Paolo Pini: Il Jobs Act contro lavoro e diritti

| 4 Dicembre 2014 | Comments (0)

 

 

Diffondiamo da esseblog del 4 dicembre 2014

Il Parlamento ieri, con la seduta al Senato, ha approvato definitivamente con un ennesimo voto di fiducia il Jobs Act contro il lavoro ed i diritti. A breve si appresta ad approvare la Legge di Stabilità 2015, che non è una manovra espansiva ma recessiva, sostituendo domanda (pubblica) certa con domanda (privata) incerta.

Il combinato disposto tra Legge di stabilità e Jobs Act è un “pacco” contro lavoro e diritti. Andando oltre la retorica che il discorso politico ci propone quotidianamente, colmo di surrealismo e mistificazione, questo è il dato che emerge da ciò che il Parlamento ha approvato.

Si afferma che occupazione stabile e posto fisso sono residui di pensiero novecentesco: i costi dei diritti non possono più essere a carico dell’impresa, ma trasferiti sul mercato con l’aiuto dello Stato che deve accompagnare le persone favorendone l’occupabilità. Ma si sostiene anche che l’accesso ad una occupazione temporanea e l’opportunità di un contratto a tutele progressive sono i porti di ingresso per quell’occupazione stabile e ben retribuita che può essere assicurata alle nuove generazione solo con il trascorrere del tempo.

Questa è una evidente contraddizione.

Se si nega con la prima affermazione la fattibilità di un lavoro stabile e tutelato perché non siamo più nel secolo breve ma nell’economia globalizzata del nuovo millennio in cui il capitale è libero di andare dove più conviene perché non ha confini e la competizione è oggi su scala globale, non si capisce come possa essere contemporaneamente vera la seconda affermazione, ovvero che questo lavoro stabile e tutelato possa essere comunque raggiunto ma solo dopo la necessaria transizione in una fase di precarietà.

Il nostro mercato del lavoro non funziona: le cifre parlano da sole, nella crisi e prima della crisi. Il tasso di occupazione sulla popolazione in età di lavoro è tra i più bassi d’Europa (nel 2013 è al 55%, più di 10 punti in meno della media europea); la disoccupazione ufficiale ed ufficiosa è altissima, sopra i 6,5 milioni di persone, con differenze territoriali e per età elevatissime; oltre la metà dei disoccupati sono senza lavoro da più di un anno, quando in Europa pochi paesi fanno peggio.

Ma il mercato del lavoro non funziona perché è la nostra economia che non funziona. Con la crisi settennale il nostro reddito è tornato al livello del 2000, la sua crescita è peraltro nulla da 15 anni, la produttività e le retribuzioni sono ferme addirittura a metà degli anni ’90. Il mercato del lavoro non può funzionare per ragioni di forza maggiore: se l’economia ristagna, anche il lavoro ristagna. La depressione della prima implica la depressione del secondo.

Il governo Renzi ritiene però che per far ripartire il lavoro occorra una ennesima riforma del mercato del lavoro, in grande continuità invero con quelle che l’hanno preceduta, come se intervenendo su questo mercato l’economia magicamente potesse ripartire. Sappiamo purtroppo che non sarà così, che occorrerebbe ripartire dal vuoto di domanda e di politiche pubbliche di domanda; nella depressione non è con il cambiare le regole del lavoro che si attiva nuova domanda di lavoro, semmai si sostituisce lavoro, magari più stabile e più retribuito, con altro lavoro, meno stabile e meno retribuito.

La legge di stabilità 2015 ed il Jobs Act scommettono invece che il mercato si riattivi con una iniezione di fiducia collettiva, liberato da rigidità (tutele e protezioni) ed alleggerito da minori tasse sulle imprese più che sulle famiglie, coperte in gran parte da tagli a quella spesa pubblica che crea domanda effettiva. In verità si rischia di scambiare il certo per l’incerto, e si gioca d’azzardo. Ci si affida al magico dispiegamento delle libere forze di mercato, rimuovendo Keynes: “In periodo di crisi da domanda effettiva, puoi portare il cavallo all’abbeveratoio ma non puoi costringerlo a bere”.

La retorica del discorso politico riesce a vendere questa politica di destra come fosse una politica di sinistra, facendo intendere che si offrano nuove tutele a coloro che non le hanno e che le vecchie debbano essere rottamate.

L’introduzione del contratto a tutele crescenti avviene senza riduzione significativa delle tipologie di contratto di lavoro non-standard. Il rischio è che il nuovo contratto si aggiunga alla molteplicità esistente, espandendo il supermarket. Per il nuovo contratto mancano declinazione di tutele crescenti, cadenza temporale della loro introduzione, termine ultimo di trasformazione in un contratto standard. La novità rilevante è già avvenuta, eliminando la «causale» nel contratto a termine e consentendo proroghe ad libitum via modifica della mansione svolta. Peraltro, provvedimenti di incentivazione decontributiva anche recenti mostrano scarsa efficacia nel creare occupazione aggiuntiva favorendo invece sostituzione tra contratti. La decontribuzione a scadenza fissa al terzo anno e non vincolata ad occupazione addizionale, sommato all’indennizzo al licenziamento crescente nel tempo, rischia poi di trasformare al nascere il nuovo contratto a tutele progressive in un continuum infinito di molteplici contratti a tempo determinato. Il contratto a tutele crescenti viene presentato come il nuovo contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato che tutelerà i lavoratori oggi esclusi. È falso. Il nuovo contratto rischia di spiazzare il precedente sostituendo ad esso un contratto che prevede il diritto a licenziare per qualsiasi ragione l’impresa possa avanzare di ragione economica, organizzativa, produttiva, ecc. previo indennizzo al lavoratore.

