Mario Agostinelli, Bruno Ravasio: Riduzione orario di lavoro. Prime risposte
Mario Agostinelli ha pubblicato su Il Manifesto del 6 novembre 2015 un intervento insieme a Bruno Ravasio sulla riduzione dell’orario di lavoro ed ha ricevuto già molte risposte che pubbblichiamo
1. Mario Agostinelli e Bruno Ravasio: La riduzione dell’orario di lavoro nell’era delle stampanti 3D
(Il Manifesto 6 novembre 2015)
C’è vita a sinistra? Non molta, purtroppo, e sulle sue macerie passa e trionfa Renzi, travolgendo democrazia, Costituzione, stato sociale, diritti dei lavoratori. D’altra parte, dopo la caduta del muro di Berlino, è in tutto il mondo che la sinistra sembra avere smarrito la propria ragion d’essere. E se la negazione della libertà in nome dell’uguaglianza è stata la causa della sconfitta del “socialismo realizzato”, ora è l’idea di uguaglianza che non trova più spazio. Come se, in un mondo sempre più diseguale, non ci fossero più ricchi e poveri, oppressori e oppressi, sfruttatori e sfruttati.
Alla profonda trasformazione dei processi produttivi intervenuti su scala globale, all’arretramento imposto ai diritti, alla cultura dell’esclusione e dello scarto, non si è riusciti a contrapporre un’altra idea di lavoro, di rapporti sociali e – in definitiva – un’altra idea di “vita”.
Ci è sembrata molto interessante la proposta di Valentino Parlato, in uno dei primi interventi nel dibattito aperto dal Manifesto, di partire, nella ricerca di una nuova identità della sinistra, dalla riduzione del tempo di lavoro. Del resto, agli albori della civiltà industriale, fu proprio la rivendicazione di orari di lavoro più “umani” la molla per la nascita e l’affermazione dei movimenti socialisti in Europa. Le otto ore per ridurre la fatica (“se otto ore vi sembran poche”), ma anche per organizzare diversamente la propria vita: eight hours’ labour, eight hours’ recreation, eight hours’ rest.
Siamo convinti che oggi, ancor più, sulla riappropriazione del tempo si gioca la prospettiva politica e democratica di un riequilibrio a favore di natura e lavoro nella contesa con il capitale. Noi veniamo entrambi da un’esperienza in cui la contrattazione sindacale risaliva all’economia e alla politica. Proviamo quindi a riproporre quel percorso allora praticato in migliaia di vertenze, aggiornandolo rispetto alle novità che sfuggono al conflitto odierno e di cui si impossessa un liberismo senza avversari, per avanzare così uno spezzone di proposta e di “vita a sinistra”.
Il tempo ha a che fare con la nostra identità e si può coniugare in diversi modi. Ne siamo coscienti a tal punto da poter dire di “essere fatti di tempo”. Ma non ne siamo completamente proprietari, se non in relazione alla società cui apparteniamo e al ruolo che vi svolgiamo. Sta di fatto che, progressivamente – e in particolare negli ultimi quarant’anni – abbiamo assistito all’accentuarsi della divaricazione tra l’espropriazione del tempo per alcuni e il suo possesso per altri. La precarietà del lavoro, eletta a norma con l’abolizione dell’articolo 18 e il Jobs Act, corrisponde a un passaggio di proprietà in mano di pochi del tempo presente destinabile da ognuno al diritto di organizzare il proprio futuro. Si tratta di un fenomeno in compimento a livello globale, che coinvolge ovunque i nuovi proprietari del tempo in una incessante strategia di colonizzazione.
Energia e scorrere del tempo fisico, sono coniugati indissolubilmente non solo nel mondo della produzione e delle merci, ma anche in quello della nostra esperienza vitale – dato che il loro prodotto ha le dimensioni fisiche di una azione. Di conseguenza, lo svolgimento di una mansione lavorativa o un processo produttivo possono essere ottenuti in molti modi: ad esempio impiegando molto tempo e spendendo poca energia oppure impiegando poco tempo e spendendo molta energia. Fin dagli albori della civiltà delle macchine il capitalista, per ridurre il costo del tempo di lavoro, si è attivato per impiegare quantità sempre crescenti di energia a prezzi inferiori. Questa constatazione dovrebbe avere per corollario una liberazione di tempo di lavoro e una riconsegna agli umani di tempo proprio. Oggi, al contrario, il sistema d’impresa punta soprattutto a saturare con il massimo di operazioni il tempo retribuito; a non pagare il tempo di attenzione richiesto tra un’operazione e l’altra e a allungare di fatto la prestazione in base a una reperibilità incessante. Addirittura può riservarsi il potere, riconosciuto per legge dopo il Job Act, di annullare o sospendere a comando il tempo di lavoro dei suoi salariati. La strategia dell’impresa si limita a massimizzare tempo ed energia sotto il profilo economico a lei utile, ma non restituisce né al lavoro né alla natura l’accumulo del loro sfruttamento.
Tuttavia, il mutare del sistema di produzione, delle tecnologie e dei rapporti di classe ha rivoluzionato il tempo soggettivo dei salariati, creando le condizioni di un irrazionale eccesso di capacità trasformativa da parte del lavoro dipendente e accelerando così il degrado (entropia) del mondo naturale (energia e materie prime) e quella crisi da sovrapproduzione che è una delle cause principali della crisi attuale.
