Salvatore Biasco (a cura di): Primo incontro (2016) su La riproposizione del socialismo oggi
PRIMO INCONTRO (2016) SU LA RIPROPOSIZIONE DEL SOCIALISMO OGGI
Sintesi della discussione (a cura di Salvatore Biasco) organizzata dall’Enciclopedia Treccani e dal network Ripensare la cultura politica della sinistra il 4 dicembre 2016 tra: Giuliano Amato, Salvatore Biasco (Univ. Roma1), Paolo Borioni (Temple Univ. Roma), Carlo Carboni (Univ. Ancona), Vittorio Cogliati Dezza (Legambiente), Massimo Egidi (Luiss), Luigi Ferrajoli (Univ. Roma3), Franco Gallo (Univ. Roma1), Massimo Florio (Univ. Milano), Piero Ignazi (Univ. Bologna), Marco Marzano (Univ. Bergamo), Michele Prospero (Univ. Roma1), Mariuccia Salvati (Univ. Bologna), Walter Tocci (Senato, CrS), Valeria Termini (Univ. Roma 3). Intervento scritto di Nadia Urbinati (Columbia Univ.)
Le domande
È difficile negare che siamo al punto più basso di incidenza delle idee e delle forze che si richiamano al socialismo a confronto con tutta la storia dell’età contemporanea. Il quadro delle rotture avvenute negli ultimi 30 anni è noto, e va dalla trasformazione della società verso una maggiore frammentazione, all’egemonia di una visione liberale del mondo e dei precetti di politica economica che essa impone, ai vincoli che determina il dominio della finanza, alle modificazioni delle soggettività in termini più individualistici, alle trasformazioni dei modi di produzione, alla riduzione quantitativa e dispersione del lavoro dipendente e quant’altro. I partiti socialisti sono quasi ovunque fuori dal governo nei paesi europei, privi di una identità definita, e sono sfidati da nuovi protagonisti politici (anche di destra) nel loro stesso elettorato tradizionale. Difficile rintracciare anche un pensiero specificamente socialista.
Il socialismo come idea-guida o programma politico è ancora attuale? È una domanda che ne presuppone altre e preliminari: in che cosa, nelle condizioni odierne, può essere identificato e fatto proprio nell’orizzonte di una forza di sinistra? In quali rivendicazioni, organizzazioni sociali, aggregazioni, soggettività, modi di leggere la società e teoria può oggi consistere? Il socialismo, comunque lo si voglia declinare, ha nel suo Dna una forzatura dell’esistente e dei processi spontanei. Se indubbiamente occorre fare i conti con la realtà e le sue trasformazioni (e con la forza impositiva che queste esercitano sull’azione pubblica) occorre anche estrarre dalla realtà quelle potenzialità e indirizzi che portano in nuce una prospettiva alternativa di tessitura della società, senza essere irrealistiche fughe 1
in avanti. Il contesto sta comunque facendo emergere i limiti della strada che ha preso il capitalismo e la consapevolezza diffusa di questi limiti.
Questo era il quadro problematico che aveva davanti la discussione del 4 dicembre. Inutile dire che una parte importante di essa è stata rivolta a capire cosa sia successo nel mondo occidentale e perché la prospettiva socialista si sia indebolita. Si è trattato, tuttavia, non di pura ricostruzione storica o sociologica, ma dello sforzo di comporre un quadro di sottofondo capace di far avanzare la comprensione dei punti di orientamento, a partire dai quali sia possibile una riproposizione del socialismo come programma politico, sociale, culturale e antropologico.
Su questi punti di orientamento, in termini di agenda, sarà fermata l’attenzione, facendo torto a tante profonde analisi di come siamo arrivati fin qui, che non saranno richiamate se non per brevi cenni, quando necessarie a una migliore comprensione delle risposte ai temi dell’incontro.
Bisogna, tuttavia, mettere in evidenza almeno un punto analitico sottolineato da molti interventi: vale a dire il rapporto che il socialismo ha avuto col capitalismo. Il socialismo esiste (afferma Prospero, citando Honneth) in quanto sfida interna al capitalismo, cioè in quanto abbia la capacità di produrre conflitto rispetto agli esiti del meccanismo produttivo e sociale e di mantenere l’autonomia politica dei soggetti che quegli esiti contestino. Senza questa autonomia il socialismo è un fantasma. Ma, altrettanto, il socialismo trae (/ha tratto) linfa dalla forza interna del capitalismo. Non è un caso che i balzi in avanti compiuti nelle realizzazioni e nella definizione di sé stesso siano avvenuti – a dispetto della sua carica alternativa – in coincidenza delle fasi rivoluzionarie e dinamiche del capitalismo (Tocci). Esso ha reinterpretato forme politiche borghesi. Oggi, dopo la crisi del 2007, manca questa linfa rivoluzionaria del capitalismo, il quale non è più in grado in occidente di suscitare sogno, emancipazione, ottimismo e fiducia, o di consentire ai giovani di progettare il futuro. Pensiamo solo alla capacità di creare lavoro (ieri, la più grande impresa, la General Motors aveva 1.300.000 lavoratori, oggi Google ne conta meno di 25.000 e Whatsapp, venduta per svariati miliardi, ne ha 19, come ricorda Carboni). Di conseguenza, sempre secondo Tocci, lo stesso socialismo svilisce perdendo il traino delle energie tratte dall’esterno, mentre i suoi riferimenti tradizionali diventano anche una gabbia che lo intrappola in forme del ‘900, quelle che sono state allora il fattore del suo trionfo. Sarebbe, tuttavia, un errore pensare che la possibilità di una controffensiva possa oggi esulare dal rapporto-scontro con le tendenze del capitalismo, e affidata, invece, a un complesso di valori, principi umanitari e dover essere, che rimarrebbero, fuori da quel rapporto, riferimenti isolati, appesi al nulla.
Nella chiave di questo rapporto, il cambiamento possibile dal punto di vista del socialismo coinvolge vari temi discussi che vedremo via via in successione. Si tratta degli stessi cardini del socialismo e delle leve per la ricostruzione di un’identità collettiva dei soggetti che gli sono propri. Ma l’enfasi su quest’ultima ha implicato anche un chiarimento su ciò che attiene al socialismo nei confronti dell’individuo. Un pezzo di discussione ha riguardato, poi, i compiti che pone a una forza di sinistra quel socialismo inconscio che si esprime quotidianamente nell’impegno diretto a vantaggio di altri o della collettività. E quindi a riflettere su quanto la costruzione del socialismo possa venire dal basso e quanto abbia bisogno della sfera pubblica per affermarsi. Da qui è venuta la discussione su cosa siano per i socialisti lo spazio pubblico e il ruolo dello Stato. E in più la domanda: quant’è possibile forzare l’esistente nella prospettazione di una società e di un programma che lo oltrepassi?
Da ultimo, ma non ultimo, vi sono stati gli altri capitoli di riflessione che hanno portato a chiedersi in cosa possa consistere oggi l’internazionalismo di una forza socialista e come si caratterizzi un partito che lo rappresenti. Ma soprattutto a chiedersi quali siano i modi in cui l’aspirazione alla giustizia sociale debba coniugarsi con gli sviluppi di una società che propone inediti scenari economici e tecnologici (guidati, non ultimo, dalla rivoluzione informatica); sviluppi che vanno compresi e anticipati nella loro continua evoluzione e influenza nell’organizzazione sociale, ponendo il socialismo all’interno dei processi in atto come fattore di creazione di benessere e ricchezza (e non solo della sua diffusione), e tenendolo in congiunzione anche con i ceti più dinamici della società e con le nuove realtà professionali.
La cultura e le idee forza
In realtà, la cultura più profonda del socialismo è intrisa del rapporto col capitalismo perché permeata dalla consapevolezza che quest’ultimo produce instabilità, conduce intrinsecamente a concentrazione economica, ma soprattutto genera e consolida enormi differenziazioni di potere, di reddito e di ricchezza, che solo col primato della politica sull’economia possono essere corrette e controllate (Biasco). Negli ingredienti degli orientamenti socialisti vi è l’idea – ricorda Urbinati – che le relazioni sociali ed economiche non sono un esito naturale ma artificiale, frutto di scelte e di interessi, di contrapposizioni e lotte. Un intervento delle scelte politiche per governare il corso sociale in funzione di una redistribuzione dei costi e delle opportunità ha lo scopo di emancipare chi è subordinato e accrescere le possibilità ai molti di una vita migliore. Questa cultura va affermata con forza.
