Paolo Pini, Roberto Romano: Renzi verso il 2015 con un bilancio molto magro
Diffondiamo da rassegna.it della Cgil del 9 dicembre 2015
Il bilancio della politica economica del governo Renzi è molto magro. Dopo quasi 10 mesi di governo, tanti annunci, pochi risultati e non pochi errori, l’azione economica del governo non solo non ha fatto cambiare idea a coloro che lo avevano sin dall’inizio contrastato, e questo può essere ovvio benché qualche ripensamento sia sempre da annoverare, ma sta profondamente deludendo anche chi aveva dato ampio credito a Renzi che ha sostituito a febbraio 2014 l’inefficace Letta. Ma oggi vi è chi rimpiange pure quel precedente governo.
Prologo.
Nell’autunno del 2013, la Legge di Stabilità 2014 elaborata dal Governo Letta era volta unicamente al rispetto dei vincoli previsti dai Trattati europei, e non alla crescita del reddito e dell’occupazione. Ciò nonostante, la Commissione Europea non aveva dato “semaforo verde”, in quanto il rientro dal debito non era garantito nel breve e medio periodo. La proposta governativa non veniva giudicata soddisfacente dai tecnocrati europei perché non coerente con le politiche di rigore e di austerità. Essa però neppure soddisfaceva le parti sociali che chiedevano interventi non simbolici per la riduzione strutturale e selettiva del cuneo fiscale, e quindi per la crescita e l’occupazione. Il governo prevedeva allora una crescita del reddito dell’1,1% per il 2014, ma per conseguire questo risultato non vi era traccia di alcuna politica economica supportata da risorse economiche reali. A dicembre 2013 il Parlamento approvava la Legge di Stabilità, ma il paese nei sondaggi sfiduciava Letta.
Entrata in campo.
Ad inizio gennaio Renzi annunciava il suo Jobs Act per la crescita e l’occupazione e chiedeva di cambiare verso, in Italia ed in Europa. Il lavoro veniva posto al centro della nuova azione, e due pilastri dovevano sostenerla: (a) una politica del lavoro per ridurre il dualismo tra i lavoratori protetti e gli esclusi dal lavoro e dal mercato; (b) una politica economica ed industriale per ridare competitività al sistema produttivo ed alle imprese italiane. Si annunciava per conseguire (a) un contratto a tutele crescenti capace di estendere garanzie di mercato a chi ne era privato; per conseguire (b) una politica economica che superasse gli anacronistici diktat europei, riducesse strutturalmente il cuneo fiscale, la tassazione su lavoro e imprese, ed avviasse una politica industriale per il made in Italy.
A febbraio Renzi sostituiva Letta al Governo, e si preparava ad essere lui da luglio il Presidente europeo del semestre italiano. Le elezioni europee di maggio in Italia avrebbero poi conferito al PD renziano il 40% dei voti, ma con un altrettanto 40% di non votanti, legittimando in parte il suo ruolo di Primo Ministro e capo del partito più votato. Proseguiva così sotto i migliori auspici l’azione economica del governo, ma con molti problemi.
Cuneo fiscale.
Il bonus degli 80 euro per i lavoratori dipendenti per 8 mesi nel 2014 non è stato strutturale, è stato finanziato con tagli alla spesa pubblica ed incrementi delle imposte, ma anche con coperture incerte; ha escluso le categorie sociali più bisognose, il lavoro parasubordinato ed i lavoratori autonomi in cui si concentra la precarietà, i disoccupati, i pensionati, coloro che sono in povertà od a rischio di povertà. Non si è voluto intervenire sulle detrazioni fiscali e le aliquote marginali sui redditi per re-introdurre la necessaria progressività nel sistema fiscale, benché il governo disponga da tempo dello strumento “delega fiscale”. La riduzione dell’Irap prevista nell’ordine del 10% in modo generalizzato per tutte le imprese per 2014 e 2015 si è rivelata incerta anche a causa di coperture inadeguate, tra entrate sovrastimate sulle transazioni finanziarie ed una spending review non attuata. Gli effetti di tali interventi sull’economia si sono rivelati nulli, confermando le perplessità che peraltro Banca d’Italia aveva espresso per coperture ed effetti su consumi delle famiglie ed investimenti delle imprese. Il Def di aprile 2014 ancora prevedeva una crescita del Pil dello 0,8% nel 2014, trainata da investimenti privati ed esportazioni, mentre continuava la riduzione degli investimenti pubblici. Era il retaggio di Saccomanni-Letta, anche se firmata da Padoan-Renzi. Fallaci previsioni, e lo si sapeva, come peraltro FMI, OCSE, BCE, CE avevano avvertito. Continua la depressione: il Pil 2014 diminuisce dello 0,3% rispetto al 2013, le esportazioni nette languono, grazie peraltro al contenimento delle importazioni, gli investimenti pubblici sono in picchiata, gli investimenti privati proseguono la discesa nonostante l’annuncio di riduzione Irap, ed i consumi privati ristagnano nonostante gli 80 euro. Il reddito prodotto torna al livello del 2000, dopo 7 anni di crisi.
