Bruno Giorgini, Toni Capuozzo: Ricordo di Franco Travaglini
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1.Bruno Giorgini: un ricordo di Franco Travaglini, scomparso il 24 marzo, amico, compagno, fondatore dei PID, i proletari in divisa
Il 24 marzo ci ha lasciato Franco Travaglini, amico e compagno di molti/e di noi. Ha fatto parecchie cose a Bologna, dalla sua militanza nel Centro Marxista alle manifestazioni contro la guerra in Viet Nam, una delle quali gli costò otto mesi di carcere pre68 per così dire.
2. Toni Capuozzo: Ricordo di Franco Travaglini
Per me, i PID erano Franco Travaglini. Non ricordo più il giorno e le circostanze in cui lo incontrai per la prima volta, ma aveva a che fare con la questione delle Forze Armate. Doveva essere stato durante una delle marce antimilitariste che i radicali organizzavano lungo il mio Friuli, in una carovana colorata, allegra e confusa. Noi del posto, di quell’angolo orientale d’Italia che volevamo essere severi militanti rivoluzionari, guardavamo con un sorriso di amichevole scherno quella che ci sembrava un’armata Brancaleone, e ci limitavamo a proteggerla da qualche contestazione fascista, ad applaudire quel Marco Panella che rispettavamo in ricordo delle lotte per il divorzio , ma scuotendo la testa davanti all’esaltazione della non violenza e dell’obiezione di coscienza: eravamo stati beat e hippies, adesso volevamo fare sul serio.
Franco Travaglini era uno fin troppo serio, nonostante un sorriso largo e una risata che scuoteva le stanze fumose delle riunioni. Veniva da fuori, dal “centro”, come dicevamo allora, e in un’organizzazione senza tessere, che chiamava il volontariato militanza, era quello che assomigliava di più a un rivoluzionario di professione. A tratti mi sembrava uscito dalla letteratura russa, a momenti mi pareva un funzionario come quelli del Partito comunista, per via di quel suo accento bolognese: una persona affascinante e insidiosa. Perché era venuto a dirci che era ora che smettessimo di sognare, e ci sbrigassimo a fare sul serio, e lo ripeteva, specie a me, ogni volta, per ore. Cosa sognavamo ? Di fare come a Roma e come a Milano, il sogno di ogni piccola città di provincia. Volevamo il potere operaio nelle nostre piccole fabbriche sparute dove gli operai, a fine turno, correvano a lavorare i propri campi. Volevamo organizzare il proletariato, gli immigrati e la lotta dei senza casa, andando a sbattere contro un mondo piccolo e antico, dove la gente ancora emigrava in Svizzera e in Belgio, e si costruiva la casa al paese anno dopo anno: lo chiamavamo il “male del mattone”. L’unica cosa che eravamo riusciti a fare erano le lotte studentesche, che riescono a tutti. E poi arrivò Franco, e ci costrinse, con pazienza, a guardare gli invisibili, a toccare gli intoccabili. Non che non sapessimo, in quel Friuli, che eravamo il confine con il socialismo reale, che ignorassimo di essere la guarnigione di un terzo dell’esercito italiano. Ma imparavi, per tirare avanti, a fare finta di niente. Sì, a occuparti di servitù militari, ma il resto era un’armata fantasma, dovevi solo evitare di andare al cinema nelle ore in cui c’erano i soldati, sopportare viaggi in treno in cui parlavano solo di licenze, tenenti con quel linguaggio astruso dei mondi chiusi. In un certo senso eravamo, nonostante i baffi e i capelli lunghi, come quelle ragazze che incrociavano i soldati nelle fiumane della libera uscita: facevamo finta di niente. E arriva Franco e ci dice: sono lì, eccoli i vostri proletari, lo vedete quel rosario di caserme nelle vostre periferie, nei paesini di pianura e in montagna ? Sono la vostra Mirafiori. Detto adesso sembra facile, ma volle dire smettere di fare le gare con gli altri gruppi militanti sulle piccole vicende di provincia, smettere di occuparci solo di fascisti e trame nere, addio piccole fabbrichette, e via con riunioni nascoste, volantinaggi che denunciavano soprusi e ruberie, carabinieri che denunciavano noi volantinatori, e quella onesta soddisfazione di vedere che quella massa informe in divisa aveva parole e dialetti, storie e nomi, scuole e mestieri: era come se Franco, con un gesto da mago, ma lento e paziente, avesse dato vita a un Quarto Stato in divisa, che aveva accenti e sorrisi, malinconie ed entusiasmi, rabbia e intelligenza, era una cosa viva che non avevamo mai sospettato. Il resto è storia semisconosciuta di quel movimento, gli scioperi del rancio e le manifestazioni con il volto nascosto, una generazione che apre le porte delle caserme allo spirito del tempo, e un po’ anche ai diritti. Tutto questo ha migliaia di nomi e di volti, perché è stato, in quell’angolo d’Italia, un vento forte come una bora. C’erano i militanti che si trovavano a essere soldati di leva, e voglio ricordarne solo uno, Vincino (182° Nembo, se la memoria non mi tradisce).