Sono in corso due grandi trasformazioni che riguardano da vicino l’organizzazione dei sistemi d’impresa e l’organizzazione del lavoro: in primo luogo la diffusione di sistemi di intelligenza artificiale applicati alla robotica e, in secondo luogo, la conferma delle possibilità delle nanotecnologie, che permettono un grande sviluppo di “assemblatori” programmati – le attuali stampanti 3D – che promettono evoluzioni fino ad un decennio fa impensabili. Un recente rapporto, realizzato da Fondazione Nord Est e Prometeia, ha stimato che già oggi un terzo delle aziende del made in Italy si avvale di robotica e stampa 3D.
La manifattura futura potrebbe comprimere a tal punto lo spazio e il tempo della fabbrica, da portarlo a dimensioni accessibili più agli algoritmi e alle operazioni degli elaboratori pre-programmati (che viaggiano alla velocità della luce) che all’intervento dall’esterno di qualsiasi antagonista che agisca in autonomia. Anche la manifattura, quindi, sta dirigendosi verso la dimensione astratta, iperveloce e di difficile controllo in cui si è già collocata a vantaggio di pochi la finanza.
A questo punto c’è tuttavia da chiedersi se sia socialmente e economicamente compatibile una elevata sostituzione del lavoro con intelligenza artificiale, macchine autoreplicanti e robot. Lo spostamento verso la progettazione e gli automatismi, lo sviluppo della robotica e dei sistemi esperti che dilagano anche verso professioni intellettuali (già oggi) sono tutti risparmiatori di forza lavoro. E mentre per il vecchio paradigma l’innovazione produceva disoccupazione compensata da nuovi domini produttivi, c’è da chiedersi se questo sarà vero in futuro.
Ecco, dunque, che lottare contro la saturazione artificiale del tempo di lavoro e rivendicare una radicale riduzione dell’orario di lavoro diventa un’occasione in grado di inceppare i meccanismi di valorizzazione del capitale, e porta con sé la necessità di pensare alla cosiddetta alternativa di sistema. Un diverso modello di sviluppo sostenibile dal punto di vista sociale ed ecologico, che rimodelli le nostre vite, il modo in cui ci relazioniamo con gli altri e con l’ambiente che ci circonda. Che ripensi una crescita che non potrà che essere qualitativa, provando ad innovare con l’attenzione alla qualità di ciò che si produce, alla riproducibilità delle risorse e all’ambiente: tutti fattori che costituiscono, altrimenti, i limiti di uno sviluppo solo quantitativo. Dell’incoerenza di un processo di massimizzazione della velocità in funzione della massimizzazione del profitto discute il papa nella sua Enciclica. Perché non farne terreno di una seria alternativa di sinistra al catastrofico modello di sviluppo attuale?
2. Ennio Ravasio: Ricordarsi di quando il tempo era venduto come una merce all’ombra delle cattedrali e del perché è stato inventato il purgatorio
Hombre, tu stuzzichi la mia vanità nel propormi di scrivere un articolo politico, ma i critici joyciani aderiscono a una religione che impedisce loro di avere contatti con il mondo reale (traduzione: purtroppo non ho tempo per scrivere sul tempo).
Tuttavia, vista la tua intenzione di indagare a tutto campo sulla questione del tempo, ti giro un paio di informazioni dotte e pedanti, farina del sacco degli storici francesi Jacques Le Goff e Georges Duby.
Si può dire che la nascita del moderno capitalismo risalga al momento in cui, in Occidente, il tempo incomincia a essere venduto, al pari di una merce. Nel primo millennio d. c. era vietato ai Cristiani prestare denaro applicando tassi di interesse, perché ciò implica vendere il tempo, che è un dono di Dio: per questo, storicamente, il sistema bancario è stato creato dagli Ebrei.
Ma quando, a cavallo fra l’XI e il XII secolo, nelle città francesi e nord-europee inizia la costruzione delle cattedrali gotiche, il discorso cambia. Le città si sviluppano proprio attorno alla costruzione delle cattedrali, che necessita del lavoro di uno stuolo di bassa manovalanza e di artigiani qualificati. Questi ultimi, incominciano a farsi pagare, e a pagare le maestranze, in base al tempo dedicato al lavoro. E’ l’epoca in cui i campanili, anziché le ore canoniche (mattutino, compieta, ora terza ecc., che si distanziano di tre ore in tre ore), incominciano a battere l’ora o, addirittura, la mezz’ora. Ed è l’epoca in cui la musica, dal canto gregoriano monodico e senza tempo, si trasforma in polifonia estremamente scandita dal ritmo.
In questo cambiamento della percezione collettiva del tempo, la Chiesa si trova spiazzata anche perché, nelle sue varie emanazioni, essa stessa presta e chiede in prestito denaro. Ed è per risolvere questa contraddizione che viene inventato il Purgatorio, di cui Gesù non si è mai sognato di parlare: viene introdotta l’idea che insomma, peccare non si può peccare, però suvvia, siamo entrati nel capitalismo e perciò tutti pecchiamo, in particolare perché comperiamo e vendiamo il tempo.