Va detto, però, che il socialismo ha avuto anche un’altra rappresentazione del mondo, quando si è convinto che fosse alle spalle l’era delle crisi violente del capitalismo e che quel sistema, se temperato senza sostanziali interferenze, potesse vitalizzare l’intera società. Il socialismo liberale (da Crossland in poi) ha creduto, come ha sottolineato Amato nella sua ampia introduzione, che l’economia di mercato – adeguatamente tenuta con politiche macroeconomiche e di welfare – si sarebbe sorretta da sola e avrebbe messo in moto un processo che avrebbe realizzato fini identici a quelli perseguiti dal socialismo, portando verso una maggiore eguaglianza (in una società aperta, con ampia mobilità sociale e istruzione di massa). Per cui sarebbe stato necessario indirizzare lo Stato solo verso politiche correttive. Completava il quadro la convinzione – aggiunge Marzano – che i socialisti avrebbero naturalmente ricevuto lo scettro del governo dagli stessi capitalisti, quale migliore forza per stabilizzare il sistema produttivo e controllare le tensioni sociali. In realtà, quel meccanismo, tra finanziarizzazione e globalizzazione, ha funzionato accentuando le diseguaglianze (in occidente), che, per giunta, sembrano essergli funzionali e sottrarsi a qualsiasi indirizzo correttivo perseguito con gli strumenti tradizionali di redistribuzione (Amato). Con conseguenze politiche che allontanano dai partiti socialisti i ceti tradizionalmente rappresentati e rendono tendenzialmente ingovernabili le democrazie, nelle quali la spinta di questi ceti non porta più a politiche migliorative, ma al successo di partiti che offrono ospitalità alla protesta.
Il punto è che la mobilità sociale era legata alla forza del sindacato e a condizioni politiche in cui ciascuna delle due parti era in condizioni di “fare del male” all’altra. Oggi non c’è più la stessa paura del disordine sociale e, di conseguenza, non c’è la capacità della società di rinnovarsi (Borioni).
La fase attuale propone quindi non una convergenza, ma un duro scontro con l’avversario se il socialismo deve essere declinato prendendo sul serio i fondamentali (sociali) e l’uguaglianza, oltre che i diritti di libertà, che son quelli alla differenza (Ferrajoli). Se deve prendere sul serio, cioè, quanto sancito dalla Costituzione. A proposito di questa, Urbinati rileva che l’art. 1 (“fondata sul lavoro”) o gli articoli che si riferiscono al lavoro sprigionano un universalismo e un principio di inclusione e di accoglienza le cui potenzialità sono enormi. Non implicano un patto fra attori che guardavano al passato o che cercavano compromessi per un futuro breve, ma un impegno che i cittadini di domani avrebbero preso con se stessi a non cessare mai di preoccuparsi delle loro condizioni di dignità, quale fosse stato il contesto: “finché non sarà garantito a tutti il lavoro, non sarà garantita a tutti la libertà; finché non vi sarà sicurezza sociale, non vi sarà veramente democrazia politica” (commentava Basso).
Vi sono idee guida da recuperare. Mobilità sociale ed eguaglianza sono correlate e il socialismo o è eguaglianza o non è (Amato). E, accanto a questa, va recuperata la determinazione a “dare potere a chi non ce l’ha” (Tocci). Il socialismo non è soltanto lotta per raggiungere questa o quella conquista e rivendicazione, ma lotta per conquistare l’immaginario. E oggi proprio la natura oligarchica del sistema ripropone quell’idea forza, che, in fin dei conti, è un ricongiungimento al momento germinale in cui dalla sfera sociale il socialismo storico è passato alla sfera politica. Di Vittorio non citava misure specifiche per sintetizzare le conquiste del suo tempo, ma faceva riferimento al bracciante che piegava la testa quando incontrava il padrone, e che aveva cessato di farlo, camminando a busto diritto, una volta armato dei suoi diritti e della sua identità sociale. Oggi, una battaglia antioligarchica, propositiva, per “dare il potere a chi non ce l’ha”, svolta dentro un grande immaginario dovrebbe mirare a colmare la frattura tra élite e popolo (che è culturale, politica e antropologica) ricomponendo da sinistra un’identità generale dei soggetti. In fin dei conti Sanders e Corbyn hanno suscitato un entusiasmo enorme proprio dando voce a chi ne è privo, e dimostrando che il socialismo è un’idea forza ancora capace di mobilitare le persone e sollecitare l’immaginario, specie nei giovani.
Va tenuto fermo che l’immaginario collettivo può essere plasmato solo da un progetto collettivo. Oggi, però, siamo portati a concepire i diritti per spezzoni della società (come eredità del ’68, che ha fatto emergere identità specifiche), ricorda Florio citando Rosanvallon. E, – sempre per Rosanvallon – il perseguimento dell’eguaglianza nella diversità pone problemi alla sinistra che ha tratto (e trae potenzialmente) la sua forza dalla costruzione di una identità generale. Possiamo constatare che, oggettivamente, il 90% della popolazione è costituito di “nullatenenti” (con il possesso di abitazione, mutuo e una modesta liquidità o titoli, che vale niente rispetto al patrimonio dei più abbienti – Florio). Ma questo non semplifica la vita ai socialisti e impone loro una battaglia per i modelli culturali (in cui oggi sono soccombenti) perché è anche vero che quel 90% è costituito da tanti 0,0…01% e che l’aspirazione alla ricchezza è pervasiva nel corpo sociale, e altrettanto la convinzione individuale di poter sfuggire al destino degli altri (Ignazi, Marzano). Oggi, con la caduta dell’identità lavorativa, non è improbabile che chi lavora per guadagnarsi da vivere (anche sistematicamente) facendo poi la sera il disk jockey si senta soggettivamente disk jockey (Marzano), oppure che, indipendentemente dal lavoro svolto, chi è gay si senta soggettivamente tale e così via. Oltretutto, l’oggetto della rabbia individuale si dirige verso chi sta sotto nella scala sociale. Il tema della soggettività e dei modelli culturali sarà ripreso più avanti in sede di discussione sulla cultura comunitaria.
Difficile, poi, che una risposta collettiva possa avvenire senza una ripresa del conflitto e l’aspirazione delle forze del socialismo a interpretare il disagio, e rappresentare i soggetti sociali che in principio sono loro propri, e che Amato identifica in coloro che sono privati dello sviluppo della propria personalità (e che esprimono l’esigenza di una maggiore giustizia sociale).
Sul conflitto bisogna intendersi, proprio in ragione del venir meno del collante dell’identità lavorativa (Amato). Era nella lotta fra due classi e ora si parcellizza in ragione dei diversi fronti su cui può manifestarsi. Non che il classico terreno sociale sia scomparso – se il mercato globalizzato offre da un lato sovraprofitti e rendite, dall’altro bassi salari –, ma si esprime anche sul fronte ambientale, quello del controllo dell’informazione attraverso i big data ed altri ancora, dove è in gioco la tutela dei beni collettivi essenziali, oltre che la tutela dell’eguaglianza. Obiettivi anch’essi socialisti.
Cultura comunitaria, coesione e soggettività.
In estrema sintesi, per Salvati, i lineamenti del socialismo possono essere riassunti nella ricerca dei modi di tenere assieme la società e, quindi, di trovare risposte a un’esigenza di tenuta, contrastando la frammentazione che l’economia capitalistica produce. Questa ricerca propone nell’agenda politica il tema della fraternité della triade rivoluzionaria: una prospettiva etica attorno alla quale ruotano le riflessioni dei teorici recenti del socialismo (incluso Judt) che la identificano come fattore cruciale per far vivere una società più giusta. Il progetto socialista – per Rosanvallon – dovrebbe lavorare sulla consapevolezza che i rapporti fraterni non possono essere vissuti fino in fondo con enormi differenze che gli sono da ostacolo. Sarebbe un errore, tuttavia, considerare la coesione sociale come un tema prevalentemente economico, mentre i socialisti dovrebbero cercare anche idonee chiavi di risposta coerenti con i nuovi modi di aggregarsi che si presentano nella società (e di cui ci occuperemo più avanti) e che esprimono esigenze di comunità e collaborazione (Salvati). Essi dovrebbero dare sostanza, o raccogliere (ma anche far valere) la visione comunitaria che fa parte del loro bagaglio culturale (Biasco).
Qui sorge, come parentesi a lato del tema dei legami collettivi, la necessità di capire quale atteggiamento attiene a una visione socialista nei riguardi dell’affermazione dell’individualità personale, favorita da culture che permeano la società moderna e legittimano un approccio individualistico alla vita, specie in una parte del mondo giovanile, o fanno prevalere una visione economica delle relazioni sociali basata sulla priorità della logica costi-benifici su ogni altra logica (Urbinati). Mentre è ovvio che debba essere espressa una critica sociale verso comportamenti pervasi dalla richiesta di spazi di libertà senza responsabilità, o verso il conformismo di massa e il consumismo e quant’altro, sarebbe un errore se, in nome di ciò, i socialisti negassero i valori positivi della libera realizzazione della persona (e anche dell’aspirazione a una vita moderatamente confortevole – Biasco). D’altra parte, i socialisti hanno fatto passi da gigante in questa direzione inserendo nei loro programmi i diritti civili e le questioni di genere. E dovrebbero indicare tra i propri valori anche la libera espressione dell’immaginario e la risposta a una domanda di cultura e arte (Termini). I cambiamenti di soggettività in termini più individualistici non è detto, poi, che confliggano con il valore all’eguaglianza. Questa, fa notare Marzano, si è parzialmente ridefinita (soprattutto nelle culture giovanili più mature) non come livellamento della situazione sociale, ma come uguale diritto a essere diversi e autonomi, dove la libertà va intesa come un bene relazionale da legare alla possibilità che ne godano anche gli altri. Convive con un bisogno di riconoscimento degli altri (Marzano).
