvicinato. Questa mattina, a seguito dell’intervento di Alberto Gabriele si è tornati sull’inevitabile tema della contrapposizione fra Cina e Stati Uniti, analizzata sulla scorta di una visione dicotomica rigida, un dualismo ormai sdoganato da tutti i media e sempre più soffocante, che separa l’Est dall’Ovest, come se fossero due entità monolitiche, inconciliabili, ontologicamente agli antipodi. All’interno di questo discorso, l’aggettivo che immancabilmente viene usato da una parte per criticare l’altra è “anticinese”, o, al contrario, “filocinese”. A ben vedere però, i due termini, tutt’altro che antitetici, non sono che le due facce di una stessa medaglia. Giacché entrambi si basano sull’assunto che Xi Jinping ed i vertici di governo rappresentino per intero e senza scarti l’intera società cinese. Ormai essere contro le politiche di Xi è essere contro la Cina. Come se un miliardo e quattrocento milioni di cinesi, sparsi su un territorio vasto e multiforme quanto l’Europa, fossero tante pedine identiche su un’unica scacchiera, infinite riproduzioni in piccolo del grande leader. C’è un che di razzista e di profondamente antidemocratico in questa confusione fra il governo (o lo stato-partito) e la nazione: immaginiamo se qualcuno ci tacciasse di essere “anti-italiani” perché critichiamo Conte. È un discorso ormai pervasivo e pericoloso, che fa sì che chi di Cina si occupa, magari da anni, venga assimilato alla destra trumpiana se solo osa parlare di Xinjiang, o se critica le scelte politiche fatte da Xi Jinping.
“Potere e società in Cina” si intitola il secondo libro di Angela: potere E società – già, perché non sono la stessa cosa.
Perciò, l’approccio di Angela Pascucci mi pare tanto più prezioso oggi: si basava infatti sulla volontà di dar voce alle diverse Cine, mettendo in risalto la pluralità dei punti di vista, le contraddizioni, le “dinamiche” (per citare un termine a lei caro) della società cinese, a partire dal suo “orizzonte interno” (per citare un altro termine, questa volta proveniente dalla cassetta degli attrezzi dell’intellettuale Wang Hui). Un lavoro insomma lontano anni luce dalla statica opposizione fra un “noi” e un “loro”.
Rivedere il lavoro di Angela ora è anche un’occasione per mettere a confronto le due Cine governative di Hu-Wen ieri e di Xi Jinping oggi. Cominciando appunto dalla possibilità di fare giornalismo di inchiesta: nell’era di Hu Jintao e Wen Jiabao, non era né facile né scontato ottenere un’intervista. Prima di ogni missione di Angela, io e lei lavoravamo circa un mese per mettere insieme i nominativi delle persone con cui parlare e in genere su trenta che ne contattavo, solo dieci o dodici arrivavano a darmi un sì. I rifiuti erano insomma la maggioranza, c’era parecchio lavoro preliminare da fare e servivano molto tempo e altrettanta cocciutaggine, però comunque alla fine l’inchiesta sul campo si faceva. Fu possibile intervistare il professore Wen Tiejun, una delle menti dietro la riforma delle campagne sintetizzata nella sigla “sannong” (o triplice problema agrario), così come parlammo con contadini e operai migranti – con questi ultimi, servendoci di un interprete dal dialetto al cinese mandarino. Erano gli anni in cui Renzo Cavalieri e Ivan Franceschini pubblicavano il libro “Germogli di società civile in Cina”: perché davvero esisteva una società civile in fermento, dentro e fuori l’accademia e i circoli artistici e intellettuali, fatta di ONG, di comunità di ogni tipo e genere, gruppi di teatro per donne migranti, attivisti sindacali clandestini, avvocatesse in incognito, neomaoisti e favolos* nonché fantasios* esponenti del movimento LGBTQIA+. La furia livellatrice e normalizzatrice della “hexie shehui” (la società armoniosa), non mancava di colpire di continuo; era tuttavia contrastata dai dibattiti e dalle forze creative che si sprigionavano dal basso. A livello accademico e nei think tanks vicini al governo, le battaglie ideologiche fra il campo ‘liberal’ della ziyoupai e la ‘nuova sinistra’ (xinzuopai) incidevano tanto sull’opinione pubblica, quanto sulle riforme lanciate dal Partito Comunista. Fondamentalmente, in questa fase il PCC aveva bisogno di idee e progetti-pilota per sperimentare nuove forme di governance.
