L’8 giugno del 1984 tornavo con i miei colleghi Francesco Russo, Angelo Tufano e Franco Ebano, in auto da una riunione di lavoro in Emilia Romagna, quando il giornale radio annunciò la notizia che Enrico Berlinguer la sera precedente era stato colto da un grave malore, durante un comizio a Padova per le elezioni europee.
Le sue condizioni erano già definite molto gravi, una sensazione di sgomento ci pervase. Cominciò così una settimana che doveva cambiare profondamente le vicende politiche della sinistra e del Paese.
A sera si era ormai capito che non ce l’avrebbe fatta, per strada, nei bar, non si parlava d’altro, la tv trasmetteva in diretta continua, aggiornando ora per ora della situazione.
Ancora mi vengono i brividi a ricordare quei momenti: nella mia sezione del Pci ci si abbracciava per la disperazione, un dolore profondo, un senso di smarrimento, Enrico Berlinguer non era solo il segretario autorevole, il mitico dirigente che aveva portato il Pci alla vetta del più alto consenso della sua storia, Berlinguer eravamo noi stessi, era dentro le nostre singole vite.
Così, dopo quattro giorni, l’11 giugno moriva, lasciando un vuoto incolmabile. Il giorno dei funerali – il 13 giugno – fu un evento che oscurò il cielo: una folla mai vista, tutt’Italia era a San Giovanni, questa forza possente, fatta di gente di ogni genere proveniente da tutto il Paese, le folle delle feste de l’Unità, quei volti di operaie e operai, di contadini, di giovani, di nonni e nonne, un popolo che si stringeva in un abbraccio doloroso al compagno più amato, un trauma come la perdita di un figlio, di un fratello, di un padre.
Quel giorno ogni simbologia della straordinaria vicenda di quel partito si mostrava poderosa e disperata, con i fazzoletti rossi al collo, le bandiere, gli striscioni, le lacrime unite alla consapevolezza di appartenere ad una storia grande.
Così finiva con Berlinguer anche il Pci, diciamo che durò ancora fino all’89 ma già da subito si capì che niente sarebbe stato più come prima. L’eredità era troppo grande, le ragioni di crisi anche preesistenti, gli eredi non c’erano, o meglio c’era ancora un gran collettivo, dirigenti di prim’ordine, Ingrao, Tortorella, Natta, Iotti, Napolitano, Chiaromonte, Macaluso, Reichlin, Castellina, Magri e tanti altri, poi c’erano i giovani promettenti, Mussi, D’Alema, Veltroni e il pretendente Occhetto, ma apparve subito chiaro che non sarebbe stato per nulla facile portare avanti il partito che Berlinguer aveva diretto per oltre dodici anni, permeandolo con la sua forte personalità, attraverso fasi diverse, non prive anche di errori, ma con una saldezza politica e ideale che aveva rappresentato uno fortissimo elemento di stabilità.
Arrivò, dopo un breve periodo di Alessandro Natta, Achille Occhetto alla segreteria e dopo una prima fase di ordinaria amministrazione, nell’89, in coincidenza con il crollo del muro di Berlino e il dissolvimento dell’Unione sovietica, lanciò attraverso una potente campagna mediatica, sostenuta dai giornali main stream, Repubblica e il Corriere della sera in testa, la cosiddetta “svolta della Bolognina” con la quale attraverso un blitz ben architettato annunciò, senza alcuna preparazione o discussione negli organismi dirigenti, la parola d’ordine “cambia tutto – cambia anche il nome”. Così si ufficializzava la fine del Pci, che sarebbe durato formalmente fino al 1991, quando dopo due congressi straordinari e altamente divisivi, si decise il suo superamento attraverso la nuova denominazione PDS, Partito Democratico di Sinistra, e la contemporanea fuoriuscita del nutrito gruppo di dissenzienti guidati da un altro storico dirigente Armando Cossutta che davano vita al partito della Rifondazione Comunista.
Il partito nato nel gennaio 1921 a Livorno da un’altra scissione del partito socialista, nel contesto di una fase storica di straordinari cambiamenti di portata mondiale, conseguenti la rivoluzione sovietica conclusa nell’ottobre 1917 con la presa del potere dei comunisti guidati da Lenin, finiva settant’anni dopo, per ragioni politiche del tutto diverse, se pur emblematicamente sempre nel contesto di mutamenti di carattere internazionale.
Nel 2021 che sta per cominciare, sotto il segno della perdurante pandemia, che ha colpito tutto il pianeta e che comporterà ancora tanti sacrifici e preoccupazioni, si discuterà nel nostro paese anche di questo importante anniversario per cui già fioccano annunci di libri, articoli e convegni di rievocazione degli avvenimenti.
Tra gli altri degno di menzione è in corso di pubblicazione il primo numero dell’anno della prestigiosa rivista Critica Marxista che in formato speciale, ripercorrerà attraverso numerosi e importanti contributi tutti gli aspetti sia della nascita ma soprattutto della irredimibile soppressione del Partito comunista italiano, delle conseguenze negative che ciò ha determinato sulla sinistra italiana e per l’intero Paese. La rivista sarà prenotabile attraverso il sito delle Edizioni Sindacali italiane, si potrà volendo anche sottoscrivere l’abbonamento in formato cartaceo oppure on line.