(E qui occorre notare – parentesi nella parentesi – come sia rimasta scoperta nel dibattito la questione – non unica, ne vedremo altre – della soggettività femminile, se non per l’accenno fatto da Cogliati Dezza all’avvento negli anni ’80 di due movimenti trasversali – il femminismo e l’ambientalismo – che immettono nella sfera politica anche il presidio della sfera individuale, ponendo altre categorie politiche rispetto la distinzione destra-sinistra).
Tornando al tema, il punto per i socialisti non sta in questo riconoscimento della persona e delle sue libere esigenze, ma nella capacità di agganciarlo a identità collettive e correlate solidalmente ai processi che abbracciano l’intera società, rispondendo contestualmente a una domanda di senso che pure esiste all’interno delle mutazioni della soggettività (Biasco). Il punto è far compiere il passo verso la politica sia alle forme spontanee di aggregazione sia a quelle che segnano il ritorno dell’antagonismo, trasformando queste espressioni della società in un motore di costruzione sociale (Salvati). L’operazione è culturale, oltre che politica, (ma anche di riconoscimento sociale, sottolinea Termini). Nel 1848 – quando Marx scriveva il Manifesto – non possiamo dire, ricorda Florio, che il lavoratore tessile si sentisse spontaneamente fratello del minatore (o del tornitore, magari nella stessa fabbrica) o che esistesse oggettivamente il proletariato. Questo è diventato soggetto politico quando ha acquistato una identità collettiva e una soggettività di classe. Le coalizioni che interpretano esigenze di mutamento nella società sono costruzioni politiche e non un dato che esiste spontaneamente nella natura della società. Costruzioni che richiedono anche un’opera controculturale in una società che propone egemonicamente modelli e valori individualistici (Biasco). Ragion per cui – sebbene la controffensiva politica si giochi sul piano degli attori politici – molto si può fare anche in campo intellettuale; prova ne siano i vent’anni di incubazione della rivoluzione neo-liberale che proponeva cose che sembravano velleitarie (Tocci).
L’operazione di aggregazione e la proposizione di una cultura comunitaria vanno ricostruite, secondo Biasco, anche cercando i collanti della società, e prefigurando nei programmi e nell’azione un’idea di organizzazione sociale che abbia un’ispirazione cooperativa, tale da rendere visibile l’opzione comunitaria. Egli ne fa un catalogo, partendo da un esempio. Cosa impedirebbe, si chiede, di concepire infrastrutture idonee a una comunità con la mobilitazione di un lavoro volontario per realizzarle? Porta il caso delle polisportive di Modena, una delle quali, da macello pubblico quale era, è diventata una superba struttura realizzata con 150.000 ore di lavoro volontario che in altre città avrebbe costituito un club esclusivo di lusso e qui è un luogo di ritrovo sociale dove un intero quartiere può vivere fuori casa con costi irrisori. E perché non potrebbero gli argini del Tevere essere sistemati con una mobilitazione di cittadini? Su un piano più generale, si potrebbero mettere beni pubblici in fondazioni e farli gestire dalla comunità interessata. Come principio, tutto ciò che è mutualistico o ciò che unisce le persone (o enti) per scopi coerenti con finalità collettive andrebbe premiato e perseguito. Fa parte di questa visione la previsione di consulte, la gestione organica dei distretti, la costruzione di forme di controllo dal basso dell’azione pubblica, l’assunzione di responsabilità collegiale degli attori collettivi, attraverso patti sociali costruiti nel tessuto istituzionale. I socialisti sono per dare ruolo e forza istituzionale alle aggregazioni intermedie tra cittadini e governo (in senso lato), che considerano parte indispensabile della democrazia pluralista. Attraverso i patti, queste aggregazioni vanno portate a perseguire gli interessi particolari in una direzione compatibile con (o indirizzata verso) l’interesse generale. I socialisti sono per tutto ciò che allarga il legame tra cittadini e rafforza la rappresentanza. Perché sia effettiva (afferma Tocci) non solo favoriscono ogni forma di aggregazione dal basso per scopi meritori, ma essi stessi devono essere promotori di istituzioni che consolidino i rapporti di potere, e mirino a ricomporre una eterogeneità sociale e una identità collettiva, agendo tanto nel tessuto statale quanto nella società. Rimane di insegnamento la tradizione dell’allora movimento operaio, capace di inventarsi istituzioni che non esistevano, quali le camere del lavoro, i servizi pubblici locali, di far affermare il mutualismo, produrre una cultura amministrativa e introdurre l’avviamento al lavoro e la formazione professionale, ecc. Quel modo di operare è ancora attuale e merita di essere ripensato in chiave contemporanea ed essere ancora un’idea guida (anche del sindacato).
Movimenti
Questa esigenza di costruire il tessuto sociale è più evidente quando rivolta al mondo del volontariato e dell’impegno sociale. Una soggettività indirizzata verso espressioni comunitarie esiste, e si esprime nella società soprattutto attraverso azioni svolte in forma organizzata e rivolte a migliorare le condizioni di svantaggiati, a dotare di diritti chi non può asserirli o ad affermare l’obiettivo dell’interesse pubblico in svariati campi, dalla sanità, all’ambiente, ecc. Ne nascono attività che prefigurano un “socialismo minuto” che si svolge dentro la quotidianità e investe il campo delle politiche pubbliche.
Cogliati Dezza ne dà una testimonianza dall’interno. Innanzi tutto, egli contesta che il conflitto si sia spento nella società. Forse una pacificazione è avvenuta nei luoghi di lavoro, ma il conflitto si è spostato e, in un certo senso, è esploso nei territori in altre forme rispetto a quelle tradizionali (che forse oggi sopravvivono solo nei movimenti per la casa). Basti pensare, per quanto attiene al suo campo di testimonianza (l’ambiente), ai quartiere Tamburi di Taranto, alla Terra dei Fuochi, ai conflitti in Val Susa e al 1.700.000 firme raccolte in Germania contro la TIIP (3 milioni in Europa).
Sarebbe un errore liquidare questi movimenti nella categoria del Nimby, perché essi non esprimono solo la difesa del proprio spazio, ma sono anche un’assunzione di responsabilità verso il territorio. Il comunitarismo (se così vogliamo chiamarlo) è stato un argine al centralismo, soprattutto nei riguardi delle grandi infrastrutture e in particolare della Legge Obiettivo.
È indubbio che ne nasca una nuova soggettività anche quando il socialismo è inconscio e quando chi lo pratica non sa di esercitarlo, perché spesso sviluppa la sua attività nel gruppo circoscritto di riferimento, in maniera autoreferenziale e prefigurativa (Marzano). Il limite del “socialismo in un solo gruppo” (o socialismo come affare privato) è diretta conseguenza di una percezione della politica come lontana e inarrivabile. Un sentimento di impotenza porta questo mondo a concentrarsi su ciò che dà più soddisfazione personale, e non lo induce a portare i valori sociali da cui muove fuori dalla propria sfera, o a implicare un rapporto con le questioni del potere e della ricchezza, dei rapporti di produzione, del governo in generale e della rappresentanza. La politica – continua Marzano – appare lontana o collocata in Europa o comunque molto sfuggente all’interno; la potenza costrittiva delle forze in campo appare fuori portata.
Nessun soggetto politico è interessato a trasformare questa propensione spontanea in un progetto per la società, nota Cogliati Dezza. Anche dove vi è una dimensione di conflitto, questo rimane precario. Ciò che manca è un soggetto politico che, stando sul territorio, costituisca il tessuto connettivo e dia continuità all’azione sociale e ne determini l’orizzonte. Ricordiamoci che negli anni del dopoguerra le lotte di fabbrica sarebbero rimaste disperse senza un partito che le avesse tenute insieme e avesse trasformato i protagonisti in soggetti politici. Oggi manca (i Cinque Stelle nella prima versione avevano molti quadri che venivano da lotte di territorio).
È compito dei socialisti lavorare nella società civile per sconfiggere questo sentimento di impotenza. Non si può pensare di raccogliere il fermento con proposte di federazione, ma cogliendo le nuove soggettività che esprime (Marzano). Il quale nota anche che nella forma in cui ha avuto successo, le modalità sono state quelle della politica contemporanea, dell’incontro tra un leader e un popolo.
Anche in assenza di un soggetto politico, il cambiamento c’è lo stesso in una direzione che è sfidante per una forza socialista (Cogliati Dezza): la cura dei beni comuni crea comunità; gli stili di vita innovativi creano mercati (qualità alimentare, mobilità su due ruote, turismo sostenibile); la possibilità che ciascuno si prenda cura della produzione della propria energia (resa possibile dalla tecnologia energetica) ha un impatto culturale notevole, oltre a modificare il potere dei grandi player (un tema ripreso anche da Termini). Questo per ciò che riguarda il campo ambientale, ma la molla del cambiamento pervade anche gli altri campi dove l’azione sociale, tesa nel quotidiano a una riduzione dell’ingiustizia insita nel diseguale accesso ai diritti, apre comunque la prospettiva riformista nel corpo sociale e impatta con l’interesse generale.
