Bruno Giorgini: Paolo Fabbri gentiluomo
Poteva sembrare un poeta del dolce stil novo oppure un matematico di Harvard Paolo Fabbri. Sempre comunque maestro dei segni. Dai garbugli su un muro traeva un senso, spesso meraviglioso. Persino i balbettii con lui diventavano canto.
Nel contempo studioso, ricercatore, creatore che coniugava esprit de finesse e esprit de geometrie. Amava la lingua francese che aveva a Parigi fequentato come la cucina di casa dove narra la leggenda si gustassero piatti di pesce da far venire l’acquolina in bocca al solo pensiero. A Rimini terra natia e luogo di vita mai abbandonato, per quanto giramondo.
Studioso di alto rango, accademico prestigioso eppure alla mano. Generoso spalancava a chiunque le porte d’accesso al suo giardino lussureggiante e colorato di conoscenze. Così come non teneva per sè le mille astuzie di ricerche magari finissime, ma le raccontava in ampiezza non solo e neppur tanto durante un seminario e/o una lezione, quanto durante un viaggio in treno o un incontro casuale in corridoio. Sempre conversando creava motti, epigrammi, catene linguistiche inaspettate, con non chalance come se tirando in aria una moneta sapesse già il risultato del lancio. Testa o croce.
Era amatissimo da studenti e studentesse. Non soltanto allievi del DAMS dove per molti anni insegnò, ma pure fisici, matematici, astrofisici – che io conoscevo meglio – però immagino anche di altre scienze, più o meno esatte. Spesso si riunivano attorno a una pizza o per una birra e erano discussioni a non finire. In piena eguaglianza. Con qualche lampo geniale di tanto in tanto. Giovani che, per esempio sotto lo stimolo di questi simposi spontanei e improvvisati, organizzarono all’Istituto di Fisica A. Righi dell’Alma Mater una conferenza dibattito sulla teoria delle catastrofi, multi inter e trans disciplinare che riempì l’austera aula magna.
Quel che ho sempre trovato affascinante era che quando ci incontravamo a conversare, imparavo qualcosa di nuovo. Più precisamente prendevo coscienza di qualcosa che non sapevo di non sapere. E non quisquilie ma cose essenziali. Il che per un fisico teorico qual io sono, come tutti i fisici teorici convinto di stare al vertice assoluto della filosofia naturale e dell’intelligenza critica, non era poco, anzi era strabiliante.
Un altro aspetto per cui lo amavi era il suo modo di discutere.
Non precipitava mai nelle polemiche, nè tantomeno introduceva un argomentare dialettico tra la ragione e il torto, tra il vero di una proposizione e il falso di un’altra. Il botta e risposta di socratica (platonica) memoria gli era estraneo. Piuttosto egli introduceva fatti, in genere è ovvio fatti linguistici che quello era il suo campo da esplorare dissodare arare, che arricchivano il panorama facendo germogliare la complessità, una complessità dove ciascuno potesse trovare il proprio posto, la propria filiazione linguistica, dotta o plebea che fosse. Così il mondo si accresceva e nessuno si sentiva e/o veniva escluso. D’altra parte non dice forse l’antico saggio che si ha democazia là dove nessun sapere viene escluso?
Non bisogna però pensare Paolo Fabbri come un “dottore”o “chierico” rinchiuso in una biblioteca. No, così come il suo sapere si modellava spesso nei caffè, tramite la conversazione, il dialogo spesso coi giovani, fossero suoi allievi o meno – retaggio tutto parigino della vita di bistro’ – le sue capacità intellettuali si misurarono col mondo e con la politica fino all’impegno diretto.
In particolare fu quando a Bologna Franco Berardi Bifo e altri tentarono l’avventura elettorale per il consiglio comunale e il sindaco.
Paolo Fabbri non solo accettò di essere inserito nella lista dei candidati tutti o quasi “sovversivi” per la loro parte, ma prese parte attiva.
E fu una esperienza straordinaria ascoltare un suo comizio praticamente in linguaggio dantesco fatto in Piazza Verdi vituperata come il covo del male tra droga e smandrappati vari, cogli astanti attoniti e qualcuno assai ammirato.
Perchè nessun professore mai fino ad allora – e mai dopo- si era avventurato a metter piede e parola in quella piazza maledetta, nei tempi andati covo di rivoluzionari e libertari vari, ora nell’immaginario pubblico sorta di corte dei miracoli, ricettacolo di piccoli delinquenti, vagabondi di ogni specie, cultori delle droghe più svariate, con connessi spacciatori dall’aria truce. Eppure persino in questo mondo Paolo si muoveva a suo agio, senza imbarazzo alcuno con la sua ineguagliabile eleganza, un sorriso ironico, quasi a voler significare “ne ho viste ben altre”. Un autentico gentiluomo.
Adesso Paolo Fabbri non è più tra noi. Se n’è andato. Rimane la sua mancanza sempre presente. Per chi gli fu amico: il dolore e la pen
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