Joseph Halevi: La terza crisi della Teoria economica. Perché non si può tornare a Keynes
Diffondiamo questa intervista fatta il 14 marzo 2014 da Eurotruffa.it all’economista Joseph Halevi, University of Sydney e International University College di Torino
1) Prof. Halevi, in un suo lavoro scritto con Riccardo Bellofiore dal titolo “La Grande Recessione e la Terza Crisi della Teoria Economica”, sostenete che, con la grande crisi capitalistica del 2007-2008, siamo dinanzi alla terza crisi della teoria economica. Può spiegarci, brevemente, cosa intendete? Quali sono state, invece, le prime due crisi?
La crisi del 2007 è, ovviamente, anche una crisi di tutti quegli approcci teorici che celebravano l’efficienza dei mercati finanziari come trasmettitori di informazioni affidabili per non dire perfette. Ma questo non sarebbe un granché. La fase apertasi col 2007 mette in crisi anche le visioni secondo cui dal 1980 in poi, cioè con Ronald Reagan e Margaret Thatcher, il sistema economico sarebbe stato gestito da politiche neoliberiste volte a ridurre il ruolo dell Stato a favore del mercato.
Invece no, per molti versi lo Stato o organismi statuali insindacabili (come quelli dell’UE) hanno aumentato la loro azione ed ingerenza negli affari economici intervenendo attivamente nello spostamento dei rapporti economici e sociali a favore non solo del capitale in generale ma dei gruppi capitalistici prescelti (Bellofiore ha scritto delle cose fondamentali sulla falsa rappresentazione del neoliberismo da parte della sinistra). Infine si è dimostrata errata l’idea che la crisi sia il prodotto della moderazione e stagnazione dei salari (negli Usa prima e progressivamente anche in Europa) che ha spinto le famiglie ad indebitarsi. Credo che la dinamica sia stata differente. La stagnazione salariale e le trasformazioni finanziarie, sempre appoggiate dallo Stato fin nei minimi particolari, hanno permesso di acchiappare due piccioni con una fava. Da un lato la stagnazione salariale riduceva la pressione sul costo del lavoro e –cosa ben più importante del costo del lavoro– riduceva soprattutto la possibilità di resistenza organizzata alle decisioni manageriali. Negli Stati Uniti, le delocalizzazioni industriali, prima verso il Messico poi, massicciamente, verso la Cina sono andate pari passo con l’indebolimento salariale e sindacale che sono stati gli strumenti sociali usati per effettuare tali delocalizzazioni.
In parole povere: non avrebbero potuto traslocare con questa facilità se i dipendenti non fossero stati già in crisi profonda tale da non poter offrire grande resistenza. Dall’altro lato le trasformazioni finanziarie, l’invenzione di nuove forme di moltiplicazione dei titoli, sempre rese possibili dalle politiche degli organismi statali, hanno creato ciò che Riccardo Bellofiore ha chiamato keynesismo finanziario privatizzato. In altri termini l’indebitamento non è stato soltanto l’elemento che ha controbilanciato la stagnazione salariale. È andato molto più in avanti. Il sistema giuridico statale ha dato facoltà alle società finanziarie di cercare e creare i soggetti da indebitare anche nelle classi di reddito più basse che altrimenti non avrebbero potuto accedere ad una tale massa di prestiti.
In questo modo dagli USA è stata sostenuta la domanda effettiva MONDIALE: tramite le delocalizzazioni e con le conseguenti le importazioni dal resto del mondo. A ben guardare i paesi che negli anni 1985-2007 hanno avuto un tasso di crescita degno di questo nome sono Cina, India, USA e pochi altri. Negli USA il tasso di crescita pro capite è stato moderato ma quello aggregato, che include l’aumento di popolazione è stato maggiore che in Europa o Giappone. Pertanto il processo che è sfociato nella crisi del 2007 evidenzia come sia erronea la contrapposizione di capitalismo finanziario ad economia reale. La fase iniziata con le politiche reaganiane si basa sull’integrazione dei due aspetti al punto che è impossibile fare delle distinzioni. Le altre due crisi sono quella della fine di Bretton Wooods nel 1971 connessa alla guerra del Vietnam che fece deragliare propio la forza del capitalismo post-1945 su cui poggiava l’intervento USA in Vietnam, cioè il keynesismo militare. Per questo nel 1972 la grandissima Joan Robinson nel suo famoso discorso al convegno dell’American Economic Association a New Orleans individuò nella fine del sistema post bellico detto di Bretton Woods una seconda crisi della politica e teoria economica: cioè del keynesismo pratico –quello militare– e di quello insegnato nella manualistica universitaria che presenta la disoccupazione keynesiana come un problema di breve periodo. Infine, la prima crisi fu quella degli anni 30 che portò alla cosiddetta rivoluzione keynesiana sebbene fin dal 1929 esistessero i lavori del marxista polacco Michal Kalecki. che sui problemi sollevati poi da Keynes aveva svolto considerazioni più pregnanti.