Va aggiunto che, accanto al tema del partito, questo universo del socialismo molecolare pone all’attenzione una cultura, anch’essa sfidante, che non esaurisce lo spazio pubblico con lo Stato (e qui Termini ricorda the guild socialism di Hilferding e Polanyi relativo allo spazio pubblico e partecipativo sul territorio locale, che può essere un terreno di costruzione di servizi collettivi e comuni fuori dai rapporti di mercato).
In definitiva, in questo universo, il socialismo può essere solo identificato col cambiamento e il rafforzamento degli spazi sociali. La capacità di rappresentarlo politicamente deve passare da lì.
Socialismo dall’alto e dal basso
Ovviamente, gli argomenti trattati portano a una discussione, che infatti vi è stata, sul socialismo dall’alto e dal basso.
È una disputa antica che si ripropone. Vi è stata nella storia del movimento operaio, ricorda Tocci, l’opzione di chi pensava (Turati) si dovesse indurre la coscienza proletaria dall’esterno. Ha prodotto sindacati, partiti, riforme e forse la grande storia del XX secolo, ma anche irrigidimento ideologico. Vi è stata anche l’altra opzione (Gnocchi Viani), più debole, di chi pensava che occorresse far crescere la coscienza per forza propria costruendo istituzioni all’interno della società civile, di cui si è detto. È forse ciò di cui abbiamo bisogno nel XXI secolo. Occorre, certamente, realizzare le riforme ed è vero che molti diritti si possono avere solo attraverso la sfera pubblica (come fa notare Amato). Ma è vero anche, per Tocci, che bisogna insegnare a far da sé, creando istituzioni sociali e trovando il socialismo nella vita quotidiana.
Di fronte alla questione del socialismo dal basso e dall’alto occorre capire se la ricerca, cui oggi assistiamo, di sviluppo della personalità individuale in forme disintermediate rispetto alla politica è conseguenza del fatto che lo si ritiene più appagante che affidarlo al rappresentante, o del fatto che si è persa la fiducia nel rappresentante. In questa seconda ipotesi c’è una speranza di affidare il perseguimento del socialismo all’azione politica (rigenerata), altrimenti ritorniamo alla disputa antica e non rimane che limitarci a prospettare il socialismo dal basso.
Per Marzano, è venuta meno non solo la fiducia nel rappresentante, ma anche nell’efficacia della politica (“il mondo è complicato; da qualche parte la politica conterà, ma come faccio io a incidere?”). In più, la riposizione di fiducia nell’azione pubblica ha bisogno di prove di efficacia che il governo oggi non è in grado di dare. Chiunque governi fa quello che il senso comune, l’egemonia dominante e la forza della finanza ritengono che si debba fare. Il governo non è il luogo migliore per fare politiche socialiste e giocare lì la partita. Il lavoro va fatto nelle casematte senza preoccupazioni immediate in termini elettorali e senza troppa fiducia in azioni dall’alto (nel presupposto e nell’attesa che si verifichino crisi nell’economia e nella società molto forti). Non è in discussione, per Biasco, che l’azione sociale debba indurre le persone a pensarsi protagoniste della propria storia, ma ciò non è in contraddizione col simulare comunque un governo che funzioni e possa applicare gli obiettivi che i socialisti si pongono, perché occorre dare una prospettiva di carattere generale ai militanti, effettivi e potenziali, e al popolo in generale. E qui si apre il discorso sullo Stato.
Stato e spazio pubblico
Alla visione del socialismo in binomio stretto col capitalismo fa da pendant quella dello Stato come fattore “disfunzionale” rispetto alle tendenze spontanee che il capitalismo produce (Prospero). Esso, in una prospettiva socialista, è concepito come elemento di conflitto e disciplinamento di quelle tendenze. Questo, innanzi tutto sul terreno della solidarietà. Marx, che egli ricorda, sosteneva che il socialismo non è un’alternativa tra protezionismo (o più Stato) e liberismo: esso è il contrasto ai differenziali di potere che il capitalismo strutturalmente produce; è la costruzione di una soggettività critica che contesti i rapporti sociali differenziati che si riproducono sistematicamente dopo momenti più egualitari in cui il mercato concede spazi di solidarietà.
Il socialismo, ricorda Amato, nasce sul terreno del potere e della solidarietà di classe, senza la quale non è in grado di operare, e le realizza fornendo ai deboli, cioè ai non abbienti, i diritti e le opportunità che possono avere solo attraverso l’uso delle risorse pubbliche e non private (salute, istruzione, provvista per la vecchiaia, ecc.). Dobbiamo all’azione pubblica se ai diritti civili si sono associati quelli sociali (e anche una maggiore capacità di esercitare gli stessi diritti civili). Ciò non fa negare che questa attitudine (prima della 2° Internazionale e poi della socialdemocrazia) abbia generato (oltre all’abbandono della coltivazione della società e del rapporto con essa, di cui si è detto) un eccesso di affidamento all’azione pubblica. Ma ciò è parte delle patologie della seconda metà del secolo XX°, che non attengono a nulla, se non a constatare che l’abbandono di quelle patologie in una fase successiva è costato caro quando ci si è affidati ai meccanismi di autocorrezione del sistema attraverso il mercato, delegando ad esso la produzione di quei beni e servizi che saggiamente erano stati affidati all’azione pubblica (Amato). E, aggiunge Ferrajoli, se vi è un costo sociale questo è nella mancata tutela dei diritti, non nella spesa sociale in quanto tale, perché i paesi occidentali sono i più ricchi del mondo in quanto hanno assicurato i minimi vitali (a partire dalla salute). Oggi stiamo andando indietro.
I caratteri “difunzionali” dell’intervento dello Stato non sono solo nella sfera sociale; quell’intervento è concepito anche per costruire la parità tra capitale e lavoro nei rapporti di forza (Borioni), promuovendo la democrazia economica.
È parte di una democratizzazione dell’economia estendere più ampiamente possibile la responsabilità sociale di chi opera nel mercato, e il ruolo controbilanciante delle istituzioni e di organismi collettivi della società civile nei confronti del potere dispositivo dei soggetti privati più forti, nonché l’estensione della partecipazione attiva degli attori alla vita economica (Biasco). Ciò dovrebbe esser raggiunto – sempre per Biasco – anche attraverso la definizione di uno statuto per l’impresa privata (e, perché no?, pubblica) affidato a un forte quadro giuridico e normativo che limiti i poteri concentrati e i comportamenti arbitrari e abbia al centro un diritto del lavoro non derogabile. Non c’è bisogno di negare il potenziale dinamico dell’operare del mercato per puntare a una espansione della socialità nel processo produttivo e alla salvaguardia degli interessi generali e dei terzi. Statuti di responsabilità sociale delle imprese dovrebbero essere obbligatori, ma dovrebbero trovare poi il modo di essere sostanziati attraverso un qualche potere di giudizio e sanzione da parte degli stakeholder, al di là di questioni che interessano la magistratura.
Altre forme di partecipazione e democratizzazione dell’economia, a cui molta letteratura si richiama, non hanno trovato tuttavia nel dibattito modo di essere discusse e valutate nella loro (non scontata) congruenza con la visione socialista; tra esse, l’azionariato popolare, la partecipazioni dei lavoratori agli utili, i consigli di sorveglianza, i controlli societari, codici etici, utilizzo dei fondi pensione (e, in parte, anche dei fondi comuni) in ingegnerie sociali, attività cooperativa; e, in più, la presenza dei lavoratori in organi di controllo e nel comitato compensi, e tutte le forme di disciplinamento del comportamento delle imprese, a partire dalla loro governance e dalla tutela delle minoranze e del conflitto di interessi. Si tratta di forme e indirizzi che correggono la primazia della “creazione di valore”.
Ha trovato discussione, invece, il ruolo dello Stato nel settore produttivo. Al centro di una visione socialista rimane l’opzione a favore della preservazione della responsabilità pubblica negli assetti produttivi (e sociali), nonché la presenza di un’ampia sfera pubblica e di un capitale pubblico, dove è necessaria come forza d’urto per la protezione dei più deboli, per la crescita, per lo stimolo agli investimenti e alla tecnologia, per la creazione di spazi condivisi e per l’erogazione di servizi collettivi (Biasco). Fa parte del quadro l’obiettivo di definanziarizzare l’economia, e regolamentare la finanza in modo stringente, ma questo è perseguibile a un livello superiore (internazionale) e quindi trattato più avanti.
Rispetto alla conduzione dell’economia, emerge nuovamente la discrasia tra la piega che hanno preso le nostre economie e i pilastri sottostanti il liberal-socialismo, che hanno portato all’accettazione di quel mantra per cui al governo (in senso lato) attengono con moderazione solo politiche sul piano macro, monetarie e di politica fiscale, in quanto le più coerenti con il funzionamento del mercato, meno invasive e discrezionali (Amato). Questo va superato. Quel mantra culturale ha portato, concettualmente, al ridimensionamento dell’intervento diretto dello Stato, se si escludono le politiche (in negativo) di flessibilizzazione e concorrenza nei mercati e di riduzione di regole. Ma, quand’anche fossero le sole alla base di indirizzi per far riprendere l’economia, il significato socialista deve comunque essere rivendicato, perché potrebbero averne semplicemente uno ripristinatorio, non atto all’ampliamento delle opportunità lavorative e redistributive.