Jobs Act 1.0.
Invece di introdurre il contratto a tutele crescenti, disboscando contemporaneamente la foresta delle tipologie contrattuali e quindi eliminando il supermarket esistente, si è scelto di partire su contratti a tempo determinato e apprendistato, rispondendo peraltro male all’esigenza della semplificazione. Con il decreto Poletti, la semplificazione è stata declinata in termini di liberalizzazione e meno formazione, ed il contratto a tempo indeterminato rischia di divenire da contratto prevalente a contratto residuale. Questi provvedimenti sono peraltro analoghi a quelli che hanno coniugato dalla fine degli anni ’90 dosi crescenti di deregolamentazione del mercato del lavoro con la progressiva stagnazione della produttività del lavoro.
Politica industriale.
Questa rientra nelle azioni economiche non pervenute, a meno che non si ritenga che sia sinonimo di privatizzazioni su cui peraltro era Letta ad essersi impegnato nel novembre 2013 con la Commissione Europea per far digerire la sua Legge di Stabilità. Dal governo Renzi mai elaborate idee per una politica industriale pubblica per i settori strategici, sia tradizionali/maturi, sia innovativi, per realizzare innovazioni nei processi e nei prodotti, nell’organizzazione e qualità del lavoro, in tecnologie verdi e conoscenza, per la protezione e salvaguardia del territorio, fattori cardine per contrastare la stagnazione della produttività che frena sia la competitività delle imprese che le retribuzioni dei lavoratori. Occorrono investimenti pubblici. Non basta certo la riduzione del cuneo fiscale, anche se questa potrebbe essere meglio pensata per indirizzare le imprese verso investimenti in innovazione e ricerca. Ma il governo neppure questo vuol fare, perché non crede nella politica industriale ma solo nella via salvifica della fiducia riposta sul mercato, soprattutto sugli investi esteri.
Jobs Act 2.0.
L’introduzione del contratto a tutele crescenti avverrà senza riduzione delle tipologie di contratto di lavoro non-standard. Il nuovo contratto si aggiunge alla molteplicità esistente, espandendo il supermarket. Per il nuovo contratto mancano declinazione di tutele crescenti, cadenza temporale della loro introduzione, termine ultimo di trasformazione in un contratto standard. La novità rilevante è già avvenuta, eliminando la «causale» nel contratto a termine e consentendo proroghe ad libitum via modifica della mansione svolta. Peraltro, provvedimenti di incentivazione decontributiva anche recenti mostrano scarsa efficacia nel creare occupazione aggiuntiva, favorendo invece sostituzione tra contratti. La decontribuzione a scadenza fissa al terzo anno e non vincolata ad occupazione addizionale, sommato all’indennizzo al licenziamento crescente nel tempo, rischia di trasformare al nascere il nuovo contratto a tutele progressive in un continuum infinito di molteplici contratti a tempo determinato. Peraltro, l’estensione degli ammortizzatori sociali è illusoria. Non si precisa affatto quali categorie di lavoratori potenziali siano coinvolte, né la durata della copertura, o le risorse a disposizione. Non si tutelano le categorie più deboli: si escludono aree significative di lavoro parasubordinato ed autonomo. Il legame previsto tra durata degli ammortizzatori ed anzianità di servizio riproduce il dualismo che si vuole eliminare. Il modello welfare to work si presta a rischi prescrittivi di lavoro forzato, in cambio di sussidio e non di un rapporto di lavoro. Sappiamo che per un sistema di protezione economica di mercato di tipo universalistico occorrono dai 10 ai 20 miliardi annuali. Ciò si dovrebbe raccordare con le politiche attive del lavoro, campo in cui l’Italia impegna risorse economiche ed umane esigue rispetto alla media europea. Il gap tra risorse a disposizione e quelle necessarie appare abissale e non permette affatto quella flex-security che si vorrebbe introdurre. La migrazione della protezione di un lavoratore da tutele sul posto di lavoro verso tutele di mercato rischia di essere davvero altamente illusoria per molti potenziali beneficiari.
