Stefano Rodotà: Il reddito di cittadinanza è un diritto universale
Pubblichiamo da Il Manifesto del 12 gennaio 2013 l’intervista di Roberto Ciccarelli fatta a Stefano Rodotà sul reddito di cittadinanza
“In Europa- sostiene Stefano Rodotà, uno dei giuristi italiani che hanno partecipato alla scrittura della Carta di Nizza e autore del recentissimo Il diritto di avere dei diritti (Laterza 2012)- siamo di fronte a un mutamento strutturale che spinge qualcuno ad adoperarsi per azzerare completamente i diritti sociali, espellere progressivamente i cittadini dalla cittadinanza e far ritornare il lavoro addirittura prima di Locke. Per accedere ai beni fondamentali della vita come l’istruzione e la salute, dobbiamo passare per il mercato e acquistare servizi e prestazioni. Il reddito di cittadinanza è il tentativo di reagire al ritorno a questa idea di cittadinanza censitaria”
D. Il reddito di cittadinanza, dunque, non il «salario minimo sociale e legale» chiesto dal presidente uscente dell’Eurogruppo Jean-Claude Juncker. Come spiega questa dichiarazione?
R. Juncker ha mostrato più volte un’attenzione rispetto ad una fase nella quale debbono essere ripensati una serie di strumenti anche partendo da una riflessione più profonda sulla dimensione dei diritti. A parte la sua citazione di Marx, credo che la sua dichiarazione dovrebbe essere valutata alla luce dell’articolo 34 della Carta dei diritti fondamentali. In una delle sue carte fondative l’Ue si impegna a riconoscere il diritto all’assistenza sociale e abitativa e a garantire un’esistenza dignitosa ai cittadini. C’è un’assonanza molto forte con uno dei più belli articoli della nostra Costituzione, il 36. Considerati insieme, questi articoli offrono una chiave per considerare il reddito fuori dalla prospettiva riduzionistica con la quale di solito viene considerata. Diversamente dall’approccio del salario minimo, il reddito non può essere considerato solo come uno strumento di lotta contro la marginalità. In Europa non c’è solo la povertà crescente. Io credo che oggi la lotta all’esclusione sociale passi attraverso l’adozione del reddito di cittadinanza.
D. Cosa ne pensa del “reddito di sopravvivenza” proposto da Monti nella sua Agenda?
Monti si ispira all’idea riduzionista del welfare. La sua società è quella del capitalismo compassionevole di George Bush dove la vita degli esclusi è pari al grado zero dell’esistenza, un’esistenza che non è quella libera e dignitosa, è pura e semplice nuda vita. È l’idea che lo Stato deve cercare di non far morire i poveri. È una prospettiva inaccettabile. Se poi questo reddito di sopravvivenza è considerato non come la guida da seguire, ma come un passo per andare oltre verso il reddito di cittadinanza, non nel modo riduttivo in cui se ne sta parlando in questi giorni come il salario minimo, possiamo aprire una discussione qualitativamente importante nella cultura politica. Una discussione obbligata dati i tratti che ha la nostra Costituzione e la prospettiva indicata dalla Carta dei diritti. Esistenza e sopravvivenza sono però agli antipodi. Certo, dobbiamo considerare anche la sopravvivenza, ma quello cui noi dobbiamo guardare è l’esistenza libera e dignitosa.
D. Riesce ancora a mantenere una fiducia ammirevole nelle istituzioni europee e a non considerarle solo come l’emanazione diretta della Bce o della volontà tedesca di imporre politiche anti-inflattive e di rigore nei bilanci pubblici. Come mai?
R. Ma perché l’Europa non è a geometria variabile. Non può essere ridotta solo alle politiche economiche che assorbono tutte le altre dimensioni. Non è possibile ricordarsi degli aspetti virtuosi dell’Europa solo quando interviene per sanzionare i licenziamenti di Pomigliano oppure la legge italiana sul testamento biologico e dimenticarli quando impone di considerare l’economia come il Vangelo, con questa idea di mercato naturalizzato. L’Europa è un campo di battaglia. Io stesso ricordo la fatica di introdurre nella Carta di Nizza i principi di solidarietà e uguaglianza che prima mancavano.
D. Susanna Camusso (Cgil) sembra avere tutt’altra idea sulla proposta di Juncker e ha escluso il «salario minimo» perché danneggerebbe la contrattazione nazionale. Come lo spiega?