2) Il capitalismo, dagli ultimi tre decenni, si è mosso sui binari della precarizzazione del lavoro, della finanziarizzazione e di quella che lei, Francesco Garibaldo e Riccardo Bellofiore chiamate “centralizzazione senza concentrazione”. Secondo lei, l’Euro (e i vincoli che esso comporta) può essere letto come totalmente organico a questo processo capitalistico globale, visto che si stanno imponendo, con le mani legate, proprio quei processi di flessibilità del mercato del lavoro e di distruzione dei diritti sociali? Insomma, l’Euro come strumento è un qualcosa di ben più ampio rispetto alla crisi dell’Eurozona?
Non penso assolutamente che l’euro sia un progetto con orizzonti mondiali. Nasce in Europa e nemmeno tanto in Europa. Nasce in Francia, la Germania non lo voleva. E morirà tra la Francia e la Germania… L’euro ha creato un consenso politico ed economico, non solo da parte dei gruppi capitalistici con più voce in capitolo, per una gara tra chi riesce ad imporre con maggior successo la deflazione salariale. È questo l’elemento che cementa le diverse componenti del capitale europeo. Se non fosse per quest’aspetto l’euro sarebbe già saltato per reazione del resto dei paesi dell’eurozona alle azioni unilaterali della Francia e della Germania, come ad esempio, l’annuncio di Parigi e Berlino sul finire del 2002 di non voler rispettare i parametri di Maastricht. Ed infatti Olanda e Austria protestarono ma Francia e Germania non li presero nemmeno in considerazione. Italia zitta ovviamente.
3) Continuando sul tema dell’Euro, oggi se ne dibatte sicuramente molto di più rispetto a qualche anno fa. Molti continuano in un suo tenace “oltranzismo”, come ha detto Emiliano Brancaccio; altri invece ritengono che bisogna uscirne, senza però chiarire se continueranno o meno con il filone di pensiero economico dominante o ritorneranno ad un keynesismo di matrice classica, cioè proponendo generiche politiche fiscali espansive volte al sostegno della domanda aggregata. Nello specifico, come pensa dovrebbe agire una nazione come l’Italia, immeritatamente inclusa tra i PIIGS (pur essendo un paese con un elevato risparmio privato), per trovare una soluzione ai problemi derivanti dall’Euro? È sufficiente tornare a Keynes oppure bisogna andare oltre? Qualora l’opzione fosse proprio l’uscita dall’UME, come dovrebbe essere gestita tale situazione?
Purtroppo gli economisti non danno alcuna importanza alla struttura giuridico statuale dei sistemi economici che dovrebbero studiare. Non si può uscire dall’UME se non si esce anche dall’UE. Per poter permettere l’uscita soltanto dall’UME sarebbe stato necessario includere nei Trattati una separazione tra Eurozona e UE cosa che non c’è, come non c’è alcuna clausola di uscita nei testi che legalizzano l’Unione Monetaria.
Bisognerebbe studiarsi l’economia politica dell’UE e dell’UME. Invece si procede per modellini aprioristici infarciti di ipotesi normative (così andrà bene o male, ecc…) senza conoscenza della storia e dei rapporti politici, statuali ed economici dell’intera costruzione dell’UME, quest’ultima voluta non tanto dal capitale europeo quanto dallo Stato francese. Detto questo la vostra domanda contiene delle affermazioni che a mio avviso richiedono delle precisazioni critiche. Non capisco che importanza abbia il risparmio privato che nell’insieme è sempre determinato dal volume degli investimenti.