Diffondiamo da Il fatto quotidiano del 30 dicembre 2020
L’8 giugno del 1984 tornavo con i miei colleghi Francesco Russo, Angelo Tufano e Franco Ebano, in auto da una riunione di lavoro in Emilia Romagna, quando il giornale radio annunciò la notizia che Enrico Berlinguer la sera precedente era stato colto da un grave malore, durante un comizio a Padova per le elezioni europee.
Le sue condizioni erano già definite molto gravi, una sensazione di sgomento ci pervase. Cominciò così una settimana che doveva cambiare profondamente le vicende politiche della sinistra e del Paese.
A sera si era ormai capito che non ce l’avrebbe fatta, per strada, nei bar, non si parlava d’altro, la tv trasmetteva in diretta continua, aggiornando ora per ora della situazione.
Ancora mi vengono i brividi a ricordare quei momenti: nella mia sezione del Pci ci si abbracciava per la disperazione, un dolore profondo, un senso di smarrimento, Enrico Berlinguer non era solo il segretario autorevole, il mitico dirigente che aveva portato il Pci alla vetta del più alto consenso della sua storia, Berlinguer eravamo noi stessi, era dentro le nostre singole vite.
Così, dopo quattro giorni, l’11 giugno moriva, lasciando un vuoto incolmabile. Il giorno dei funerali – il 13 giugno – fu un evento che oscurò il cielo: una folla mai vista, tutt’Italia era a San Giovanni, questa forza possente, fatta di gente di ogni genere proveniente da tutto il Paese, le folle delle feste de l’Unità, quei volti di operaie e operai, di contadini, di giovani, di nonni e nonne, un popolo che si stringeva in un abbraccio doloroso al compagno più amato, un trauma come la perdita di un figlio, di un fratello, di un padre.
Quel giorno ogni simbologia della straordinaria vicenda di quel partito si mostrava poderosa e disperata, con i fazzoletti rossi al collo, le bandiere, gli striscioni, le lacrime unite alla consapevolezza di appartenere ad una storia grande.
Così finiva con Berlinguer anche il Pci, diciamo che durò ancora fino all’89 ma già da subito si capì che niente sarebbe stato più come prima. L’eredità era troppo grande, le ragioni di crisi anche preesistenti, gli eredi non c’erano, o meglio c’era ancora un gran collettivo, dirigenti di prim’ordine, Ingrao, Tortorella, Natta, Iotti, Napolitano, Chiaromonte, Macaluso, Reichlin, Castellina, Magri e tanti altri, poi c’erano i giovani promettenti, Mussi, D’Alema, Veltroni e il pretendente Occhetto, ma apparve subito chiaro che non sarebbe stato per nulla facile portare avanti il partito che Berlinguer aveva diretto per oltre dodici anni, permeandolo con la sua forte personalità, attraverso fasi diverse, non prive anche di errori, ma con una saldezza politica e ideale che aveva rappresentato uno fortissimo elemento di stabilità.
Arrivò, dopo un breve periodo di Alessandro Natta, Achille Occhetto alla segreteria e dopo una prima fase di ordinaria amministrazione, nell’89, in coincidenza con il crollo del muro di Berlino e il dissolvimento dell’Unione sovietica, lanciò attraverso una potente campagna mediatica, sostenuta dai giornali main stream, Repubblica e il Corriere della sera in testa, la cosiddetta “svolta della Bolognina” con la quale attraverso un blitz ben architettato annunciò, senza alcuna preparazione o discussione negli organismi dirigenti, la parola d’ordine “cambia tutto – cambia anche il nome”. Così si ufficializzava la fine del Pci, che sarebbe durato formalmente fino al 1991, quando dopo due congressi straordinari e altamente divisivi, si decise il suo superamento attraverso la nuova denominazione PDS, Partito Democratico di Sinistra, e la contemporanea fuoriuscita del nutrito gruppo di dissenzienti guidati da un altro storico dirigente Armando Cossutta che davano vita al partito della Rifondazione Comunista.
Il partito nato nel gennaio 1921 a Livorno da un’altra scissione del partito socialista, nel contesto di una fase storica di straordinari cambiamenti di portata mondiale, conseguenti la rivoluzione sovietica conclusa nell’ottobre 1917 con la presa del potere dei comunisti guidati da Lenin, finiva settant’anni dopo, per ragioni politiche del tutto diverse, se pur emblematicamente sempre nel contesto di mutamenti di carattere internazionale.
Nel 2021 che sta per cominciare, sotto il segno della perdurante pandemia, che ha colpito tutto il pianeta e che comporterà ancora tanti sacrifici e preoccupazioni, si discuterà nel nostro paese anche di questo importante anniversario per cui già fioccano annunci di libri, articoli e convegni di rievocazione degli avvenimenti.
Tra gli altri degno di menzione è in corso di pubblicazione il primo numero dell’anno della prestigiosa rivista Critica Marxista che in formato speciale, ripercorrerà attraverso numerosi e importanti contributi tutti gli aspetti sia della nascita ma soprattutto della irredimibile soppressione del Partito comunista italiano, delle conseguenze negative che ciò ha determinato sulla sinistra italiana e per l’intero Paese. La rivista sarà prenotabile attraverso il sito delle Edizioni Sindacali italiane, si potrà volendo anche sottoscrivere l’abbonamento in formato cartaceo oppure on line.