Bueno, spero che non userai direttamente questo materiale, ma forse ti può servire per inquadrare mentalmente l’origine del problema. Grazie comunque per l’invito, e spero che davvero vorrete, tu e Agostinelli, approfondire una questione cruciale come il tempo. Senza dimenticare il rapporto fra il cambiamento del tempo e i reumatismi.
3. Ennio Ravasio : Se c’è un tema trasversale che può contribuire alla riunificazione dei lavoratori è quello della riappropriazione del tempo
Veramente bello il vostro articolo. Mai come oggi, un lavoratore appartenente a una determinata categoria fatica a riconoscere le ragioni dei lavoratori di altre categorie. In un’epoca renzusconiana, per limitare il diritto di sciopero di una intera categoria con il consenso del pubblico televisivo, basta piazzare un paio di telecamere davanti al Colosseo il giorno in cui ha luogo un’assemblea sindacale.
Se c’è un tema trasversale che può contribuire alla riunificazione dei lavoratori in quanto tali, è proprio il concetto di riappropriazione del tempo. Che non investe solo la questione della riduzione dell’orario in fabbrica: in molti luoghi di lavoro, dagli ospedali ai centri commerciali, l’orario di servizio viene sempre più spesso comunicato in tempi così stretti da impedire l’organizzazione del tempo libero, a maggior ragione se il datore di lavoro è una “cooperativa”; insegnanti e impiegati sono vessati da e-mail lavorative che tendono a incatenare mentalmente il lavoratore alla sua funzione per ventiquattr’ore al giorno; i piccoli commercianti, nel tentativo di limitare i danni provocati dall’invasività della grande distribuzione, sono costretti a orari di lavoro superiori alle loro forze fisiche e mentali.
E se la parola “flessibilità” è diventata sinonimo di rigido asservimento ai tempi della produzione, il rispetto dei tempi di scadenza dei contratti di lavoro, e relativa ricontrattazione, è diventato molto, molto flessibile. Più che logico, dato che l’idea stessa del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro è messa pesantemente in discussione.
Sì, è ora di parlare un po’ del tempo: fra l’altro, sembra che non pioverà neanche domani… Sì: forse è proprio dalla consapevolezza di come il lavoratore è deprivato del proprio tempo anche nei momenti l’invasività delle e-mail lavorative che invadono lo spazio privato della persona, la perversa pratica di comunicare al lavoratore l’orario di servizio con tempi che impediscono il tuo orario di lavoro dei prossimi giorni senza potere
4. Gregorio Piccin: Decrescita vs Capitalismo
Gregorio Piccin è Assessore ambiente, attività produttive e politiche sociali Comune di Tramonti di Sotto, PN
Avete presente gli sciacquoni dei bagni, quegli apparati che premendo, tirando o girando qualcosa liberano l’acqua da una piccola vasca direttamente nel cesso? Semplicemente geniali! Un’invenzione degna di essere universalmente applicata ove naturalmente vi sia abbondanza di piogge. Di questi apparati però, come di mille altre cose, noi diamo per scontato tutto: dall’acqua che vi fluisce e defluisce, alla plastica con cui generalmente sono realizzati, all’impianto idraulico che li alimenta, al sistema di scarico (fognature, pozzi perdenti, ecc.).
Nonostante la fabbrica, l’ufficio, il cantiere, l’impalcatura, il call center ci ricordino ogni maledetto giorno il prezzo della nostra sopravvivenza, la maggior parte di noi ha perso il contatto con la materialità della nostra esistenza e dei nostri consumi, del fatto che ogni cosa che ci circonda non è scesa dal cielo ma è risultata da un intero processo produttivo e distributivo e che tutto ciò ha un costo generale in termini umani, energetici e ambientali. E’ come se pensassimo che la nostra esistenza sia fatta di puro spirito, immateriale, neutra e senza conseguenze.
In realtà sarebbe sufficiente posare l’occhio su uno qualunque degli oggetti che sicuramente ci circondano in questo preciso momento: di che materiale è fatto? Dove e da chi è stato prodotto?
Immaginiamo quindi l’estrazione ed il trasporto delle materie prime di cui è fatto l’oggetto in questione e poi i vari processi di trasformazione in prodotto finito e di nuovo il trasporto sino allo scaffale dove è stato acquistato. Ripetiamo questa operazione per tutte le cose che possediamo…dopo quindici minuti comincerà a girarci la testa, avvertiremo un intenso senso di nausea e dovremo sospendere l’esercizio…
All’abnorme quantità di merci di cui ci sommergiamo corrisponde un’esponenziale, delirante, spoliazione mondiale di risorse naturali e uno sfruttamento umano senza precedenti. Se per un attimo ci elevassimo dal nostro piccolo alloggiamento per osservare la terra dall’alto allora ci renderemmo conto che i mari, gli oceani, i grandi fiumi, le strade e i cieli di tutto il mondo sono attraversati e percorsi notte e giorno, 24 ore su 24, da una quantità indescrivibile di materie prime grezze per un verso e merci finite per l’altro.