In Italia il risparmio delle famiglie –al 3,6% del reddito disponibile secondo l’ultimo Economic Outlook dell’OCSE– è crollato per via della crisi aggravata dalle politiche di austerità e, quindi, per via del connesso calo degli investimenti. Inoltre vorrei sottolineare che non si può tornare a Keynes perché a Keynes non ci si è mai arrivati se non attraverso il “KEYNESISMO MILITARE” del periodo 1947-71 o forse 47-74. Infine con o senza riferimento a Keynes, anche dopo la fine di Bretton Woods gli Usa non hanno mai abbandonato una politica fiscale attiva finalizzata agli obiettivi dei gruppi capitalistici che, di volta in volta, controllano il governo. Durante Bush il Piccolo, la presidenza USA non ha mai posto un veto alle proposte di espansione della spesa federale inoltrate dai repubblicani. Tutte queste spese hanno avuto sì degli effetti “keynesiani”, soprattutto l’ulteriore militarizzazione lanciata da Reagan, ma non vennero effettuate con obiettivi keynesiani di piena occupazione. Servono però a dimostrare che le idee secondo cui il neoliberimso ha implicato meno Stato, meno spesa pubblica, e più mercato sono sbagliate. C’è stato più Stato e più capitale privato. L’attuale opposizione alla spesa da parte degli stessi repubblicani è volta solo a bloccare il funzionamento della presidenza Obama. È semplice sabotaggio.
A Keynes non si può ritornare perché non ci si è mai arrivati, né ci si arriverà. Lo predisse Keynes stesso in un articolo apparso sulla rivista americana The New Republic nel 1940. Keynes sostenne che le democrazie liberali non avrebbero mai accettato di aumentare la spesa pubblica ad un livello tale da poter convalidare la sua concezione dell’economia. Nei fatti questo livello venne però raggiunto e superato ma grazie al pilastro rappresentato dal Keynesismo miltare.
Oggi non è questione di andare oltre Keynes né di ritornarci dato che le probabilità di un ampio consenso sociale interclassista intorno alle politiche dette keynesiane si allontana sempre di più a meno che non sorgano delle esigenze militari globali che coinvolgano sia gli USA che l’Europa e l’Asia capitalistica. Allo stato attuale la crisi ha allontanato ulteriormente la possibilità di un compromesso interclassista keyensiano. Non ci credono gli imprenditori, non ci credono i think tanks, non ci credono politici e banchieri centrali ecc; mentre il lavoro dipendente, il precariato ed i disoccupati non hanno espressioni politiche coerenti rilevanti nell’ambito degli schieramenti parlamentari. Di fronte a ciò abbiamo la concreta prospettiva di un massiccio voto operaio a formazioni di destra come nel caso del Front National in Francia.
4) De facto per i Paesi che oggi condividono la moneta unica essa rappresenta una sorta di “nuovo gold standard”, in quanto tra loro ci sono dei tassi di cambio fissi. Alla luce di ciò Lei crede che un’eventuale rottura dell’Euro, e quindi un ritorno ad un cambio flessibile, possa garantire uno spazio fiscale di manovra maggiore rispetto all’odierno assetto europeo? Quali sono i vantaggi di un cambio flessibile rispetto ad uno fisso?
Non capisco questa fascinazione per le supposte virtù curative dei cambi flessibili. L’horror story dell’euro non risiede nell’impossibilità di svalutare o rivalutare. Nel 1953 Milton Friedman scrisse un lungo saggio apparso nel volume Essays on Positive Economics, in cui egli elogiava i cambi flessibili in quanto avrebbero permesso di raggiungere l’equilibrio esterno anche laddove i prezzi interni a ciascun paese rimanevano rigidi. Su questa base teorica i cambi flessibili vanno benissimo, essendo l’unico strumento per poter sostenere degli shock provenienti dall’estero. Infatti le virtù miracolose dei cambi flessibili consistono nel raggiungimento di situazioni ottimali di equilibrio sul piano esterno malgrado le rigidità dei prezzi interni. Aria assolutamente fritta! Così come è aria fritta la concezione di zone monetarie ottimali all’interno delle quali dovrebbero operare tutte le ottimalità paretiane. Se si applicasse rigorosamente la definizione di zona monetaria ottimale si constaterebbe che la stragrande maggioranza delle monete esistenti non appartiene ad alcuna zona ottimale.