In realtà, ciò che è necessario rivalutare sono le politiche industriali e l’intervento diretto. E non solo; perché attiene al ruolo statale essere dentro i processi, guidarli e coordinare gli attori, avere un’idea chiara degli interessi generali, oltre la determinazione a farli valere (Biasco). Attiene all’azione statale svolgere, in generale, politiche microeconomiche, di cui si nutre una politica socialista (Amato); politiche di innovazione, di formazione, del credito e quant’altro, che sono state ridotte al massimo ad automatismi quando non ne sono stati soppressi gli strumenti (per poi recuperarli disordinatamente, vedi in Italia la CDDPP).
Il tema delle infrastrutture e dell’investimento si ripresenterà sotto altro profilo più avanti. Qui va comunque notato (Biasco) che pensare al futuro attraverso la dotazione di capitale fisso sociale vuol dire consegnare alle nuove generazioni un potenziale produttivo accresciuto, e questo è di per sé una componente della politica socialista, perché la sensibilità per i diritti delle generazioni future non può non far parte dei loro riferimenti distintivi (come ricordava a suo tempo Vittorio Foa).
Se la visione socialista pone il partito che la rappresenta come il difensore (intelligente) delle prerogative e della proprietà pubblica e dei beni comuni (in alternativa alla società liberalizzata) questo non deve avvenire in senso conservatore. I socialisti devono proporsi di conferire alla sfera pubblica prestigio e legittimità tali da far riscoprire ai cittadini il “piacere del pubblico”, di cui tanti sono i sintomi da valorizzare e incoraggiare. Nello stesso momento in cui contrastano il disfavore verso lo stato (cui conduce la cultura egemone) e i tanti luoghi comuni che ne discendono sull’ineluttabile inefficienza del settore pubblico, devono esercitare una forte determinazione a mettere in campo tutti i dispositivi necessari a vincere la sfida dell’efficienza e del buon operare attraverso le politiche più rigorose per raggiungere l’obiettivo (Biasco). Si tratta di politiche di controllo da parte degli utenti sull’azione pubblica, di incentivi e disincentivi, target, poteri sostitutivi, trasparenza, e un’intelligente disciplina del lavoro pubblico e dell’apparato amministrativo, oltre che la diffusione di culture di servizio al cittadino. Similmente, mentre difendono un concetto di efficienza pubblica (che è efficienza plurima) dall’identificazione con i criteri che danno il metro dell’efficienza privata, devono rendere il criterio pubblico sempre verificabile rispetto a obiettivi esplicitati e definiti a priori. Tra questi, le ragioni della sicurezza in senso lato (sociale, ambientale, territoriale, di prospettive del futuro, personale) che vanno fatte coincidere con quelle della crescita economica.
Ingegneria sociale
Guardando in retrospettiva alla presenza dello Stato nell’economia, Florio ha fatto notare come in un certo senso il programma storico del socialismo si sia largamente affermato attraverso l’espansione delle funzioni pubbliche (riflesse, probabilmente per difetto, nell’indicatore sintetico della spesa statale, che nei paesi occidentali dall’11% circa del pil nel 1870 è passata gradualmente al 44% nel 2014, con una differenza rispetto alla crescita della spesa privata che è grosso modo identica tra paesi che hanno avuto prevalenti governi socialdemocratici e paesi dove questi sono stati pressoché assenti). Non si è trattato solo di un traino esercitato dalla necessità di rimediare ai difetti irrisolti e autodistruttivi del capitalismo (tendenza al monopolio, alla concentrazione di ricchezza e all’instabilità) e nemmeno riconducibile tutto alla sfida impressa ad un certo punto dall’alternativa del comunismo. Ma si è trattato anche di una evoluzione autonoma (in parte più recente) verso spese “non funzionali” alla sua stretta sopravvivenza, in risposta a una genuina domanda sociale di beni e servizi “superiori” che il mercato non assicura e che richiedono una produzione di tipo nuovo che è lo Stato a poter produrre (e che oggi identificheremmo, ad esempio, nella gestione di rischi collettivi di lungo periodo come il cambiamento climatico, l’invecchiamento della popolazione, nei beni pubblici come la conoscenza e la cultura, ecc.). In un certo senso nella sua evoluzione storica il capitalismo è andato oltre sé stesso. Contro questa evoluzione il neo-liberismo appare come un programma di restaurazione, di retroguardia e antistorico. Se guardiamo alle misure che Marx e Engels ponevano nel Manifesto del 1848 come base di superamento delle logiche del capitalismo (“che appariranno insufficienti e insostenibili, ma indispensabili per rivoluzionare il modo di produzione capitalistico”), vediamo che queste sono state largamente realizzate e spesso si è andati oltre. Ed è, nella traduzione moderna di quelle proposte, secondo Florio, che si possono mettere in fila alcuni indirizzi di “disfunzionalità” diretti verso ulteriori trasformazioni del capitalismo e che allarghino le logiche di socialità nelle direzioni cui ha già portato la tendenza storica.
E qui sorge spontanea una domanda, che pure è stata sollevata nel dibattito, relativa a quanto le aspirazioni esplicitate dei socialisti possano prescindere dalle condizioni storiche, dalle alleanze per realizzarle, dagli umori sociali largamente diffusi, dalle condizioni di apertura internazionale dei mercati, dalla fattibilità finanziaria. Forse è importante avere nello sfondo i punti di riferimento cui tendere, ma è altrettanto importante non perdere il realismo delle cose (e stare alla dimensione del nostro passo e non a quella del nostro desiderio – Amato), pur nella consapevolezza che il socialismo è sempre una forzatura della realtà, una correzione discrezionale delle tendenze spontanee e un guardare oltre la società esistente. Forse (e nella cautela imposta dal fatto, non renderlo un puro esercizio) occorrerà riprendere a ragionare in termini di ingegneria e aspirazioni verso l’assetto sociale per cui quello di Florio è quanto meno un richiamo a farlo e a capire l’ampiezza della battaglia culturale che necessiterebbe.
Attualizzando i meccanismi di correzione del capitalismo posti dal Manifesto del 1848, le indicazioni che Florio porta vanno in varie direzioni (che, precisa, sono più congrue in uno spazio politico europeo). a) L’uso della natura, del suolo urbano e del sottosuolo va rivendicato alla sovranità pubblica, anche se possono non essere escluse gestioni private sorrette da progetti a lungo termine. La rendita derivante trasferita allo Stato andrebbe messa in fondi sovrani dedicati a uno scopo che benefici la collettività. b) Vanno considerati attentamente schemi di creazione di un fondo nazionale che acquisisca gradualmente una quota di proprietà delle imprese private sopra certe soglie dimensionali. c) Un’imposta di successione progressiva dovrebbe stabilire le soglie oltre le quali vi sia un’acquisizione integrale al patrimonio dello Stato. Meglio, presumibilmente, questa perequazione a priori (che Gallo chiamerà “predistributiva”) che le politiche redistributive che agiscono sempre ex post, di fronte a diseguaglianze continuamente riprodotte. d) L’evasione dovrebbe essere rubricata come furto ai danni della collettività, senza escludere la confisca dei beni. e) Lo Stato dovrebbe operare con proprie banche di sviluppo che abbiano la missione di sostenere i progetti di investimento anche in settori privi di garanzie (giovani e immigrati, oltre che di pmi). f) Dovrebbe dotarsi di imprese a missione pubblica (vincolate da rigorosi contratti di servizio) nei settori strategici (per guidare progetti di mobilità sostenibile, l’uscita dall’auto, la transizione energetica, la gratuità delle prestazioni informatiche e di telecomunicazione (dove i costi d’impianto sono ormai ammortizzati) e le finalità pubbliche in molti altri indirizzi produttivi, eliminando la rendita privata. g) La piena occupazione andrebbe perseguita non solo con politiche aggregate di domanda, ma anche con politiche dirette di domanda di lavoro volte a rendere possibile e obbligatorio lo svolgimento di attività socialmente utili come contropartita al reddito di sostegno (limitando al massimo l’indennità di disoccupazione). h) Occorre mantenere l’integrità della scuola opponendosi al cedimento all’istruzione privata assistita dallo Stato, nella consapevolezza che una solida coscienza democratica ha bisogno della costruzione delle basi culturali nazionali. i) E, poi, allargare il sistema assicurativo nazionale verso la protezione dai grandi rischi (ambientali, demografici, sanitari, di autosufficienza, ecc).