Tutto questo brulicare incessante di mezzi e risorse, che noi per lo più ignoriamo o diamo erroneamente per scontato è indispensabile per non fare collassare le società industriali di cui facciamo parte. Attenzione però: non facciamo l’errore di legare il nostro destino e la nostra sopravvivenza a questo tipo di società, di identificarci con questo modo di produrre e consumare, come se fosse sempre esistito, come se fosse nella natura umana. E’ vero, se mai, il contrario…
Dov’è scritto infatti che per avere una vita felice bisogna cambiare telefonino ogni qualche mese, auto ogni qualche anno, lavorare come muli, fare straordinari, circondarsi di merci alla moda (che apposta cambia repentinamente), avere i bioritmi scassati dai turni e magari dei figli che non vedi mai perchè quando loro sono svegli tu dormi e vice versa? Ci trattano proprio da fessi e noi glielo lasciamo fare, spesso siamo pure contenti (magari con l’aiuto di una botta di coca, di qualche psicofarmaco o della gioia sintetica per il possesso dell’ultimo modello di smartphone).
Questa non è vita! E’ una fregatura bella e buona… L’abbondanza di merci che spacciano per benessere è in realtà uno spreco folle e smisurato di risorse e di lavoro umano che, anche se non sembra, paghiamo noi centesimo su centesimo, minuto dopo minuto (e centinaia di milioni di morti di fame con le loro vite del valore di qualche euro).
Semplifichiamo prosaicamente la questione: se fossimo in 5 ad occupare 50 ettari di terra potremmo non curarci più di tanto di come mangiare e dove defecare; ma se fossimo in 500 dovremmo porci seri problemi di sopravvivenza collettiva, dovremmo preoccuparci esattamente non solo di come mangiare ma anche di dove defecare e di come valorizzare il più possibile il nostro stesso letame; ben sapendo che comunque a tutto c’è un limite…
Il problema è che mentre il pianeta che ci ospita con tutte le sue risorse è finito e limitato al capitalismo non si possono frapporre limiti: massimizzare i profitti è una azione oggettiva ed espansiva che volge all’infinito seguendo costanti e contemporanei cicli di distruzione-creazione. Questa consapevolezza elementare sembra non appartenerci per niente; così come non ci rendiamo conto che nel momento in cui i soli popoli cinese ed indiano vorranno per sé lo stesso modello consumista che noi andiamo esportando come migliore ed eterno sarà guerra totale.
Semplicemente la più tremenda di tutte quelle che l’umanità ha conosciuto: per il rame, per il ferro, per il coltan, per la terra fertile e le terre rare, per l’acqua, per quel poco/tanto sicuramente insufficiente petrolio che sarà rimasto: saremo chiamati tutti a combatterci gli uni contro gli altri, poveracci contro poveracci per permettere ai soliti grandi borghesi di ridefinire nuove gerarchie di potere. I Loro interessi saranno, come già sono, spacciati per interessi nazionali.
Sembriamo non accorgerci che la voracità del capitalismo è tale da dover sempre creare ed indurre nuove esigenze, nuovi impensabili ambiti di sfruttamento e valorizzazione. Pensiamo all’assalto sempre più serrato all’infanzia, la fase più indifesa e delicata della vita. Nonostante tutta la retorica buonista sulle famiglie come cardine della società lo stato permette che i bambini e di conseguenza i genitori, vengano bombardati a tappeto da una pubblicità sempre più martellante ed onnipresente per indurre mode, consumi, abitudini culturali assolutamente inutili e controproducenti. Cellulari alle scuole elementari; griffe su scarpe, felpe, astucci, cartelle: un vero e proprio spregiudicato addomesticamento delle menti al possesso mercantile.
Fin dai primi vagiti di autocoscienza i bambini e le bambine di oggi (nei progrediti paesi a capitalismo avanzato) vengono subdolamente indottrinati ed avviati sulla luccicante strada del futile, dell’effimero del consumo compulsivo, dell’usa e getta, attraverso il potente e pervasivo mezzo televisivo-digitale a cui i genitori sono spesso obbligati a consegnare i loro figli per l’assenza forzata da lavoro o peggio perché essi stessi sono coinvolti nel medesimo turbine digitale.
Assalto all’infanzia dunque, questa è decisamente una delle nuove frontiere della voracità capitalista. I capitalisti non si mangiano i bambini ma sicuramente le loro piccole, indifese menti ed il neuromarketing, in questo senso, è uno dei più recenti, inquietanti, raffinati ambiti scientifici creati da e per la crescita infinita ed il controllo sociale.
Il problema ovviamente non è la moderna produzione industriale in quanto tale; anzi è forse proprio questo l’unico lascito significativamente progressivo che le rivoluzioni borghesi hanno portato con se. È da folli o da ingenui immaginare il mondo, con l’attuale situazione demografica, senza il vitale supporto dell’industria grande, piccola, media, pesante o leggera che sia. Senza un tale supporto sarebbero inimmaginabili, giusto per fare tre esempi di sostanza, la scuola pubblica, un servizio sanitario pubblico, uno standard igienico-abitativo dignitoso.
Il fatto che sia necessario ridimensionare, semplificare, riorganizzare, rimodulare, migliorare o, in certi casi, cancellare del tutto certe produzioni è una cosa, sostenere che bisogna tutti tornare alla vita agreste e alla produzione per l’autoconsumo è un vaneggio romantico totalmente al di fuori della realtà (anche storica). Al massimo si può parlare di rispettabili scelte individuali e marginali piuttosto che di soluzioni di sistema.