Il fatto che gran parte degli economisti di sinistra accetti la visione Friedman-Mundell (iper-neoclassica quindi) del ruolo dei cambi e delle zone monetarie risiede nel fatto che anche questi economisti procedono da modellucci normativi aprioristici senza economia politica. Consiglierei di ritornare indietro di una settantina di anni e studiare le argomentazioni CONTRO i cambi flessibili che vennero usate per costruire il sistema di Bretton Woods. A mio avviso su questo terreno ha valore l’affermazione di Lenin riguardo il secolare scontro tra libero scambio e protezionismo. Né l’uno né l’altro sostenne Lenin, bensì monopolio statale sul commercio estero. Mutatis mutandis il discorso vale anche per il sistema monetario ed i relativi cambi esteri.
Esattamente come il ruolo della Banca Centrale non può essere indipendente, anche la dinamica dei cambi deve essere subordinata alle priorità delle politiche economiche. In nessun modo ciò è attuabile nell’UE-UME. Qui però le cose diventano molto più complicate perché non si sa dove si andrà a finire; esattamente come non si sa quale sarà l’effetto di un cambiamento dei prezzi relativi sulla distribuzione del reddito, sulla scelta delle tecniche ecc. Cose che la teorie economiche hanno, in negativo, sceverato con successo. In altri termini, le complicazioni emergono dal fatto che non ci sono teorie che ci dicano se il tasso cambio (o anche il tasso di interesse, o i prezzi relativi) aumenta succederà questo e quest’altro, se invece si abbassa succederà x,y,z. Non lo sappiamo; pretendere altrimenti è millantare. Ogni situazione deve essere studiata caso per caso senza partire da ipotesi comportamentali o da relazioni tecniche aprioristiche.
5) In tema di occupazione una proposta degli economisti della Modern Money Theory è rappresentata dalle politiche di “job guarantee” (lavoro garantito), in cui lo Stato, come finanziatore diretto, diviene datore di lavoro di ultima istanza (ELR). La trova auspicabile tale proposta? Pensa possa essere suscettibile di ulteriori miglioramenti?
Non dò molta importanza a quella proposta. Quando venne lanciata circa 15 anni fa partecipai con Peter Krielser ad un dibattito sui suoi eventuali meriti e demeriti. Studiando la forma concreta della proposta avanzata da Randall Wray ci trovammo in sostanziale disaccordo con lui. In primis subordina il lavoro ad una specie di militarizzazione civile. Facemmo l’esempio dell’Arbeiter Front (Fronte del Lavoro) del regime nazista. Inoltre la proposta non si focalizza sull’investimento. Sostenemmo che con la disoccupazione di massa sono gli investimenti a dover essere programmati, non la regimentazione del lavoro (WP – 2001/02 “Political Aspects of Buffer Stock Employment” – Peter Kriesler and Joseph Halevi).
Data la precaria posizione dei sindacati di oggi – sono pessimi organismi spesso corrotti ed imboscati nei meandri della politica, però sono necessari: senza di loro, come argomentò un grande economista matematico metà neoclassico e metà marxiano, Michio Morishima, la società capitalistica tenderebbe verso la schiavitù – l’ELR può diventare un’arma a doppio taglio. Comunque se oggi si vuole ascrivere allo Stato un ruolo di datore di lavoro, dovrebbe essere quello di datore di lavoro di prima istanza. Le società europee stanno tendendo verso la piena disoccupazione e precarizzazione. Il toro lo si può affrontare solo prendendolo per le corna: organizzare lotte con idee chiare in testa: cioè la socializzazione pianificata degli investimenti (su questo c’è un bel saggio di Bellofiore, purtroppo appena pubblicato sulla rivista di Bertinotti, ossia di un politico non assolvibile che ha fatto danni irreparabili alla sinistra) e, necessariamente, per delle politiche monetarie e fiscali subordinate a quest’obiettivo.
Tuttavia per queste lotte non ci sono le condizioni. In Italia la formazione di tali condizioni deve passare per una radicale trasformazione della CGIL e per la dissoluzione del PD. I nuovi quadri dovranno inoltre essere altamente preparati sui temi economici di cui abbiamo discusso. Impossibile.
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