Bruno Giorgini: Chiude l’Unità
Così l’Unità chiude. Il giornale fondato da Antonio Gramsci il 12 febbraio del 1924 muore, probabilmente per sempre. C’è qualcuno che forse pensa di conservarlo sotto forma di brand, una pubblicità per le magnifiche sorti e progressive del ganzo fiorentino di estrazione democristiana – il che non è un disonore – Renzi Matteo.
Gramsci pensò e propose l’Unità come strumento di lotta antifascista – la marcia mussoliniana su Roma è del ’22 – e di unità del proletariato – la scissione tra socialisti e comunisti è del ’21, Gramsci che arrestato dai fascisti nel 1926, rimarrà in carcere fino al 25 ottobre 1934, morendo nel ‘37. Sui suoi quaderni dal carcere molte generazioni di miltanti di sinistra, di compagni, tra cui la mia, si sono formate. Gramsci, ovunque salvo che in Italia, considerato un maestro del pensiero politico attuale se non profetico, uno dei grandi del ‘900. Ho usato la parola proletariato, un termine oggi desueto, stranamente perchè invece il numero di coloro che hanno come risorsa soltanto la loro forza lavoro sta crescendo ogni giorno nel mondo del capitale globalizzato, e molti in Europa ad esempio nemmeno la forza lavoro riescono a vendere, rimanendo disoccupati. Gramsci scrive nel sottotitolo: quotidiano degli operai e dei contadini, intendendo chiaramente non un giornale di partito, come in seguito diventerà.
La dizione gramsciana nasce dalle lotte del famoso biennio rosso (1919-20) quando i movimenti e le rivolte contadine in specie al sud avvennero in contemporanea con gli scioperi operai e le occupazioni delle fabbriche al nord, in primis la FIAT di Torino, città dove Gramsci aveva creato l’Ordine Nuovo prima settimanale poi quotidiano. Assurto il fascismo al potere e costituito lo stato dittatoriale e totalitario con la messa fuorilegge dei partiti antifascisti e lo scioglimento del parlamento elettivo a suffragio universale, l’Unità continuò a vivere in clandestinità, al prezzo di molte vite e di molti anni di prigione per chi la scriveva, chi la stampava, chi la diffondeva. Mentre il Corsera leccava il culo nel ventennio agli squadristi e durante la repubblichina ai nazifascisti, l’Unità clandestina raccontava la resistenza di Stalingrado e gli scioperi del marzo del ’43, fatto unico nell’Europa occupata dalle armate hitleriane.
Mentre il Resto del Carlino il 2 aprile 1944, a commento dell’eccidio avvenuto il giorno prima di sei partigiani fucilati, dopo le consuete torture, al muro della Certosa di Bologna dalle brigate nere titolava “Ferma ed energica azione contro le bande terroristiche”, l’Unità clandestina raccontava la guerra dei GAP, e quando venne il momento della liberazione il famoso 25 aprile Aldo disse 26×1, la parola d’ordine per l’insurrezione in tutte le città del nord, sia via radio che attraverso i fogli volanti dell’Unità. Ma oggi il Corsera e il Resto del Carlino vivono e prosperano, l’Unità chiude.
Mi viene in mente un colloquio che ebbi con mio padre, militante del PCI clandestino quindi partigiano dopo funzionario del Partito (con la P maiuscola d’ordinanza), chiedendogli perchè avessero deciso di fucilare Mussolini e Claretta Petacci, invece di processarlo pubblicamente, egli rispose: se non l’avessimo fucilato adesso il duce sarebbe in parlamento.
Non era sconsolato o amareggiato, soltanto sembrava dire: così va la vita. Quindi l’Unità contro la legge truffa (quanto bisogno ce ne sarebbe oggi), o nel Luglio ’60 a raccontare i morti di Reggio Emilia, poi su su fino alle cronache dell’altro ieri scritte da Adriano Sofri stando, vivendo, dentro la città assediata di Sarajevo, si può dire che io con l’Unità sono nato e in qualche verso mi ha accompagnato quasi fin qui.