La parte fiscale, relativa alla progressività, è stata ripresa da Gallo nella chiave di come il sistema fiscale potrebbe contribuire a quella funzione equitativa cui aspirano i socialisti. È indubbio che la progressività si sia molto ridotta e che andrebbe ripristinata (con misure, che egli indica, dal lato della spesa e dirette ai nuclei familiari e con l’istituzione di un reddito minimo, ma su cui occorrerà ritornare quando sarà affrontato l’approfondimento programmatico degli indirizzi, che in questa discussione sono solo enunciati). Ma bisogna far svolgere al fisco anche una funzione “pre-distributiva” (operante cioè prima ancora di sapere come il reddito si distribuisce) e non solo redistributiva, quindi più orientata sulla ricchezza che sul reddito. Questo non vuol dire – per lo meno in Italia – che debba essere disconosciuto l’obiettivo di sgravare i redditi di famiglie e imprese, che sono fortemente tassati; un obiettivo che va conciliato con quello di difendere il finanziamento dello Stato sociale (e sostenere gli investimenti). Per la compatibilità tra questi obiettivi, il sistema impositivo dovrebbe indirizzarsi – più che verso la ricchezza tradizionale (ma anche verso quella) – verso nuove forme di ricchezza “moderna” che andrebbero assoggettate a tassazione e che oggi non sono prese in considerazione ai fini fiscali. Si tratta del godimento di beni intangibili di cui godono in esclusiva alcuni e non altri (determinando dei vantaggi relativi), le cosiddette new properties, quali, ad esempio, la disponibilità di beni ambientali. Ma poi occorrerebbe considerare la carbon tax o i tributi che colpiscono le più diverse forme di occupazione dell’etere (ad esempio, ma non solo, la c.d. bit tax), quelli che potrebbero avere per oggetto la stessa raccolta gratuita dei dati compiuta dalle imprese dell’economia digitale. E si potrebbe recuperare gettito (oltre che dalla lotta all’evasione fiscale, che è sempre un programma equitativo) dai profitti realizzati dalle multinazionali nei territorio nazionale e tassati in paradisi fiscali; ciò non attraverso l’accertamento quanto piuttosto con preciso obbligo previsto dalla legge (in attesa di un indirizzo organico europeo). Europea dovrebbe essere anche l’imposizione sulle transazioni finanziarie.
Per assoggettare gli intangibles e, comunque, colpire quei presupposti d’imposta diversi dal reddito che esprimono vantaggi economicamente valutabili, ma non contengono in sé gli elementi patrimoniali necessari a pagare il relativo tributo, occorre che il sistema giuridico ponga meno enfasi sulla tutela dei diritti proprietari. Dovrebbe orientarsi, cioè, verso una più decisa riconduzione del principio di capacità contributiva a quello di uguaglianza sostanziale che consenta, appunto, la tassazione di quei soggetti che, rispetto ad altri, godono di una posizione di vantaggio nella società in virtù dell’utilizzo dei beni collettivi. Ad esempio, dell’ambiente. In ogni caso, per Gallo, ci si dovrebbe ben guardare dal tagliare le tasse sugli alti redditi e sui grandi patrimoni, che certamente non servirebbe a creare nuovi posti di lavoro.
Sintonia con le trasformazioni e opzione per la crescita
Se è vero che l’azione socialista mira a politiche di eguaglianza, coesione e rafforzamento della sicurezza sociale, essa nondimeno è guidata dalla stella polare di coniugare quelle politiche con l’obiettivo di un maggior benessere generale, perseguito attraverso il rafforzamento dell’apparato produttivo e la crescita del reddito. La legittimazione a governare la società non viene solo dalla redistribuzione, ma anche dalla capacità di mantenere dinamica un’economia mista e di saper disporre di un regime di investimento che si carichi della missione. Senza questa capacità la difesa della coesione e del lavoro è più debole. Se uno degli obiettivi è elevare la formazione e le competenze, ci vogliono investimenti che queste competenze domandino (precisa Borioni). La questione non è, però, quantitativa, per lo meno non solo: la rivendicazione di maggiori investimenti pubblici sarebbe insufficiente anche di fronte a una economia stagnante, se non fossero indirizzati verso destinazioni capaci di modificare un ciclo di sviluppo che giunge al suo termine e promuovere quello successivo adottando strumenti che lo rendano possibile (Amato). Difficilmente il socialismo può acquistare il carisma del passato, aggiunge Carboni, senza una visione di medio raggio su alcuni nodi sociali che riguardano le nuove ambientazioni tecnologiche e finanziarie e le loro utopie e le loro distopie. Tecnologia (terza rivoluzione tecnologica) e finanza (finanziarizzazione del sociale) hanno dimostrato di avere grandi potenziali di integrazione, ma costituiscono anche potenziali di conflitto (Carboni).
La consapevolezza che il saper gestire l’evoluzione e la performance del capitalismo sia compito delle forze socialiste fa parte della loro migliore tradizione. E altrettanto lo è il suo corollario, relativo all’aspirazione a guidare coalizioni che ricomprendano anche le parti sociali più associate al dinamismo produttivo, innovativo e cognitivo.
Di conseguenza, i socialisti devono saper interpretare con lungimiranza le tendenze della società e aspirare a organizzarla penetrando in profondità nel futuro delle sue possibili evoluzioni e mutazioni. Come nel caso – fa notare Carboni – delle enormi capitalizzazioni di nuove società (quasi tutte statunitensi e informatiche) con un numero limitato di occupati o quello di società che non sono proprietarie dei mezzi o dei contenuti che mobilitano, né elargiscono salari ma hanno enorme influenza nel mercato e nell’immaginario.
Questo oggi si traduce nella necessità di entrare in fenomeni nuovi generati dalla trazione finanziaria e tecnologica, che incidono fortemente sul tessuto sociale e hanno enormi conseguenze culturali non ancora metabolizzate (Carboni, Egidi e Termini). Quella relativa alla “finanziarizzazione del tessuto sociale”, esplosa a cavallo dei due secoli attraverso non solo la diffusione del possesso di titoli o altro, ma la facilità di credito al consumo, per comprare case, finanziare studi e vacanze (un vero welfare finanziario) è forse potenzialmente alle nostre spalle ed è di certo fallita. In più, in relazione a questa rivoluzione, è più facile capire gli orientamenti da prendere verso una regolazione che non la neghi ma ne impedisca gli eccessi e contrasti la diffusione in profondità nel tessuto sociale (onde contrastare le conseguenze che ha sulla concentrazione della ricchezza e sull’accrescimento dell’instabilità). Ma altri fenomeni nuovi sono in corso, quali l’accettazione sociale che la tecnologia ha in una società che la usa in grande quantità (Carboni) e per la quale le direzioni da prendere sono molto più incerte, date l’ambiguità delle sue ricadute (Amato).
Questo ruolo che sta assumendo la tecnologia colloca la legittimazione a governare nella capacità di implementare il processo tecnologico e impone ai socialisti di entrare nelle conseguenze stesse della nuova ambientazione e delle sue contraddizioni. Già Habermas, ricordato da Carboni, aveva sottolineato, quaranta anni fa, quanto il progresso tecnologico fosse il principale meccanismo di legittimazione sociale – rispetto a quello politico-istituzionale che perdeva colpi. La fase in cui stiamo entrando non è stata mai sperimentata finora, ed è una fase in cui la robotica industriale e quella domestica stanno avanzando (e si prevede che esploderanno entro il 2030) grazie a un’intelligenza artificiale che rende un robot un agente che parla ed esegue. Soprattutto, è in grado di apprendere. Questi sviluppi sono tali da fare immaginare una società liberata dal lavoro, almeno quello più routinario e pesante, e forse anche concepire l’utopia di un “dividendo sociale”. Incombe però intanto l’inferno della disoccupazione tecnologica, della disoccupazione giovanile, delle varie distopie tecnologiche che paventano perfino trasformazioni antropologiche e della personalità. La disoccupazione giovanile, sostiene Carboni, rappresenta il tipico caso in cui il socialismo deve vestire innanzitutto i panni del progresso civile, e, se è il caso, anteporre investimenti adeguati ad alzare significativamente il nostro tasso di scolarizzazione (compresa quella universitaria) ad ambiziosi programmi sociali.
Connesso al primo, vi è poi il fenomeno nuovo del cambiamento del modo di lavorare e della natura del lavoro, con le conseguenze sociali che comporta (Egidi).
Finché i processi lavorativi e organizzativi erano eseguibili in modo semplice, ripetitivo e routinario, il mercato del lavoro era estremamente ampio e larga parte dei lavoratori, dovendo svolgere mansioni relativamente semplici, poteva facilmente apprendere un nuovo lavoro di fronte alle innovazioni tecnologiche. Questo rimarrà come modello residuale (specie trasportato nei paesi in via di sviluppo). Con l’era della robotica, continua Egidi, la sostituzione del lavoro umano con quello meccanico è divenuta molto più sofisticata e trasversale, e si verifica in tutti i ruoli operativi delle organizzazioni. Questo cambia radicalmente il ruolo dei ceti sociali intermedi, ponendone a rischio il posizionamento economico e sociale (con effetti politici ben visibili nei recenti esiti elettorali.) Di conseguenza deve cambiare la natura delle politiche del lavoro e delle politiche sociali.
E quindi va compiuto il massimo di sforzo di elaborazione e progettazione per affrontare queste tendenze, ricordando che quando il socialismo della tradizione agiva per difendere i diritti di fronte alle diseguaglianze esistenti non aveva in mente di porre un tampone a qualche elemento specifico di diseguaglianza, ma di far avanzare la modernizzazione della società. Questo “automatismo” non sussiste più, e il compito del futuro sarà di costruire delle istituzioni capaci di ridare agli individui le chances di crescita professionale e sociale che essi stanno lentamente perdendo.
