Marcello De Cecco: Cio che la Fed dice e ciò che la Fed fa
È stato ricordato nei giorni scorsi il detto secondo il quale bisogna badare a quello che la Federal Reserve fa non a quello che dice, quando si vuol tenere d’occhio la politica monetaria americana. La tradizione di oscurità nelle dichiarazioni pubbliche delle autorità monetarie è molto antica. Keynes la raccomandava. Da tempo ancor più lungo esisteva poi la tradizione della “moral suasion”, metodo col quale le autorità cercavano di raggiungere i propri obiettivi senza muovere gli strumenti a ciò espressamente dedicati, agendo sui principali banchieri. Con le transazioni finanziarie che crescono a tassi assai maggiori di quelle reali nella gran parte dei paesi che le rendono del tutto libere da controlli, paurose crisi finanziarie internazionali si sono abbattute sul sistema economico mondiale a intervalli sempre più brevi, mentre nel periodo tra il New Deal e gli anni settanta esse erano quasi del tutto scomparse. Le autorità monetarie si trovano quindi di fronte a due obiettivi che si contraddicono tra loro: la necessità di condurre politiche monetarie efficaci e allo stesso tempo la volontà di liberalizzare i mercati finanziari.
Quando a questo si aggiunge che, perlomeno dal 2000, la politica monetaria americana ha dovuto essere per lo più estremamente espansiva, per far fronte prima alla crisi di borsa indotta dal collasso della bolla della Information technology, poi alla paralisi dei mercati scatenata dagli eventi dell’undici settembre 2001, poi dalla guerra dell’Iraq del 2003, col suo seguito di aumento del debito pubblico americano, si comprende perché i mercati siano stati sommersi da un mare di liquidità creata dalle autorità.
La politica monetaria, nei suoi strumenti ortodossi, i tassi di interesse e la quantità di moneta, è stata quindi neutralizzata quasi completamente, perché mercati tanto liquidi hanno spinto i tassi di interesse a breve fino quasi allo zero. Tali tassi sono lo strumento di cui si servono le autorità per comunicare le proprie volontà ai mercati. Ma sono uno strumento indiretto, perché l’effetto da raggiungere è quello di influenzare i tassi di interesse sui titoli a lungo termine e tramite loro l’economia reale.
Divenuti inagibili i tassi a breve, perché prossimi allo zero, quando si vuole stimolare l’economia bisogna dunque farlo intervenendo direttamente sui tassi a lunga. Questo le autorità possono farlo comprando direttamente titoli privati o pubblici, o influendo sui tassi futuri mediante dichiarazioni che le impegnino a mantenere un comportamento espansivo per un certo periodo nel futuro prossimo. In tal modo esse in qualche modo si impegnano a perdere la propria discrezionalità per quel periodo. E i mercati dovrebbero reagire di conseguenza, spingendo loro stessi i tassi di interesse verso il basso, specie quelli sui titoli a lunga; anche il corso delle azioni dovrebbe in tal modo essere spinto verso l’alto.
Nei cinque anni della grande depressione che ha colpito i paesi capitalistici maturi e che non accenna, specie in Europa, a finire, le autorità monetarie sono state dunque costrette, raggiunti livelli prossimi allo zero per gli interessi a breve, a inventare le cosiddette “politiche non ortodosse”, per influire direttamente sui tassi a lunga, che fanno ripartire l’economia quando si riesce a farli scendere e a creare le aspettative che essi continueranno a scendere.
Ecco dunque Bernanke varare ben tre operazioni di “quantitative easing”, comprando direttamente titoli a lunga, seguito dal governatore della Banca d’Inghilterra. Ecco Draghi approntare una versione europea della stessa politica, che tenga conto del fatto che la Bce per statuto non può finanziare i governi e quindi deve cercare di ottenere gli stessi risultati con prestiti alle banche che a loro volta acquistano titoli. Eccolo infine convincere le autorità politiche europee (cioè la signora Merkel) a dotarsi di strumenti che permettano l’acquisto diretto di titoli pubblici e privati. Sia Bernanke che Draghi ricorrono, vigorosamente, anche alle comunicazioni atte a creare aspettative nel mercato, impegnandosi a non cambiare politica nel prossimo futuro.
Il nuovo governatore della Banca d’Inghilterra, il canadese Carney, addirittura, appena giunto al timone, ha detto chiaramente che i mercati avevano torto a determinare tassi a lunga in rialzo, come hanno fatto negli ultimi mesi per la piazza di Londra e ha messo soldi veri insieme alla proprie parole, per dare credibilità aggiuntiva a queste ultime, comprando grandi quantità di titoli. Draghi, invece, ha preferito con grande solennità dichiarare aperta l’era del pre-impegno a una condotta determinata per un tempo determinato da parte della Bce. Come usa in Europa, il suo dire è stato smorzato dalle dichiarazioni del governatore della Bundesbank, che nel gioco delle parti rappresenta il “poliziotto cattivo”. Così il principio è stato affermato anche dalla Bce, ma ha mantenuto quella sufficiente vaghezza amata da Greenspan, Norman e Keynes. Carney e Draghi hanno dovuto parlare perché qualche settimana prima Bernanke aveva ritenuto di scorgere segni di deciso miglioramento nell’economia americana e si era indotto a dichiarare che, nel futuro prossimo, se fosse caduto il tasso di disoccupazione sotto il 7%, la Fed avrebbe potuto iniziare a stringere i freni. I mercati hanno reagito vendendo in massa titoli di ogni genere, e quindi provando di credere alle parole del capo della Fed.
Naturalmente, il rialzo dei tassi a lunga così indotto si è immediatamente comunicato a tutta la finanza mondiale. Draghi e Carney hanno così dovuto correre ai ripari, nei modi che si sono detti. Poi, nei giorni scorsi, Bernanke, accortosi del pasticcio combinato e delle ire suscitate in vari ambienti, ha cercato di riparare, affermando in un’altra conferenza stampa che la politica dei tassi bassi era destinata a durare nel tempo, non ad interrompersi come aveva affermato il mese prima. Morale, d’ora in poi bisognerà fare attenzione a quello che la Fed dice, non a quello che essa fa. Ma è proprio vero? C’è da dubitarne, quando la Fed dice una cosa a giugno, e a luglio, scottata dagli effetti sui mercati e sulle autorità politiche delle sue prime dichiarazioni, le qualifica e modifica. Un bel pasticcio, avere a che fare con il “tempo reale” nelle comunicazioni, che si sentono immediatamente in tutto il mondo e magari anche più in là. Sarebbe divertente, se non coinvolgesse il destino di milioni e milioni di lavoratori e di disoccupati.
( Repubblica on line , 22 luglio 2013)
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