Con l’avvento di Xi Jinping e direi in particolare dopo il 2014, si è aperta un’altra fase, in decisa discontinuità con il decennio precedente. Non pretendo di essere esaustiva nella mia descrizione del passaggio, davvero complicato e soprattutto lento, graduale. Indico qui solo tre cambiamenti che mi paiono degni di nota: innanzitutto, dopo la fine dell’era Hu-Wen non sono più stati pubblicati i dati ufficiali legati ai cosiddetti incidenti di massa, ossia alle proteste spontanee, talvolta violente, che regolarmente prendevano di mira i governi locali. Sino al 2011, se ne registravano anche 180.000 all’anno: si trattava di lotte portate avanti dalla popolazione legate in primo luogo all’ambiente, sempre più inquinato e invivibile, ed alle condizioni di lavoro nella ‘fabbrica del mondo’. É difficile pensare che oggi questi moti di protesta non esistano più; semplicemente, non ne viene data notizia.
Poi, un secondo cambiamento che ritengo significativo e a cui ho assistito direttamente è stata la riorganizzazione del tessuto urbano delle grandi città, a partire dalla capitale, Pechino. A fine novembre del 2017, quando fuori già c’era un freddo intenso e spirava il classico vento dalla Siberia, si diede il via alla stagione delle ‘evictions’, ossia dell’esproprio forzato e della demolizione in tempo reale – nell’arco di una settimana scarsa – di intere zone abitate dai ceti più poveri. Tramite wechat, sui telefonini dei pechinesi cominciarono ad apparire video di folle rimaste all’improvviso senza casa, gente che si portava in spalla tutto quello che le era rimasto. Pure dentro al mio compound le ruspe tirarono giù in meno di 24 ore una piccola abitazione abusiva occupata da una coppia che campava riparando biciclette e consegnando l’acqua potabile a domicilio. E mentre la municipalità celebrava la nuova Pechino da bere facendo piazza pulita del ‘degrado’, decine e anzi centinaia di pechinesi si mobilitarono per aiutare chi dalla sera alla mattina si era ritrovato espulso dal “sogno cinese”. Ma durò poco; non fu che una protesta breve e tutto sommato silenziosa. Oggi, in molte aree da sempre abitate dalla classe lavoratrice, è dura trovare un chiosco a conduzione famigliare, o la classica bettola di sei metri quadri con le pile di cestelli di ravioli al vapore all’ingresso.
Infine, il cambiamento più lento e a lungo termine: la scomparsa del pluralismo e quindi del dibattito. Se non in circoli sempre più chiusi, dove si parla a voce sempre più bassa. É emblematica al proposito la vicenda del professore di diritto dell’Università Tsinghua, Xu Zhangrun, reo di aver detto che il mandato di Xi non può essere eterno. Espandendo il quadro, quello che sta accadendo nelle regioni di frontiera, in Xinjiang così come ad Hong Kong, è l’ennesima, macroscopica dimostrazione di quanto sia in atto un riassetto dello stato-nazione finalizzato a uniformare i modi di vita e cancellare la biodiversità sociale del continente Cina. Pare che la seconda potenza mondiale stia sviluppando una fortissima allergia nei confronti della propria diversità interna, che per interi millenni ne ha arricchito la storia e la cultura.
Ma non bisogna disperare. Soprattutto, non bisogna cedere alla tentazione di incasellare la Cina in una definizione certa e immutabile. A mio parere, in questo momento storico preciso, la Cina è un paese in tutto e per tutto capitalista con una dirigenza (sia centrale che locale) fortemente autoritaria – non userei mai la parola “totalitaria”, ma “autoritaria” sì, assolutamente. Lo è ora, non è detto che questo stato duri per sempre. La trasformazione avvenuta ad esempio fra il 2012 e il 2020 può ripetersi ancora, deviando di nuovo il corso della storia verso altre imprevedibili direzioni. Non lo sappiamo e non lo possiamo sapere. Ritornando al caleidoscopio di voci ed esperienze raccolte nei due libri di Angela, e ripescando il suo termine chiave, “dinamica”, bisognerebbe guardare la Cina come ad un work in progress, un’opera in fieri, in movimento – od un film, ma senza attaccarsi all’immagine statica del singolo fotogramma. Cercare il cinema anche nella foto. Perché la Cina (le Cine) è vita, è la vita di un quinto della nostra specie su questo pianeta, che esiste e pensa ben al di là dei nostri sogni, incubi, proiezioni immaginarie – esiste e pensa persino al di là dei sogni e delle ambizioni di chi la dirige.
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