Antonio De Lillo: una città orizzontale aperta ai giovani

| 30 Maggio 2012 | Comments (0)

Antonio De Lillo è morto a Milano il 25 maggio 2012. Era nato a Napoli l’8 gennaio del 1941 e l’ho conosciuto nel 1967. Nel 1966 era uscito il primo numero di Quality and Quantity e attraverso Lazarsfeld ero entrato nel Program for developping advanced methodological studies del XX Century Fund . Ho avuto così la possibilità di insegnare a quattro borsisti i modelli matematici nelle scienze sociali e di poter offrire, a partire dal 1967, una borsa triennale di perfezionamento in metodi quantitativi applicati nelle scienze sociali, bandita dal Consiglio Nazionale delle Ricerche e del Co.S.Po.S (Comitato per le scienze Politiche e Sociali). Scelsi Antonio De Lillo per una di quelle quattro borse e la borsa segnò il suo inizio di ricercatore e di docente in “statistica per la ricerca sociale” all’Università di Trento diventando poi ordinario di sociologia, preside della facoltà di sociologia di Milano Bicocca, presidente dell’AIS. In tutto questo lungo periodo ci siamo frequentati e sentiti solo poche volte ma siamo rimasti molto amici, in profondità, come mi ha confermato la moglie Michela a cui ho telefonato appena ho avuto la notizia della sua morte. Non mi è difficile capire il perché di questa amicizia. Antonio ha sempre avuto due caratteristiche che apprezzo molto e che oggi sono sempre più rare: una grande umanità e gentilezza e un agire politico coerente all’interno della sinistra. Per ricordarlo su Inchiestaonline ha cercato su Internet e ho trovato due tracce che ne disegnano un suo primo profilo.

Una sua video intervista su youtube del 7 maggio 2011 in cui, prendendo posizione a favore di Pisapia, afferma che “quello che mi mi piacerebbe per Milano nei prossimi anni è un cambio di direzione dal punto di vista della vivibilità della città. Ci si è occupati fino ad ora di costruire cose che spesso sono risultate anche inutili e quindi di quella che è stata chiamata la città verticale. Mi piacerebbe che ci si occupasse della città orizzontale, cioè degli spazi per muoversi, del problema dei trasporti, del anche traffico, che ci si occupasse della vivibilità complessiva della città. Oggi Milano è una città ostile, una città difficile, una città chiusa, ”


Una intervista ad Antonio De Lillo fatta da Giovanni Mattioli il 13 ottobre 2009:

Se dovesse descrivere sinteticamente la condizione giovanile nell’Italia del 2009, che termini utilizzerebbe?

Condizione giovanile” è un concetto un po’ ampio. Parliamo piuttosto dei ventenni: io direi che la cosa che più li caratterizza è il futuro incerto, sia dal punto di vista individuale sia da quello della società. D’altronde, si tratta di due aspetti strettamente legati: da un lato c’è una società che non ha una visione del proprio futuro, non lo sta progettando; di conseguenza, in una tale situazione di incertezza generalizzata, non è possibile progettare nemmeno le vite individuali

Secondo lei quella dei giovani è una questione politica (o dovrebbe esserla)?

E’ una questione politica, ma non solo. Secondo me si è rotto quel patto implicito tra generazioni che c’è sempre stato. Da un lato per motivi demografici, dall’altro per ragioni di carattere più strutturale. Demografici perché è la prima volta nella storia in cui il numero delle nascite non compensa quello delle morti: noi ci troveremo tra 30-40 anni con una struttura demografica a piramide rovesciata, e questo significa che pochi dovranno mantenere molti, mentre in genere è sempre successo il contrario. Per motivi strutturali perché anche lì si è rotto il patto tra generazioni: la generazione al potere, quella dei padri, ha tradizionalmente sempre cercato di darsi da fare per lasciare un paese migliore ai figli. Da qualche decennio invece l’enorme aumento del debito pubblico ha prodotto un debito che verrà pagato dalle generazioni future, mentre i frutti ce li godiamo noi adesso. Quindi si sono scaricati sulle generazioni future i costi della nostra bella vita di oggi.

Qual è stato il punto di svolta da questo punto di vista?

Gli anni 80: con il grande aumento del debito pubblico, che poi è sempre più incrementato. Non si è ancora parlato abbastanza male degli anni 80: è stato in quel periodo che si sono poste le radici della situazione in cui ci troviamo oggi.

Si assiste sempre più spesso ad uscite offensive da parte di uomini politici di entrambi gli schieramenti (Padoa Schioppa e i “bamboccioni”, Brunetta e i “pecoroni”) nei confronti dei giovani. Anche i Comuni sono sempre più attivi nell’emanare ordinanze anti-giovani. Come interpreta questi fenomeni?

Secondo me c’è una tendenza generale da parte del mondo adulto a considerare i giovani minacciosi: ma questo non avviene solo oggi, è sempre stato così. Nel campo delle politiche giovanili vi sono due strade possibili: la prima è considerare i giovani come minaccia, e attuare quindi politiche di tipo repressivo, che poi si manifestano anche verbalmente, come negli esempi che mi ha citato lei. Oppure si possono scegliere le politiche che concepiscono il giovane come una risorsa. Sto parlando di tutte le politiche attive: quelle per la casa, per la costituzione di una famiglia, per il lavoro, eccetera. L’Italia si caratterizza per le sue politiche repressive: i giovani sono visti come una minaccia, come un gruppo da tenere a bada

Nel resto d’Europa la situazione è diversa?