Quando ragazzo feci il primo sciopero studentesco a favore dell’indipendenza dell’Algeria, e eravamo pochi, una cinquantina, al ritorno dal piccolo corteo, il Preside latinista e democristiano spropositato non ci permise di entrare, siamo nei primi anni ’60, pretendendo che tornassimo il giorno dopo con la giustificazione dei genitori. Figuriamoci i miei, non se ne parlava nemmeno, se avevo scioperato dovevo cavarmela da solo facendo valere le mie ragioni. Così il giorno dopo mi presentai con l’Unità ben visibile in tasca e il distintivo del PCI, in casa non avevo che la difficoltà della scelta, e Tebaldo Fabbri, questo il nome del Preside che nonostante la burberaggine apparente era una pasta d’uomo, dopo una chiacchierata mi dette il diritto di accesso in aula, non senza avermi ammonito: io di politica a scuola non ne voglio, ma ormai era fatta potevo portare le insegne sovversive, che ovviamente quasi subito mi tolsi perchè cominciò tutta un’altra storia culminante nel ‘68. Il che mi porta a un operaio comunista della Menarini di Bologna molto noto con cui litigai spesso nel ’68 e dintorni – io stavo in Lotta Continua, un’eresia – abitavamo anche nello stesso quartiere, che una volta ebbe a dirmi: sai Bruno cosa voi studenti avete fatto di sul serio buono venendo davanti alle fabbriche, ebbene che io oggi posso entrare con l’Unità in tasca in bella vista senza doverla nascondere o cammuffare e nessuno mi dice niente, adesso posso essere comunista pure in fabbrica.
Ma anche: l’Unità fu stalinista a cominciare dal famigerato attacco contro gli operai di Stella Rossa, un gruppo dissidente di affiliazione trockijsta, in Fiat durante il fascismo, qualificati come maschera sinistra della Gestapo. Oppure quando nel ’77 a Bologna, dopo l’omicidio di Francesco Lo Russo da parte di una carabinere e susseguenti scontri, l’Unità si lanciò in una indegna e martellante campagna contro il movimento accusando quelli che riteneva i leader del movimento di essere fascisti, qualcuno fin dalla prima giovinezza inventando di sana pianta, oppure delirando anche agenti della CIA, so che può parere assurdo ma più d’uno che ci credeva lo trovavi, persin molti discutendo in giro.
Nè in questo zig zag, possiamo dimenticarci le ignobili cose scritte al tempo (1956) dell’insurrezione del popolo ungherese furiosamente stroncata dai carri armati sovietici, e altre ce ne sarebbero di piccole e di grandi vergogne staliniste. Quindi il PCI chiuse bottega e l’Unità si trovò sbalestrata, con molti tentativi di navigare a vista.
Per esempio fu il primo quotidiano a comparire su internet, per esempio ospitò il settimanale satirico Cuore, e altro ancora, con nuovi direttori non più dirigenti di partito, Furio Colombo o Concita De Gregorio, entrambi però troppo anticonformisti, perchè l’Unità non era più un giornale di partito, del tutto, ma parecchio, a seconda delle convenienze. Fatto è che mai si sciolsero i nodi politici del che ci stai a fare, qual’è la tua missione e/o vocazione una volta che il partito di Gramsci Togliatti Longo e Berlinguer si è estinto, o matamorfosato in PDS, DS, fino alla mutazione genetica del PD renziano.
Come è possibile stare nel solco della tradizione che dicevo, e nel contempo cambiare radicalmente, furono, sono, le domande inevase. Sono tra l’altro domande cui ogni mezzo di informazione e comunicazione che voglia essere di sinistra deve porsi, sapendo che non c’è più nessun partito o organizzazione che gli dia il supporto teorico e pratico per rispondere, che nessuno al di fuori farà il punto e traccerà la rotta. Permettendoci la nostalgia che gli antichi greci definivano come memoria degli astri scomparsi: magari non producono più luce ma dobbiamo ricordarci che sono esistiti. Tanto più oggi che Renzi, forte del suo 41%, con il rovescio della mano spazza via dal tavolo anticaglie quali il senato, se gli riuscirà, e l’Unità, un faticoso giornale che fu grande almeno per chi stava con gli operai e i contadini di gramsciana memoria, coi proletari di ieri e con quelli di domani.
Con un’ultima notazione: democrazia è il luogo dove nessun sapere viene disperso avverte l’antico legislatore, mentre Wittgenstein, che da Gramsci impara la praxis linguistica, ci insegna che il linguaggio è una forma di vita. Quindi chiudendo un giornale si uccide una forma di vita, e disperdendone il sapere nonchè la memoria si impoverisce la democrazia.
Category: Editoriali, Politica