R. Capisco la sua volontà di salvaguardare la dimensione contrattuale, ma la trasformazione strutturale che viviamo ci obbliga ad andare oltre questo orizzonte. Il tema capitale e ineludibile è il reddito universale di cittadinanza. Martedì 15 a Roma presentiamo il libro Reddito minimo garantito del Basic Income Network dove discuteremo anche le proposte di Tito Boeri e Pietro Garibaldi, persone tutt’altro che ascrivibili ad un’orizzonte estremista. Il reddito è uno strumento fondamentale per razionalizzare un sistema altamente disfunzionale e sgangherato come quello italiano sulle protezioni sociali. Nei primi giorni di governo l’aveva citato anche Elsa Fornero, poi ha abbandonato questa prospettiva.
D. Di solito la sinistra e i sindacati considerano il reddito come un ammortizzatore sociale. Lei ritiene che sia un approccio corretto?
R. Assolutamente no. Oggi non è più possibile considerarlo come uno tra i tanti ammortizzatori sociali perché dobbiamo cominciare a lavorare sulla distribuzione delle risorse. L’idea degli ammortizzatori sociali riflette un modo di guardare al precariato come un problema sostanzialmente transitorio che l’intervento dei governanti farà rientrare in una situazione di normalità. Oggi non è più così e il reddito è una precondizione della cittadinanza, uno strumento per affermare la pienezza della vita di una persona. Riguarda anche i lavoratori che si trovano in difficoltà, ma è un diritto di tutti i cittadini. Questa è la prospettiva. Dopo di che, lo dico sinceramente, questo è un processo. Come per tutti gli istituti che hanno innervato, attraverso il diritto del lavoro, il modo in cui la società si organizza, ci possono essere tappe diverse, momenti di avvicinamento progressivo.
D. Quali sono le prime tappe di questo processo?
R. Ripristinare l’agibilità democratica nelle fabbriche; difendere il diritto del lavoro dalla privatizzazione strisciante che non è una fissazione della Fiom o di Maurizio Landini; una nuova legge sulla rappresentanza sindacale ma soprattutto ripristinare il diritto all’esistenza che passa attraverso il reddito di cittadinanza. È una questione di cui non possiamo liberarci né con un’alzata di spalle come ha fatto Carlo Dell’Aringa, ma anche dicendo che il contratto funziona bene, il sindacato fa la sua parte, mentre invece nella società c’è più di qualcosa che non funziona. Dobbiamo pensare a una trasformazione radicale, proprio come accadde con lo Statuto dei lavoratori. Perché non dovrebbe accadere oggi?
D. Perchè forse allora c’era l’autunno caldo, la migliore cultura giuslavoristica con Giugni, Romagnoli, Mancini sostenne l’avanzata del movimento operaio. Oggi non è così…
R. C’è una certa sordità del sindacato perché ritiene che gli strumenti acquisiti siano sufficienti per fronteggiare qualsiasi situazione. Ricordo che Romagnoli gli ha rivolto critiche molto severe quando abbiamo elaborato e firmato il referendum contro le modifiche all’articolo 18 e contro l’articolo 8. In generale trovo spaventoso constatare i guasti della progressiva emarginazione del dialogo con la cultura politica. E questo non accade solo nel mondo del lavoro.
D. Tutti sperano che il 2013 sia l’anno del ritorno alla crescita dell’Europa. E’ più un auspicio, che la realtà. Mi sembra di capire che per lei la precondizione fondamentale anche per la crescita economica sia una trasformazione radicale del modello sociale vigente. Che tipo di modello sociale è quello fondato sul reddito di cittadinanza?
R. Non può non essere fondato sulla tutela e la garanzia dei diritti sociali che oggi vengono espulsi attraverso la naturalizzazione del mercato. Questo deve essere un punto di riferimento necessario per un nuovo modello sociale. Non voglio semplificare eccessivamente, ma se guardiamo oggi a quello che accade nel mondo è certo che esiste la prepotenza e la violenza della logica mercantile. Ma esiste anche tutta una serie di azioni politiche che cercano di ridurre il danno. Quello che è avvenuto negli Stati Uniti con gli interventi contro la disoccupazione o la riforma della Sanità di Obama, da molti considerata come un pannicello caldo, è invece una vera rivoluzione per gli Usa. Mi ricordo Hillary Clinton quando espose al Congresso la sua riforma sanitaria che fu spazzata via dalla potenza delle società di assicurazioni. Questo significa che la dimensione dei diritti sociali e il riferimento a principi fondativi è quello che noi dobbiamo avere presente.
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