In questa fase della industrializzazione, il lavoro richiede sempre più capacità di apprendere e vede accresciuto il suo ruolo come fattore di possibile affermazione delle capacità e attitudini individuali. Il problema è come trasformare questa possibilità in realizzazione attraverso una politica efficace, poiché accanto alle possibilità sono aumentati anche i rischi: nei paesi industrialmente più avanzati il mercato del lavoro diverrà molto meno fluido che nel passato, poiché imparare nuovi ruoli diverrà sempre più complesso e richiederà sempre più tempo di apprendimento.
È un processo cui non siamo abituati (tanto è vero che le famiglie italiane stanno reagendo in modo sbagliato: meno istruzione, meno conoscenza e più conoscenze; e spesso anche le imprese, quelle che non sono esposte alla competizione internazionale: meno rischio e più rendita). Per prendere il fenomeno a monte e figurare cosa vuol dire in questa situazione proporre un nuovo modo di pensare il socialismo nei suoi principi occorre, innanzi tutto, una politica più attiva di organizzazione della società e del lavoro. Una politica che, proiettata nel futuro, dovrà affrontare il mismatch di domanda-offerta di lavoro e, in primo luogo, di lavoratori giovani e di media età con metodi nuovi. Dovrà puntare su reti sociali che, operando sul mercato, siano in grado di fungere da strutture intermedie e guidare le parti a rimodellare le capacità secondo il modo in cui funzionerà il mercato del lavoro del futuro (e la società tecnologica che vi è connessa).
Un altro cambiamento da affrontare, non necessariamente coincidente con quello sollevato da Egidi e Carboni, è il venire in essere di una nuova forma di capitalismo digitale e di servizi (Termini). Pensiamo all’impatto sociale (ma anche industriale) che creano le nuove tecnologie energetiche (già citate prima), le reti nelle smart cities, la sharing economy o altro. Questo pone ai socialisti il tema di come dirigere la crescita verso indirizzi sostenibili e riorganizzare la vita sociale e individuale, portandola verso una partecipazione attiva e che apra spazi di democrazia. Il problema chiave da affrontare in questo contesto, sempre secondo Termini, sono i diritti di proprietà intellettuale. Occorre impedire che i produttori di frontiera dell’ICT, o le grandi compagnie dell’energia o della finanza, o altro, sotto un’apparente difesa del mercato, proteggano le rendite e impongano allo Stato le loro regole e i loro profitti. Le piattaforme abilitanti proprietarie sono beni comuni. La possibilità che si creino monopoli legali apre un’esigenza di intervento pubblico per regolarle e renderle aperte e fruibili a tutti (anche a pagamento) impedendo, però, che siano remunerate oltre gli investimenti che vengono fatti e concordati su tali piattaforme e gli incrementi di produttività apportati. E, in ogni caso, questi ultimi vanno divisi con i cittadini. È necessario distinguere tra proprietà e uso. È un pezzo programmatico che una forza socialista dovrebbe rivendicare.
Altro
Evocata in connessione ai vari argomenti, forse la rete meriterebbe di essere portata in evidenza in una discussione comprensiva di tutti i suoi aspetti (in questa discussione solo impostata per spezzoni), per capire come possa impattare con la visione di democrazia che hanno i socialisti. La rete non è solo uno strumento di comunicazione, ma cambia l’immaginario, le culture, il modo di comunicare, specie delle nuove generazioni.
Rimangono tre questioni che sono state discusse e che sono in fondo, non per la loro importanza (tutt’altro), ma per ragioni espositive: l’internazionalismo, il partito, la rappresentazione teorica.
Internazionalismo
È stato più facile all’economia fuoriuscire dai confini nazionali che all’azione politico-pubblica seguirla al di fuori di quei confini. E questo pone un grande tema ai socialisti, perché la loro prospettiva è messa in dubbio anche dall’assenza di una governance sovranazionale nella quale inglobare il senso del governo dell’economia in funzione di uguaglianza e crescita (Amato).
L’internazionalismo odierno – a parte l’ovvio supporto per la soluzione negoziata dei conflitti e a chi lotta per maggiore democrazia, specie nei regimi autoritari e semi autoritari – non può certo più consistere nella retorica del vecchio internazionalismo operaio, ma è nell’opzione per un governo dell’economia e delle vicende mondiali il più esteso possibile. Forse si è persa l’occasione, con l’uscita di scena di Obama (e il ripudio della sua eredità intellettuale di esercizio del soft power), di realizzare un neo-atlantismo democratico contro la destra anglosassone del ripiegamento e la trappola tedesca di fuga dalle responsabilità internazionali e a favore dell’austerità (Tocci).
I socialisti, se anche dovranno in questa fase accontentarsi di passi intermedi preliminari (frutto di accordi tra stati), sono consci che tanti obiettivi in linea con il loro programma (nell’ambiente, contro la corruzione e l’evasione fiscale, per la limitazione dello strapotere di pochi soggetti nella finanza, nelle piattaforme e nell’informazione) sono ottenibili più efficacemente disponendo di sedi di governo sovranazionale adeguato alla dimensione dei problemi di oggi (Amato).
Per ciò che concerne l’Europa, l’internazionalismo di ogni singolo partito che si richiami al socialismo ha il terreno più importante nella chiamata in causa delle altre forze socialiste e democratiche europee per creare un fronte che metta in moto un ridisegno significativo della costruzione europea e dia vita a uno Stato che sempre più avvicini lo stato federale (Biasco). Oggi l’Europa è in una fase di decadenza, e uscire dalla decadenza è qualcosa di più che stabilire i principi di contrasto alla diseguaglianza.
Porre con forza la questione dei poteri sovranazionali non è un fine in sé, ma il raggiungimento di un livello di governo al quale sia possibile riconquistare un orizzonte socialista: ricostruire i caratteri dell’economia mista, porre regole al capitalismo e alla finanza mondiale (la de-finanziarizzazione, di cui si è parlato), affrontare questioni del potere esercitato da soggetti privati, mettere in campo politiche industriali e dell’innovazione e dell’ambiente e riconquistare una sovranità fiscale, ponendo fine alla concorrenza che vi è stata in questo campo. I poteri sovranazionali devono essere anche indirizzati a costruire un ambito socialmente significativo, a partire dal perseguimento della piena occupazione e della difesa di un welfare universalistico (quindi: non solo spazi per fare individualmente più debiti e utilizzarli nel mercato politico interno).
Il partito
Il tema del partito ha percorso trasversalmente e ricorrentemente tutti gli altri, rimanendo nel sottofondo. Per Ferrajoli e Ignazi, che hanno trattato il punto più approfonditamente, la crisi della politica è oggi qualcosa di più radicale della crisi del socialismo, e la stessa ripresa del socialismo presuppone la ricostruzione di processi democratici che abbiano al centro i partiti (il sistema dei partiti). Il loro discredito trascina quello del Parlamento, della rappresentanza e della democrazia. Nella prospettiva del socialismo, la priorità è il rapporto tra partiti e società, ma questo rapporto non può essere ricostituito solo attraverso i movimenti e il volontariato. Per quanto questi ultimi possano alimentare senso di solidarietà e coscienza sociale, il partito(/i partiti) è al centro della questione e altrettanto lo è la sua capacità di tornare ad avere un ruolo di indirizzo politico, che è cosa diversa dall’organizzazione del consenso. È storia nota che oggi la politica, al di là dei movimenti – che pure la reclamano come essenziale – riduce la partecipazione dei cittadini al tifo in concorsi di bellezza tra leader e capi che dicono la stessa cosa. I partiti sono diventati strumenti di un leader, sono statalizzati e portati a identificarsi con lo Stato, colonizzando gli apparati pubblici; si sono trasformati in gruppi di potere (esposti a infiltrazioni, carrierismi, conflitti di interessi), o, nel migliore dei casi, in macchine elettorali. I partiti socialisti, poi, sono diventati partiti di ceto medio intellettuale e cosmopolita con ridotta presenza dei ceti sottoprivilegiati.
La domanda centrale è come si rifondano i partiti. Per quanto oggi siano diventati corpi estranei alla società, vanno restituiti ad essa attraverso una riforma che li porti a ricomporre la rappresentanza e a concorrere a determinare la politica nazionale. Ignazi ritiene che nessuna delle forme proposte nel dibattito politico corrente (movimenti, democrazia diretta, democrazia deliberativa) – tutte forme che, a suo parere, ratificano l’espulsione del conflitto dalla società – ha senso senza una riproposizione del conflitto medesimo. Ferrajoli è alquanto drastico sul punto: i partiti sono in conflitto di interessi per arrivare a una riforma di sé stessi, occorre arrivarci per sollecitazione esterna e normativa. Occorre normare non solo le procedure democratiche, la trasparenza, le regole di convivenza interna, lo statuto delle minoranze e forme di controllo da parte degli eletti, ma anche sancire l’incompatibilità dei responsabili di partito a coprire cariche istituzionali o far parte delle assemblee legislative. La formazione di dirigenti e rappresentanti richiede alterità tra controllati e controllanti, rappresentanti e rappresentati.