Le comunità e gli ecovillaggi che da tempo sperimentano questo approccio sono appunto cellule sociali molto piccole, appena in grado di sopperire al proprio fabbisogno energetico-alimentare.
A ben vedere, anche quando vengono sperimentate forme abitative nuove ed efficaci e soluzioni energetiche innovative, curiose ed interessanti, queste realtà si appoggiano comunque sulla produzione industriale: dai pannelli fotovoltaici, agli impianti elettrici, ai trattori, alle pompe, alle motoseghe, alle macchine utensili per farsi mobili, scale, recinti, stalle ed intere abitazioni, dai cacciaviti alle viti, dall’incudine alla morsa alle barre di ferro, dai barattoli di vetro e rispettivi tappi al vetro delle finestre, dai coltelli alle lame in genere, agli scola pasta…ci sono un’infinità di preziosissimi ed utili prodotti industriali a cui nemmeno il più estremo degli elfi rinuncerebbe! Mentre per ognuno di tali oggetti, anche il più elementare, si incrociano interi processi produttivi.
Basta un po’ di spirito di osservazione o di concretezza intellettuale o di esperienza materiale (meglio tutte e tre insieme) per rendersene conto. L’integralismo autarchico è una pura scemenza in quanto o si predica un mondo fantasioso e magico o si predica un mondo fatto di miseria nera.
Neri sono gli abiti delle donne ottantenni che, nonostante tutto, sono sopravvissute ai loro mariti vivendo nelle valli montane ma anche nelle campagne di pianura. Sono vive, le donne in nero, ma hanno la schiena piegata, le mani deformate e doloranti, una vita sacrificata da testimoniare. Quando davvero si viveva nella (quasi) autarchia e non vi era quasi traccia di industria (di scuole, di trasporti, di sanità pubblica) la vita era davvero dura e selettiva: già dalla nascita sopravvivevano solo i/le più forti…
Sarebbe questo il radioso orizzonte? Un laboratorio per la selezione della specie? No grazie. Possiamo davvero fare un passo avanti nell’evoluzione. Considerato che vivo in mezzo ai boschi, uno tra gli attrezzi individuali che più apprezzo è proprio la motosega; per non parlare dei trapani, delle smerigliatrici, delle macchine combinate, dei torni, degli scalpelli, delle raspe, ecc. Quasi certamente è proprio questo il punto…
Nel momento in cui mi scaldo con la legna e devo procurarmela abbattendo a colpi d’ascia le piante, con buona probabilità potrei garantire alla mia famiglia, nelle fredde giornate d’inverno quando il termometro segna 15 sottozero, una temperatura di 10-12 gradi al massimo… Per costruire i solai e le scale di casa, per posare i pavimenti utilizzando il legno (che nel mio caso è un materiale a km0 quasi immediatamente disponibile) mi sarebbero serviti degli anni se non avessi avuto a disposizione la pialla, la sega circolare e la toupie di una vecchia macchina combinata (e naturalmente l’energia elettrica necessaria al suo funzionamento)…
Potrei continuare all’infinito: il cantiere di una casa, che si tratti di ristrutturazione o nuova costruzione e se vissuto lavorandoci è la migliore palestra per chiunque voglia fare un ragionamento serio ed intellettualmente onesto sul tema industria sì, industria no.
Chi associa un’auspicabile decrescita alla bucolica vita agreste e ad un mitologico autonomismo municipalista dovrebbe cominciare a girare scalzo e semi nudo, considerando che anche le mutande, le magliette, i pantaloni, i maglioni, le calze e le scarpe sono inesorabilmente prodotti industriali (nel momento in cui devono essere prodotti per miliardi di individui).
La necessaria decrescita e ridefinizione di produzioni e consumi che dovremo imboccare per sopravvivere a noi stessi in quanto esseri umani non ha nulla a che fare con l’uscita dalla produzione industriale in quanto tale ma piuttosto con l’uscita dal modo di produrre capitalistico.
Infatti la grande crisi manifestatasi nel 2008 ci sta già mostrando cosa sia la decrescita in regime di mercato: disoccupazione di massa, miseria crescente, precarietà coatta. L’altra faccia della medaglia è una crescita fondata necessariamente sul consumismo (elettronico, digitale, militare, edilizio, automobilistico, oggettistico…), su un abnorme e sovradimensionato settore terziario, sul debito, sul superlavoro.
Per uscire da questo perverso ed instabile dualismo di creazione/distruzione e non subire più fasi forsennate di crescita e fasi incontrollate di decrescita e guerra sarà necessario immaginare e praticare nuove forme di organizzazione produttiva e sociale saldamente basate sull’interesse collettivo e l’equilibrio ambientale. Per gestire e sviluppare questa rivoluzione epocale sarà indispensabile, a mio modestissimo parere, instaurare una dittatura dei beni comuni dove questi non siano intesi soltanto come territorio, acqua, trasporti, scuola, sanità pubblica e gestione dei rifiuti ma anche e primariamente lavoro, ricerca scientifica, industria grande e media, agricoltura, distribuzione e soprattutto tempo libero.