L’articolo 18, come modificato dalla riforma Fornero, prevede già il diritto al reintegro solo nei casi di illegittimità più gravi e deprecabili. Il reintegro “obbligatorio” in caso di licenziamento economico è stato già eliminato: pur in presenza di “manifesta insussistenza”, la reintegrazione è una mera facoltà, potendo il Giudice già optare per l’indennizzo. Ma con il contratto a tutele progressive, anche questa opzione ridotta a tutela del lavoratore verrà a cadere. Se poi si interverrà direttamente sull’art. 18, riducendo ancora l’ambito della reintegrazione, la tutela contro il licenziamento illegittimo verrà preclusa per tutti i lavoratori. Quindi, fatto salvo il reintegro per motivi discriminatori, tutelato da normative di ordine superiore, il diritto del lavoratore a conservare il posto di lavoro se ingiustamente licenziato viene forzatamente monetizzato con il diritto a licenziare “ad nutum” da parte del datore di lavoro.

L’estensione degli ammortizzatori sociali è illusoria. Non si precisa affatto quali categorie di lavoratori potenziali siano coinvolte, né la durata della copertura, o le risorse a disposizione. Non si tutelano le categorie più deboli ed oggi escluse anche dagli 80 euro, si escludono aree significative di lavoro parasubordinato ed autonomo. Il legame previsto tra durata degli ammortizzatori ed anzianità di servizio riproduce il dualismo che si vuole eliminare. Il modello welfare to work si presta a rischi prescrittivi di lavoro forzato, in cambio di sussidio e non di un rapporto di lavoro. Le stime per un sistema di protezione economica di mercato di tipo universalistico vanno dai 10 al 20 miliardi annuali. Il gap tra le risorse a disposizione e quelle necessarie appare abissale e tale da non garantire affatto una protezione di reddito al lavoratore che è privato del lavoro. Ciò si dovrebbe raccordare con le politiche attive del lavoro, campo in cui l’Italia impegna risorse economiche ed umane esigue rispetto alla media europea. La migrazione della protezione di un lavoratore da tutele sul posto di lavoro verso tutele di mercato rischia di essere davvero altamente illusoria per molti potenziali beneficiari.

L’Ocse nell’Employment Outlook 2014 osserva che la progressiva crescita della flessibilità in entrata, senza interventi organici sul sistema delle protezioni sociali per estendere le tutele ai lavoratori “flessibili”, ha prodotto più precarietà, più incertezza sulle condizioni lavorative, meno motivazioni sul lavoro, mentre aumentano lo stress, la pressione sul lavoro, l’insicurezza. Le riforme hanno favorito spesso una sostituzione di lavoro meglio retribuito e stabile, con lavoro instabile “contratto dopo contratto” e retribuzioni in discesa. Al contempo, i lavoratori qualificati, con formazione ed istruzione, svolgono spesso funzioni e compiti al di sotto delle competenze acquisite, molto più di quanto avvenga in altri paesi, perché l’impresa italiana è orientata a domandare sempre più lavoro a bassa produttività e con basse competenze. È rimarchevole che sia l’Ocse a concludere che la flessibilità di mercato produce effetti non virtuosi su motivazione del lavoratore, condizioni di lavoro, clima aziendale, riducendo spirito di collaborazione e disincentivando modelli partecipativi. Ciò penalizza la flessibilità funzionale entro l’impresa, l’adozione di innovazioni nell’organizzazione del lavoro, con effetti negativi sulla crescita della produttività.

Dagli anni ’90, in Italia, si è scelto la strada della flessibilità del lavoro di mercato, con la deregolamentazione dei rapporti di lavoro (le riforme al margine) che ha favorito le imprese che non investono sulla qualità del lavoro. Ciò ha prodotto il doppio risultato di avere uno dei mercati del lavoro più flessibili e dualistici d’Europa, ed al contempo la più scarsa dinamica della produttività d’Europa. Abbiamo coniugato in modo del tutto masochistico la «trappola della alta precarietà» con la «trappola della bassa produttività», in un contesto nel quale le imprese non potevano più trarre vantaggio dal deprezzamento del cambio. Il Jobs Act cambierà questo scenario? Molto difficile crederlo; anzi è probabile che lo peggiorerà perché esso si muove in totale continuità con le politiche di flessibilità fino a qui realizzate. Nessun cambio di verso, semmai una accelerazione nello stesso verso.

 

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Category: Economia, Politica

About Paolo Pini: Nato a Rimini nel 1956, laurea in scienze politiche indirizzo economico Università di Bologna e Master of Science in Economics alla London Shool of Economics and Political Science. Presidente del Centro di Ricerca sulla economia dell'Innovazione e della Conoscenza (CREIC) dell'Univresità di Ferrara, professore ordinario di Economia politica Università di Ferrara. Collabora a Sbilanciamoci e a Inchiesta

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