Biasco aggiunge che, per quanto si possa avere fiducia in un’etero riforma dei partiti, questo non elimina la necessità di un’autoriforma, né garantisce da sola modalità d’essere che dovrebbero caratterizzare un partito rappresentativo del socialismo. Quest’ultimo dovrebbe già prefigurare al suo interno, nel modo di svolgimento delle funzioni politiche, gli elementi della società che vuole costruire. Al di là delle scelte di fondo, che si deve presupporre siano sempre coerenti con un’impostazione socialista come vista nei vari temi della discussione, abbiamo bisogno di un partito sciolto nella società, radicato, che viva di inchiesta, di formazione, di prove sul campo, di monitoraggio dell’azione pubblica. Un partito capace di elaborazione, i cui obiettivi siano costruiti assieme ai suoi militanti e ai cittadini e che sia per questi una palestra di educazione civica e di elevazione culturale, politica e morale. Dovrà essere capace anche di selezionare una classe dirigente competente e di sinceri e disinteressati servitori pubblici. Essere un melting pot e un luogo di solidarietà (anche personale), non un luogo dove si riproducono all’interno le forme delle differenziazioni e della gerarchie sociali. Deve sempre mantenere la sua stella polare nella finalità di elevare le classi subordinate a classi dirigenti. Un partito che sia tante cose, meno che un’organizzazione elettorale al servizio di un leader nazionale o di leader locali, o un partito liquido. Nonostante che le sue scelte e la sua immagine possano (e debbano) condensarsi in un leader (o meglio una leadership) – che è bene sia resa autorevole e sia supportata – il partito è un’entità collegiale e solidale dove si esercita una intelligenza collettiva senza padroni assoluti, né cerchi magici
Lo stato della teoria
Parte integrante e fondamentale di una ripresa del socialismo è la ripresa di una riflessione teorica sul suo profilo e fondamento. È stato quindi importante chiedersi dove stia andando la letteratura teorica recente, pur tralasciando la domanda di cosa sia rimasto dell’eredità dei grandi classici che hanno fondato il pensiero socialista e democratico (Marx, Bernstein, Gramsci, Myrdal, Keynes, Polanyi, Strachey, Crossland, Titmuss, Minsky, e altri).
Molti riferimenti a pensatori contemporanei sono stati via via introdotti in connessione ai temi discussi. Ma Il merito di aver ricostruito il panorama della letteratura recente è di Prospero. Egli nota come la crisi delle categorie interpretative si verifichi già negli anni di forza della socialdemocrazia a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, con le difficoltà del governo laburista inglese e il dietrofront di Mitterand rispetto alle ambizioni che si era dato di governare l’economia. Ciò che va in crisi è l’idea di “transizione al socialismo”, cioè l’idea che conquistando il governo sarebbe stato possibile determinare una discontinuità qualitativa, apportare riforme strutturali al capitalismo e determinare un mutamento dei rapporti di forza fondamentali. La base è un’idea classica, risalente a Machiavelli e Hobbes, che vede lo Stato e la politica come elementi che creano e controllano l’ordinamento sociale. Questa impostazione entra, però, in crisi quando prende forza la discrasia tra attitudine del governo a stabilire l’ordine sociale e capacità di farlo, in quando lo Stato nazionale finisce per essere incardinato in un ordine internazionale basato sul mercato. L’ordine sociale si autonomizza dalla capacità di intervento della politica. A ciò si lega la perdita dell’atteggiamento critico e riformista dentro le società occidentali: la politica si personalizza e si de-socializza, cade la capacità di rappresentanza, perdono importanza classi e ideologia (a favore della persona), il codice penale sostituisce il codice del conflitto sociale (è ciò che Rosanvallon chiama “democrazia dell’imputazione” che contrappone a “democrazia dell’equilibrio”). Questa evoluzione ha trovato interpreti che l’hanno inquadrata nei suoi lineamenti fondamentali, più che teorici, che abbiano tentato di dare, su queste basi, un profilo normativo al socialismo. Come afferma Tocci, il socialismo non ha mai avuto il suo Weber, visto che anche Marx ha soprattutto teorizzato sul capitalismo.
Vi sono stati tentativi, ricorda Prospero, di coniugare Foucault e Gramsci nella lettura dei processi di globalizzazione o Gramsci al populismo e alla democrazia radicale. La realtà è che non esiste una dottrina – a parte qualche sensibilità individuale di accademici prevalentemente statunitensi – che lavori criticamente per ripensare le sue categorie analitiche. Ciò che predomina nelle culture della sinistra sono declinazioni più radicali maturate nell’universo teorico della democrazia (Rawls, Habermas, ad esempio) che oscillano tra liberalismo critico, idealismo critico e neo-contrattualismo (tra istanze di democrazia deliberativa e un ripensamento del rapporto tra libertà, uguaglianza e differenza) o tentativi di rilanciare un neo- giusnaturalismo per interpretare le politiche pubbliche (Fraser). Per la verità, Dahl si interrogava negli anni ’80, dentro la tradizione democratica, su questioni legate ai dilemmi della democrazia pluralista e si poneva problemi di ruolo della proprietà e di rapporti di forza (e di produzione). Poiché per Dahl il lavoro continua ad essere una dimensione rilevante, altrettanto rilevante è ciò che si produce all’interno dei rapporti di lavoro. Se in essi crescono diseguaglianze e soluzioni autoritarie domina un profilo di insicurezza nei rapporti e quindi si stabilisce un processo di erosione della democrazia pluralistica e rappresentativa. Dahl si chiede se sia importante la proprietà. Nello sviluppo della General Motors ha dato più contributo chi aveva la proprietà delle azioni o la scienza moderna? Quindi invitava a cogliere la rilevanza degli aspetti cognitivi nelle nuove contraddizioni della democrazia.
Con la caduta del comunismo, il tentativo della teoria della democrazia di aprirsi verso istanze di tipo socialista, di democrazia economica e di rivisitazione dei meccanismi di mercato viene meno e nelle teorie vicine ai movimenti socialisti predomina una teoria della modernità come società riflessiva, che oltrepassa vecchie questioni legate all’asimmetria di potere.
Il centro teorico o il punto di caduta diventa la società civile. Mayer la coglie come “pubblico” nella trasformazione del partito di massa e nel disperdersi di quest’ultimo dentro i canali istituzionali: partito-amministrazione che prevale sul partito-società. Crouch si richiama al potere dei “senzapoteri”, cioè alla capacità di resistenza della società civile, come antidoto alla potenza straripante dell’impresa e del capitale, non ritenendo più perseguibili meccanismi di conflitto dentro lo schematismo destra-sinistra. Antidoto, i “senzapoteri”, lo sono anche verso la crisi della democrazia, che egli vede nei processi di privatizzazione del keynesismo, dei partiti e della politica. Habermas coglie nella società civile il fattore sostitutivo delle vecchie mediazioni politiche e delle classi e fa di essa, a partire da patti e norme, l’elemento più importante della tarda modernità.
Col processo di disintermediazione politica avanzante viene meno il riferimento alle aggregazioni politiche e alle classi. Nelle declinazioni più radicali appare una ossessione delle differenze (e delle differenze delle differenze, in un processo infinito), in un radicalismo senza classi, fino alla nuda corporatività, che scavalca tutte le determinazioni sociali e mette sotto scacco la cultura politica critica del socialismo. La contestazione istituzionale non è più affidata a un progetto o al radicamento, ma a fenomeni di decomposizione e a differenze illimitate, che dovrebbero sconvolgere gli assetti dello Stato.
Rosanvallon legge questi fenomeni di disintermediazione come fine dei vecchi soggetti politici. È impossibile recuperali e bisogna convivere con i fantasmi che sono diventati i partiti politici e i sindacati. Dopo aver denunciato lo sganciamento tra azione pubblica e legami sociali, si affida alla centralità del meccanismo di istruzione come cardine della responsabilità dei nuovi ceti politici. Il problema si sposta nella società civile e supera il collegamento tra la dinamica della società e le prospettive della politica.
Solo dopo la crisi del 2007 si assiste a un ritorno dello Stato come categoria analitica, ma questo avviene (secondo quanto Marx aveva individuato nei cicli politico-culturali), come elemento funzionale alla rimessa in moto dei meccanismi inceppati. Non è un ritorno allo spazio pubblico e allo Stato come elemento “disfunzionale” che reintroduca elementi di contesa.
Honneth rileva che era del tutto imprevedibile che il socialismo cessasse di essere la sfida interna al capitalismo e che questo marciasse senza questo scomodo compagno di viaggio. È successo. Il socialismo, tuttavia, mantiene una scintilla viva nella capacità di recuperare il conflitto e nell’autonomia del mondo del lavoro. Non si tratta ormai di più stato e meno mercato, ma del mantenimento dell’autonomia politica di un soggetto sociale. Fino a quando questa viene mantenuta e sostenuta con investimenti di cultura in funzione critica, il socialismo sopravvive. Senza questo, è un fantasma con il quale la società riesce a sopravvivere, sia pure generando tensioni e forti scompensi.
Forse ha ragione Marzano quando afferma che siamo in una situazione peggiore di quella degli anni ’30, un altro periodo di forte crisi del socialismo. Ma allora si gettarono le premesse culturali e teoriche che informarono gli anni ’50 e ’60. Oggi il socialismo non stimola riflessioni teoriche.
(sintesi redatta da Salvatore Biasco)
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