Legge di stabilità 2015.
Ad ottobre 2014, la Nota al Def 2014 ha semplicemente fotografato lo stato di depressione, reso credibili le stime del Pil 2014, mantenuto però sopra le righe quelle al 2015, tanto che la Banca d’Italia ha osservato che la crescita prevista, pur modesta, pecca comunque di troppo ottimismo. Da qui parte la Legge di Stabilità 2015. Ma questa sembra più un azzardo che un programma economico di governo. Non solo si effettua una redistribuzione della domanda tra componente pubblica e componenti private, senza assicurare una domanda aggiuntiva, ma più rilevante è che si ha una sostituzione di domanda certa con domanda incerta. Il governo pubblicizza una grande azione di fiducia collettiva su famiglie e soprattutto imprese, con il motto meno tasse sul lavoro. Tutto si gioca sul terreno della ripresa degli spiriti animali degli imprenditori affrancati da un governo che intende delegiferare su tutto e di più, dallo Sblocca Italia al Jobs Act. Si dovrebbe consumare ed investire tutto ciò che si è risparmiato e guadagnato negli anni della crisi, magari indebitandosi se necessario, banche permettendo. Le imprese dovrebbero assumere flotte di lavoratori con il discount, grazie a contributi sociali zero e licenziamento facile entro i tre anni allo scadere della promozione; garantirà il contratto a tutele progressive previsto dal Jobs Act 2.0. La politica economica del governo si alimenta con la sfiducia nel ruolo pubblico e più precisamente al pubblico come soggetto istituzionale capace di tenere in tensione la domanda effettiva. Keynes è in soffitta. La sua idea era che lo Stato intervenga per fare cose che il privato non fa, e nella crisi sono molte le cose che il privato non fa, investire ad esempio. Ma per Renzi lo Stato si deve ritirare, anche nella crisi, e lasciar fare al privato. Il problema è la filosofia di fondo che guida l’azione del governo. Lo stesso jobs act è lo specchio fedele delle policy governative; “Noi creiamo le condizioni per la crescita, voi dateci una mano con gli investimenti”. Ma lasciare oggi la soluzione dei problemi ai cosiddetti “capitani coraggiosi” è un azzardo. Avrebbe anche un senso se avessimo un capitalismo dallo “sguardo lungo”, ma l’industria italiana da anni ha dato prova di “sguardo molto corto”. Per intanto, mentre il governo prevede per il 2015 crescita allo 0,6%, l’Ocse indica un magro 0,2%.
Semestre europeo.