C’erano soldati di leva che scoprivano la militanza. C’eravamo noi che partivamo per il servizio di leva con un fascicolo speciale, e se avessero potuto di avrebbero congedato gratis al primo giorno di naja. Ma quello che mi interessa è che tutto questo aveva il nome, la faccia e la voce di Franco Travaglini. Era meno avventuroso di quanto il ruolo suggerisse: a stargli a fianco aveva abitudini da impiegato. Falsificava, per far risparmiare l’organizzazione, i biglietti ferroviari chilometrici, trasformando percorsi lungo la penisola in modesti tragitti pendolari, e lo faceva con perizia, impiegando scolorina, matite, gomme da cancellare, penne. Aveva un suo gusto sobrio nel vestire, camice a quadri d’estate e berretti da rivoluzione industriale d’inverno, e non rifiutava l’allegria da osteria, come si usa da queste parti. Ma era sobrio anche in quello, come con l’amicizia: era affettuoso, ma niente sconti, l’obbiettivo è da raggiungere. Con il tempo ho imparato a volergli bene, e non era difficile. Casa sua, a Bologna, la compagna e il figlio gli toglievano un po’ del mistero che riunioni senza fine in appartamenti vuoti nelle domeniche di una Roma deserta contribuivano a costruire attorno a lui, e forse anche a noi. Una volta mi mandò in Olanda, a un convegno internazionale di cui ricordo solo i militari olandesi con i capelli lunghi e i veterani americani del Vietnam che mangiavano il riso con le bacchette, la sera in ristoranti orientali, come noi ancora non sapevamo fare.
Prima di partire gli chiesi perché dovevo andare io. “Sei quello della Mirafiori in divisa, no ?” E rise. Più tardi, a Roma, lavorando al giornale Lotta Continua, ho conosciuto altre passioni di Franco, o passioni che aveva trovato a quegli angoli della vita in cui non ci sono biglietti chilometrici a darti il percorso da fare. Non abbiamo mai ricordato i vecchi tempi, e non per borie di mistero. E’ che Franco Travaglini era rimasto lo stesso: un tipo solido, con o senza organizzazione, che si tratti di svelare ragazzi in divisa o altri animali, sempre un po’ in anticipo sui tempi, ma senza menarne vanto, come chi ha il passo lungo anche quando calza sandali, come gli piaceva d’estate. Era un tempo, quello in cui l’ho conosciuto, in cui la maggior parte di noi era ancora figlia. Eravamo ancora alle prese con genitori, e non pensavamo che lo saremmo diventati, adesso che c’era da fare sul serio le barricate. E i nostri genitori, comprensivi o diffidenti, o entrambe le cose insieme, mostravano un’istantanea fiducia in Franco, perché era uno che la ispirava, non come i grilli per la testa dei loro figli veri. Dava l’idea di una forza tutt’altro che muscolare, nonostante l’aspetto. E ti veniva di seguirlo. Almeno, è quello che abbiamo fatto noi. Quando tutto è finito l’ho perso di vista. Ma sapevo che c’era, ed era consolante saperlo alle prese con una delle sue utopie percorse come con un biglietto chilometrico, caparbio e concreto. Adesso so che non c’è, ma è consolante sapere che c’è stato, tempo perduto ma per niente sprecato.
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