Sì. Come insegniamo noi alla facoltà di sociologia, esistono in Europa due modelli di welfare: quello del nord Europa, universalistico, al cui interno si possono trovare tutte le politiche attive che ho citato, e quello dell’Italia e di altri paesi, che è invece basato sulla tutela di chi ha già dei diritti acquisiti. Il nostro è un welfare di tipo lavorativo: sto parlando della differenza tra la cassa integrazione (che è discrezionale, e va a beneficio prevalentemente degli adulti impiegati nelle grandi imprese) e l’indennità di disoccupazione generalizzata, che invece è universale, e può essere ricevuta anche dai giovani.
Questa faccenda è stata interpretata da molti come il sintomo di una forte differenza culturale tra due mondi: quello protestante e quello cattolico. Il primo è fondato sull’individuo, che deve quindi essere messo in grado di fruire di tutti i suoi diritti di cittadinanza. Nei paesi mediterranei la tradizione è invece il gruppo che tutela l’individuo: c’è tutta una tradizione di studi che lo mostrano, a partire dal famoso concetto di familismo amorale. Dietro c’è anche una diversa concezione culturale, che si porta dietro tutta un’enfasi sulla famiglia, sui gruppi ristretti. Da noi un giovane trova lavoro tanto più facilmente quanto più è ampia la rete di relazioni sociali dei suoi genitori

Anche sulla stampa e tra l’opinione pubblica (come mostrano alcuni interessanti sondaggi di SWG) sembra che la categoria dei giovani sia rappresentata in maniera prevalentemente negativa. Perché?

E’ vero, anche se a questo io non darei molto peso: tutte le generazioni hanno sempre detto “i giovani non sono più quelli di una volta”. Quando ero ragazzo io, tra la fine degli anni ‘50 e i primi anni ’60, tutti i giovani venivano criminalizzati perché venivano considerati dei teddy boys, le mode giovanili venivano criminalizzate e via dicendo. Si tratta di un atteggiamento generalizzato che le generazioni più anziane hanno sempre avuto nei confronti dei giovani. Oggi viene percepito con più forza per ragioni demografiche (gli anziani sono sempre di più) e per il fatto che sono loro a detenere le posizioni di potere, a dirigere i giornali, ecc. E’ un fenomeno che c’è sempre stato, ma se io fossi giovane me ne fregherei. Per questo dicevo all’inizio che il problema è politico, perché se il politico si adagia sugli stereotipi – tipo quello dei bamboccioni – è evidente che non ha in mente una politica per i giovani: ha in mente invece una repressione e un contenimento della spinta innovativa che viene espressa naturalmente (per ragioni anagrafiche) da parte dei giovani. E questa innovazione a molti può far paura.

Scrivendo di questi temi da ormai un anno e mezzo per polisblog e leggendo con attenzione le centinaia di commenti che riceviamo ai nostri post, ho avuto l’impressione che ci sia, anche tra molte persone anagraficamente giovani una tendenza a criticare i “giovani d’oggi” che sarebbero “smidollati”, diversamente da quelli di una volta… Ne ho tratto come l’impressione che molti giovani abbiano accettato lo stigma che i più anziani hanno affibbiato loro. Lei cosa ne pensa?

Questa è davvero la cosa peggiore: perché assumere il punto di vista dell’avversario è la cosa peggiore che si possa fare.

Category: Editoriali, Osservatorio Milano, Politica

About Vittorio Capecchi: Vittorio Capecchi (1938) è professore emerito dell’Università di Bologna. Laureatosi in Economia nel 1961 all’Università Bocconi di Milano con una tesi sperimentale dedicata a “I processi stocastici markoviani per studiare la mobilità sociale”, fu segnalato e ammesso al seminario coordinato da Lazarsfeld (sociologo ebreo viennese, direttore del Bureau of Applied Social Research all'interno del Dipartimento di Sociologia della Columbia University di New York) tenuto a Gosing dal 3 al 27 luglio 1962. Nel 1975 è diventato professore ordinario di Sociologia nella Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università di Bologna. Negli ultimi anni ha diretto il Master “Tecnologie per la qualità della vita” dell’Università di Bologna, facendo ricerche comparate in Cina e Vietnam. Gli anni '60 a New York hanno significato per Capecchi non solo i rapporti con Lazarsfeld e la sociologia matematica, ma anche i rapporti con la radical sociology e la Montly Review, che si concretizzarono, nel 1970, in una presa di posizione radicale sulla metodologia sociologica [si veda a questo proposito Il ruolo del sociologo (a cura di P. Rossi), Il Mulino, 1972], e con la decisione di diventare direttore responsabile dell'Ufficio studi della Federazione Lavoratori Metalmeccanici (FLM), carica che manterrà fino allo scioglimento della FLM. La sua lunga e poliedrica storia intellettuale è comunque segnata da due costanti e fondamentali interessi, quello per le discipline economiche e sociali e quello per la matematica, passioni queste che si sono tradotte nella fondazione e direzione di due riviste tuttora attive: «Quality and Quantity» (rivista di modelli matematici fondata nel 1966) e «Inchiesta» (fondata nel 1971, alla quale si è aggiunta più di recente la sua versione online). Tra i suoi ultimi libri: La responsabilità sociale dell'impresa (Carocci, 2005), Valori e competizione (curato insieme a D. Bellotti, Il Mulino, 2007), Applications of Mathematics in Models, Artificial Neural Networks and Arts (con M. Buscema, P.Contucci, B. D'Amore, Springer, 2010).

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