Claudio Magris : Tito Perlini, vita da filosofo al termine del disincanto
Su segnalazione di Tiziano Rinaldini diffondiamo questo scritto di Claudio Magris, pubblicato su Il Corriere della Sera del 27 settembre 2013 . Un addio al pensatore che andò oltre Marx, Adorno e Mann
Vivere, a un certo punto della propria parabola, diviene sopravvivere; non tanto ad altri che si fermano e restano indietro o forse invece corrono avanti e sono già arrivati chissà dove, quanto a sé stessi, alla propria esistenza piena e completa, perché la morte di persone amate non è solo un dolore per loro, bensì — e ancor più — una mutilazione di noi stessi, che senza di loro non siamo più i medesimi, non siamo più veramente noi nella nostra integrità, ma abbiamo perso qualcosa di essenziale che contribuiva a costituirci, a fare di noi quello che siamo. Il dolore, in questi casi, è più per noi stessi che per loro.
Con la morte di Tito Perlini, avvenuta a Trieste, perdo anzitutto una parte della mia intelligenza, della mia capacità di capire il mondo e le sue trasformazioni politiche, sociali, morali, biologiche sempre più vertiginose. Ma questa intelligenza delle cose che, per la parte legata a lui, mi è stata portata via era, è indissolubilmente fusa con l’amicizia, l’affetto, lo scambio di idee di risate di esperienze nelle chiacchierate, nelle passeggiate nella sosta in birreria o a cena a casa mia.
Se filosofia, come dice la parola, è amore della sapienza, del sapere e del capire, non ho forse conosciuto nessuno che meritasse il nome di filosofo come lui. Non solo per i libri che ha scritto, molti dei quali bellissimi, fondamentali: sul marxismo e sulla Scuola di Francoforte, su Adorno e Benjamin, su Thomas Mann, sul giovane Lukács e su quella grandiosa cultura e letteratura tra fine Ottocento e primo Novecento, che rimane tuttora fondante perché ha indagato come nessun’altra la disgregazione di una civiltà plurisecolare, la frantumazione di ogni visione ordinata e totale della realtà, la necessità e l’impossibilità della vita vera, intrisa di significato.
Restano essenziali i suoi saggi sul nichilismo e su Augusto Del Noce, il grande pensatore cattolico affascinato dal comunismo e dalla modernità più perversa, ma duro e geniale assertore della Tradizione senza compromissioni né aggiornamenti. Marxista critico e figura intellettuale di primo piano nella sinistra italiana anche se voce fuori dal coro, Perlini non condivideva la fede né il tradizionalismo di Del Noce, ma si rendeva conto come pochi altri che senza il confronto con le esigenze della fede — con quell’esigenza dell’«assolutamente Altro», che possiamo chiamare Dio e che era stata affermata da uno dei padri della Scuola marxiana di Francoforte, Max Horkheimer — non si può capire il mondo finito, concreto, storico, l’unico che si possa indagare razionalmente ma che rimanda alla propria insufficienza. Perlini è filosofo soprattutto perché capire era la sua passione fondamentale, tale da assorbire pressoché completamente la sua vita serenamente solitaria e inaccessibile.
La sua opera è fortemente segnata da una tensione utopica, sorretta e corretta da un forte e concreto senso della realtà. Dal pensiero negativo di Adorno e di Benjamin aveva imparato — e aveva saputo interpretare e trasmettere originalmente — che solo la ragione può illuminare il reale ma che la ragione stessa, per non diventare un meccanismo automatico e totalitario che di fatto impone un proprio modello di razionalità tirannica, deve continuamente mettersi in discussione e rituffarsi nella polvere del reale, della vita, dell’accidentalità, in quel caos da cui bisogna sollevarsi ma senza alcuna pretesa di averlo superato per sempre, perché la vita urge sempre sotto il pensiero, mettendolo in pericolo ma anche nutrendolo.
Ho imparato da lui come da nessun altro che la verità di don Chisciotte deve sempre fare i conti con quella di Sancho Panza, se vuole ritornare autentica in sella a Ronzinante. La vita di Tito Perlini è tutta nel suo pensiero, nella sua riflessione, nella sua scrittura, con tutta la malinconia che ciò comporta, una malinconia sempre taciuta e superata forse solo nell’amicizia. Ha insegnato al liceo a Milano, la sua città amata, e all’università di Venezia; ha partecipato, ma sempre da franco tiratore e con distanza critica, alla vita politica della sinistra.
È di fatto uno dei più significativi filosofi italiani anche se, a differenza di altri suoi amici, non è divenuto mai una vedette, un guru, sottraendosi a quella spirale che nella nostra società trasforma sempre di più intellettuali, scrittori e filosofi, anche grandi, in veline. Non si è trattato di una scelta moralistica, perché nulla gli era più estraneo del moralismo; gli interessava capire, non giudicare e dinanzi a certi miei furori etico-politici mi diceva ironicamente che io me la prendevo con i fenomeni deteriori, mentre quel che conta è capire i processi che li rendono inevitabili. Del resto non avrebbe avuto nemmeno la capacità di essere un filosofo interpellato dai media: glielo impedivano la sua pigrizia, la torrenziale ed eccessiva misura dei suoi interventi, cui non era disposto a rinunciare né ne sarebbe stato capace. Non era affatto immalinconito, perché non gli interessava essere protagonista ma gli bastava capire per sentirsi appagato.
Una volta, a un dibattito cui partecipavamo entrambi, mi disse, a proposito di un collega seduto allo stesso tavolo: «Vuole avere l’ultima parola e noi gliela lasciamo volentieri». Con una certa prevaricazione intellettuale, era indifferente alla natura e mi guardava ora con compatimento ora con irritazione perché io invece non posso fare a meno del mare e dei boschi.
Si era laureato a Trieste con una tesi sul Doktor Faustus, così grossa che aveva sfondato lo zaino in cui l’aveva messa il suo relatore Guido Devescovi, l’amico di Slataper, portandosela in montagna. Era molto triestino, anche se — o forse proprio per questo — insofferente di Trieste, in cui peraltro aveva succhiato col latte il senso della storia e della vita come disincanto.
Sul disincanto ha scritto pagine memorabili, cercandolo soprattutto nei capolavori della letteratura — Mann, Dostoevskij, l’amatissima Educazione sentimentale di Flaubert — perché è nella letteratura che il pensiero si incarna e diventa vita. Il suo pensiero dialettico non conosceva verità definitive, ma nel suo stupendo saggio sul relativismo — credo l’ultimo suo lavoro, certo quello in cui, come mi disse, aveva espresso pienamente se stesso — ha demolito una volta per tutte lo stupido culto oggi obbligato del relativismo, distinguendo il relativismo buono quale continua e necessaria correzione nella ricerca della verità, che impedisce a tale ricerca di diventare dogmatica, dal relativismo becero e barbarico che mette tutto sullo stesso piano, come se il razzismo antisemita e il rispetto di tutti gli uomini fossero due opinioni parimenti lecite e rispettabili.
Ha passato l’ultimo periodo della sua vita pesantemente paralizzato dal Parkinson, che gli rendeva molto difficile anche parlare. Ma era sempre tranquillo, pacato; sempre più interessato all’oggetto che alle proprie magagne, non ha permesso che queste alterassero la sua visione del mondo
Category: Editoriali, Storia della scienza e filosofia