Il governo italiano appare festeggiare la decisione del programma Juncker sul Fondo Europeo per gli Investimenti (Efsi) che trasforma in tre anni 21 mld di euro in 315-410 mld con un effetto leva di mercato 15-20 che ha del magico. È falso che questo sia “un vero e proprio new deal europeo”. Dei 21 mld, 16 arrivano da fondi europei, di cui solo 8 garantiti da stanziamenti già esistenti (Horizon, Connecting Europe, residui di bilancio), e 5 dalla BEI. Poi il mercato farebbe il miracolo dei pani e dei pesci. Mentre si taglia il bilancio pluriennale sotto l’1% del PIL europeo, si riapre il tema degli investimenti ma senza menzionare gli Eurobond. Perché siano credibili i 300 mld è necessario che la BCE acquisti obbligazioni, di pari importo, emesse dallo stesso Fondo, a sua volta garantito dagli Stati dell’eurozona, dato che non abbiamo un vero bilancio pubblico europeo. Inoltre, sarebbe necessaria una “monetizzazione” del debito degli Stati che si impegnano a sostenere (direttamente) il piano di investimento. Bisognerebbe mettere in agenda due interventi ancora più ambiziosi: il piano PADRE (ristrutturazione dei debiti pubblici dei paesi membri oltre il 60% con acquisto da parte della BCE e trasformazione in titoli senza interesse da ripagare a lungo termine con proventi del signoraggio di ciascun paese), e un sussidio europeo di disoccupazione che sostituisce progressivamente le misure nazionali. La Banca Centrale Europea lancia allarmi, annuncia interventi non convenzionali, chiede l’azione di una politica fiscale, ma la Commissione Europea è ideologizzata e ripudia Keynes mentre l’Europa ha perso investimenti per oltre 1000 mld di euro nella crisi. Charles Wyplosz ha dichiarato: “Il piano non farà niente per la crescita. È solo una scusa per continuare a portare avanti le politiche di austerità. Troviamo sconcertante che le autorità europee si rifiutino ancora di implementare una vera espansione fiscale”. Il governo Renzi ha forse perseguito una strategia errata. Prima ha assicurato il pieno rispetto dei vincoli europei da parte dell’Italia, poi ha chiesto residuali margini di flessibilità di bilancio garantendo in cambio riforme strutturali (Jobs Act) che produrranno effetti depressivi, quindi ha negoziato al ribasso tagli sulla Legge di Stabilità per 4,5 mld di euro, senza peraltro che la Commissione abbia assicurato un parere positivo definitivo rinviandoci all’esame di marzo 2015 perché sussiste il “rischio di non conformità” al Patto di Stabilità. Negoziare al ribasso non sembra essere la strategia vincente, se l’esito è non avere margini per una politica di crescita in Italia, e neppure per una azione credibile per investimenti pubblici nell’Eurozona.
Conclusione.
Il bilancio dell’azione di governo dopo 10 mesi è molto magro. Non ci aspettavamo miracoli perché i problemi sono tanti, ma certo con gli annunci non si campa. Se poi ci mettiamo gli errori, per evitare i quali era stato messo in guardia, non ci si può dichiarare incolpevole. Meglio davvero sarebbe Cambiare verso subito! se non vogliamo nel 2015, in Italia ed in Europa, andare a sbattere contro un muro.
Per evitare questo, ci vorrebbero forti azioni economiche. E ci vorrebbe anche più democrazia.
In Europa, occorrono azioni per una ristrutturazione dei debiti dei paesi dell’Unione con un intervento della BCE, per una seria politica di investimenti pubblici con fondi propri del bilancio europeo da innalzare verso il 3-5% del PIL comunitario, per una armonizzazione fiscale che miri ad una riduzione dei vantaggi nelle aliquote nazionali che producono elusione fiscale e movimenti dei capitali e dei profitti tra paesi che condividono la stessa valuta, per introdurre un welfare universalistico, ad iniziare da un sussidio di disoccupazione per chi è privato del lavoro ed un reddito minimo di garanzia per chi è a rischio di povertà e per coloro che lo sono già.
In Italia, occorrono azioni per una politica redistributiva ad iniziare da un intervento sul sistema fiscale che introduca progressività ed un contrasto strutturale all’evasione fiscale, per una riqualificazione della spesa pubblica che coniughi un taglio alle spese improduttive e quelle tossiche con maggiori investimenti in innovazione, ricerca, istruzione, tecnologie verdi, per la salvaguardia del territorio e del patrimonio naturale, azioni per contrastare la disoccupazione anche con un piano di servizio civile.
Non si tratta di politiche avveniristiche. Queste sono azioni economiche concrete di interesse collettivo che possono realizzare crescita e sostenibilità, per riprendere la strada di un ben-essere collettivo su scala sovranazionale che eviti la fine traumatica dell’Europa ed il collasso dell’Italia.
Category: Economia, Lavoro e Sindacato