Il tempo libero, come bene comune, dovrebbe diventare la chiave di volta per la realizzazione di una concreta e sostanziale democrazia popolare: il tempo libero per informarsi, ragionare, partecipare alla gestione dei servizi fondamentali di civiltà, per vivere serenamente i rapporti d’amore e d’amicizia, per oziare, per alimentare e coltivare la curiosità, per godere e produrre cultura, per prepararsi del buon cibo, per fare qualsiasi cosa un individuo abbia voglia di fare una volta esaurito il tempo di lavoro ossia quella quota di energia vitale fisica e mentale che tutti, secondo capacità, sono chiamati a fornire alla collettività a fronte della propria esistenza materiale.
Le macchine, l’industria, la ricerca scientifica sono un bene comune di cui bisogna prendere non solo possesso pubblico ma controllo, gestione e indirizzo democratico e popolare: l’idea in sé non è niente di nuovo, ma pare che ce lo siamo dimenticati così come ci siamo dimenticati del fatto che la nostra esistenza non è fatta di puro spirito ma di inderogabili bisogni materiali da soddisfare. Lo spirito (ammesso che esista qualcosa del genere) insieme con la coscienza e la consapevolezza che si possono produrre nella miseria estrema o nell’estremo consumismo fluiscono lungo le fogne a cielo aperto delle bidonville o nel percolato delle grandi discariche del primo mondo. La definitiva liberazione dall’odioso sfruttamento dell’uomo sull’uomo dovrà necessariamente passare attraverso una radicale compressione del tempo di lavoro a favore del tempo libero, del tempo di vita e anche questo è un discorso vecchio quanto il capitalismo: alienazione, feticismo delle merci, mercificazione dei rapporti sociali…Se ne parla con ineguagliate capacità predittive da quando Marx ed Engels scrissero il Manifesto del Partito Comunista.
La democrazia borghese nella quale siamo immersi si concretizza al centro come una sempre più marcata dittatura mercantile del grande capitale ai danni del popolo lavoratore mentre verso le periferie come una spietata e mistificata proiezione imperialista e neocoloniale atta a rapinare risorse e materie prime.
La dittatura dei beni comuni, intesa come sopra, si configura al suo centro come una sostanziale democrazia popolare impietosa verso l’accumulazione privata di capitali e risorse strategiche mentre verso la periferia come una forza di cooperazione e scambio egualitario.
Tanto è oggi santificata e difesa legalmente e militarmente la proprietà privata della produzione e della distribuzione di massa tanto sarà difesa legalmente e militarmente la sua abolizione domani. Questa progredita organizzazione sociale si dovrà basare necessariamente sul sostanziale controllo e finalizzazione popolare del modo di produrre e consumare, su un’estetica della essenzialità, sulla difesa popolare, sulla cooperazione e lo scambio paritetico per l’approvvigionamento di materie prime. Vi pare un vaneggio? Vi pare più concreto ed affidabile il pensiero economico dominante che giustifica la macelleria sociale globale con l’inseguimento di asettici algoritmi spacciati per oggettivi assiomi scientifici? Vi pare più plausibile l’ipocrita richiamo alla crescita keynesiana a cui oggi si appellano quei fessi di socialdemocratici dopo avere avvallato per vent’anni politiche economiche liberiste e guerre d’aggressione?
Vi pare ragionevole continuare a cercare impossibili compatibilità con un sistema che trasforma realtà produttive e industriali in pacchetti azionari derivati mescolati con titoli spazzatura, dove il grande capitale è un’orgia finanziaria in cui si incrociano senza pudore corruzione, mafie, traffici di ogni genere? Vi pare forse più coscienzioso permettere che la massimizzazione del profitto sia elevata ad immodificabile, eterna legge di natura a cui sottomettere la vita e la morte di noi umani e del pianeta che ci ospita?
Il capitalismo non ha oggettivamente più niente da offrire alla storia se non pompare e concentrare fiumi inimmaginabili di denaro, potere e controllo nelle mani di una ristretta e suprematista elite di bipedi. L’organizzazione sociale corrispondente a questo modo di produrre è quanto mai retrò oltre che una palese, oggettiva, nichilista mattanza umana ed ambientale. È come una enorme giostra/frantoio dove alla fine le olive siamo noi, quelli che accecandosi di fronte a uno schermo o sudando in una qualsiasi produzione si vedono rapinare, giorno dopo giorno, il proprio insostituibile, preziosissimo tempo di vita.
“…Produci, consuma, crepa!…” cantava qualcuno.
Il punto è questo: smettere di essere succulente olive per trasformarsi in ostili biglie d’acciaio. Se non saremo in grado di organizzarci nuovamente intorno ad una ipotesi di uscita dal modo di produrre capitalistico il nostro destino si risolverà nel continuare a fornire energia vitale al sistema, subendone ogni passaggio (disastrose guerre comprese), cercando al massimo di salvaguardare la propria nicchia di sopravvivenza individuale/familiare sino al giorno in cui scoppierà l’ordigno “fine di mondo”.
Io credo che le questioni siano piuttosto semplici da impostare ed affrontare anche perché molti aspetti sono già stati raccontati e spiegati da autorevoli studiosi, ricercatori, scienziati e tecnici: è sufficiente mettere vicini gli argomenti ed i ragionamenti in maniera logica e conseguente, ricomporre il quadro e definire un orizzonte strategico per dare un senso alla quotidiana militanza oggi iper-frammentata in mille rivoli quasi incomunicanti.
In questo intervento vorrei provare ad accennare un ragionamento sulla questione del controllo popolare sulle produzioni e risorse strategiche, decrescita guidata, tempo libero.
Per introdurre questo aspetto del ragionamento vorrei ritornare agli sciacquoni del cesso con cui ho introdotto questo paragrafo. Questi sciacquoni presentano meccanismi interni relativamente complessi composti da vari pezzi che in virtù del loro agire meccanico e ripetitivo sono naturalmente sottoposti ad usura e quindi a rottura. Molto spesso accade che anche nel caso delle ditte produttrici più accreditate noi non troveremo in commercio il singolo pezzo (di solito sempre lo stesso) ma dovremo sostituire l’intero dispositivo e buttare quello vecchio.
Poi consideriamo che ogni ditta produttrice ha il suo brevetto e quindi il dispositivo di marca x è diverso da quello di marca y, z, w, ecc, nonostante la funzione svolta sia perfettamente identica. Questo significa, tra l’altro, che se per caso la ditta x dovesse chiudere la sua produzione noi dovremo sostituire, in caso di rottura, non soltanto tutto il dispositivo interno ma lo sciacquone nella sua interezza. Consideriamo inoltre che il valore di mercato del pezzo di ricambio e quindi la eventuale riparazione viene resa di gran lunga sconveniente rispetto all’acquisto dello stesso bene di consumo nuovo di zecca.
Ora pensate che l’esempio dello sciacquone vale per la quasi totalità degli apparecchi di cui ci serviamo ogni giorno: cellulari, stampanti, computer, elettrodomestici, automobili, ecc.. Per concludere, aggiungiamo una ultima considerazione: da diversi decenni quasi tutte le produzioni (in special modo quelle trainanti) sono scientificamente orientate all’obsolescenza programmata ossia verso una sorta di meccanismo a tempo che accorcia la vita delle merci sia attraverso accorgimenti produttivi sia attraverso il largo impiego delle mode repentinamente cangianti…
L’esempio più calzante in questo senso, ancora più dello sciacquone, è quello delle automobili e degli apparecchi elettronici, i cui mercati ipersaturi impongono di mettere insieme tutte le considerazioni di cui sopra; e non è un caso che automobili ed elettronica, negli ultimi anni, si siano fusi insieme in un delirante turbinio consumistico che ci porta a viaggiare su delle specie di navette spaziali individuali. Si dirà: tutto ciò non ha alcun senso ed è profondamente irrazionale… Mentre invece un senso ed una razionalità ci sono; il fatto è che questa razionalità è asservita alla sacra legge della massimizzazione del profitto che regge il modo di produrre capitalistico ai tempi in cui, per mantenere gli utili e le rendite azionarie ad un certo livello, bisogna accorciare i tempi di valorizzazione del capitale investito e quindi produrre-consumare-buttare-riprodurre sempre più velocemente. A ben vedere il consumismo non è una stortura del capitalismo ma piuttosto un pilastro irrinunciabile del suo sviluppo.
A questo punto, considerato lo stato di fatto, vale la pena operare l’ennesimo esercizio di astrazione: immaginiamo che le cose funzionino diversamente e che la razionalità scientifica ed industriale sia posta al servizio dell’umanità piuttosto che dell’accumulazione capitalistica.
Ecco una lista sommaria di accorgimenti industriali produttivi con cui si potrebbe ragionevolmente intervenire per cancellare l’obsolescienza programmata e risolvere buona parte dei problemi più sopra esposti:
a) adozione di maggiori standard e compatibilità tra i pezzi costituenti le varie macchine e apparecchiature elettro-idro-meccaniche (progettazione intermerceologica);
b) tendenziale miglioramento della qualità, durabilità, riparabilità delle cose (produrre meno, produrre meglio);
c) razionalizzazione, selezione, socializzazione dei brevetti dentro ad uno schema di interoperatività industriale;
d) razionalizzazione/riduzione del packaging e degli imballaggi.
Quando dall’astrazione torniamo alla realtà vediamo che tutti questi quattro punti, se posti in essere in regime di mercato, creerebbero un disastro occupazionale incalcolabile perché di fatto sarebbero in grado di ridurre i volumi produttivi dei settori coinvolti in maniera massiccia: meno produzione (anche se qualitativamente migliore), meno posti di lavoro, un vero cataclisma.
Questo e non altro sarebbe il risultato della decrescita in regime di mercato dove il tramonto di produzioni inutili e magari nocive o semplicemente eccessive trascinerebbe nel baratro della disoccupazione e miseria milioni di lavoratori e rispettive famiglie.
L’unica possibilità concreta di attuare questo cambio di filosofia industriale e produttiva risiede proprio nella instaurazione di una dittatura dei beni comuni dove il fatto che certe produzioni vengano a ridursi o scompaiano perché ritenute (nel modo più collegiale possibile) inutili e dannose è compensato dalla capacità di ridurre e impiegare il lavoro umano in altri ambiti ritenuti utili ed indispensabili.
E’ semplicemente da ingenui immaginare che il consiglio di amministrazione di una qualsiasi multinazionale che produce lavatrici decida di ridurre i suoi volumi produttivi rinunciando all’obsolescenza programmata, all’esclusività dei propri brevetti o semplicemente introducendo la standardizzazione dei pezzi di ricambio con altre multinazionali produttrici. E’ poi del tutto inverosimile che, a fronte di una diminuzione dei volumi produttivi oppure di un miglioramento della produttività del lavoro venga contestualmente ridotto il tempo di lavoro a parità di salario e diritti. E’ comunque impossibile, soprattutto, che l’eventuale esubero di lavoro derivante dall’introduzione degli accorgimenti di cui sopra venga riassorbito in maniera razionale e socialmente armonioso senza cioè gettare nella disperazione i lavoratori coinvolti e le rispettive famiglie.
In questo senso piuttosto che di reddito minimo garantito si dovrebbe ragionare in termini di lavoro minimo garantito/dovuto dove a fronte di questo lavoro erogato ogni individuo avrà garantita come contropartita semplicemente la qualità della vita (che è data fondamentalmente dall’accesso ai servizi di civiltà e da una congrua quota di tempo libero.
Non dimentichiamoci che quella sul tempo libero è una grandiosa battaglia culturale in cui l’egemonia è tutta da costruire tra le classi popolari: siamo tutti, chi più chi meno, come canarini abituati a vivere in gabbia…
Faccio notare che la questione è stata solo vagamente accennata e sono stati toccati soltanto alcuni aspetti della produzione materiale nel suo complesso. Tuttavia già solo questo spunto, approfondito in maniera logica e conseguente ci ha dimostrato una sostanziale inconciliabilità tra “decrescita felice” e modo di produrre capitalistico semplicemente perché viviamo tutti, più o meno consapevolmente, una storica immutata divergenza di interessi tra chi ha il potere ed il controllo sul frantoio e chi subisce la spremitura.
5. Michele Mezza: Orario, tempo, sapere. Un trittico che oggi riclassifica le categorie di classe
Come sempre mi trascini nel gorgo della discussione. La seduzione è davvero forte: orario, tempo, sapere. Un trittico che oggi riclassifica le categorie di classe. Mi riprometto di cogliere in pieno il tuo invito con un mio contributo organico. nel frattempo mi limito ad anticipare il mio dissenso sulla centralità del tempo confiscato dal lavoro morto .
Oggi all’ordine del giorno ci dovrebbe essere una rinegoziazione degli strumenti cognitivi, riuscendo a consumare una volta per tutte il passaggio dal Capitale ai Grundrisse per rimanere nel giardinetto del nostro dante causa.In tal caso si dovrebbe constatare che il lavoro, volendolo ancora chiamare così, si cadenza in settimane, mesi, semestri e non più in ore per la stragrande maggioranza della popolazione e non più nella metrica orario.
E sopratutto il nodo da conquistare è la potenza di autoprogrammare il proprio lavoro, allentando i vincoli sociali ( gerarchie) ma sopratutto tecnologici ( connettività e piattaforme) e centralmente cognitivi ( potenza di calcolo e algoritmi).
La scala del calore come nuovo indicatore dell’emancipazione sociale, ossia quell’indicatore che misura la quantità di energie autoprodotto dai soggetti collettivi, dipende in larga parte da questi tre fattori per allestire grid autonome e sovrane. Il resto è utile ma assolutamente non sufficiente. A me pare ma spero di poterti dare ragione con maggiore cura delle mie osservazioni. A presto.
6. Paolo Pedroni : Nessuno oggi si batterebbe per la riduzione dell’orario di lavoro
Caro Mario, e` sempre un piacere riceverti. Indubbiamente riducendo l’orario di lavoro si otterrebbero benefici che attenuerebbero la mancanza di questo, tuttavia mi pare ormai che nessuno si batterebbe oggi per questo, i problemi e la sensibilità di quelli che il lavoro non ce l’hanno difficilmente li porterebbe ad animarsi o andare in piazza a reclamare la riduzione dell’orario del lavoro degli altri e questi altri nel pericolo di perderlo non credo che andrebbero in piazza per reclamare una sua diminuizione.
7. Ugo Mazza: La riduzione dell’orario di lavoro riguarda tutti i tipi di contratto anche se con tutele diverse
Ciao Mario, Ti leggerò con calma ma ti ringrazio anche solo per il tema perchè anch’io penso che questo sia una delle questioni più rilevanti e in tutti i settori, pensa alla movida. Inoltre può essere unificante perché riguarda tutti i tipi di contratto, anche se con tutele diverse e questo riaprirebbe la questione della parità dei diritti nel lavoro.
Pensa che sul Carlino qualche tempo fa un “giovane” (34 anni) diceva che non gli interessa il Jobs Act perché lui lavora 12 ore al giorno e non ha tempo. Il giornalista non ha battuto ciglio: ogni due giorni questo lavora al posto di un altro dipendente ma a entrambi la cosa è sembrata “normale”. E sono tanti in queste condizioni: condivido pienamente.,
Category: Economia, Lavoro e Sindacato