Gianni Rinaldini: Il valore dei referendum sociali
Il disagio sociale che attraversa il paese ha trovato con il referendum del 4 dicembre 2017 lo strumento per esprimersi.
Renzi è stato il più efficace comunicatore delle ragioni del NO perché è riuscito nell’impresa di far diventare senso comune il dire “adesso basta” oppure “non se ne può più di questo Governo”, diffuso e dilagante in particolare tra i giovani, al punto tale da fare scattare la scintilla di una partecipazione al voto sorprendente e che ha fatto deragliare per l’ennesima volta i vari sondaggi.
Non sottovaluto il ruolo che il variegato mondo democratico e della sinistra ha svolto nella campagna referendaria, in particolar modo l’ANPI, ma sarebbe sbagliato, assegnare a quel voto un particolare orientamento politico e culturale.
Quello che emerge è uno scarto profondo, una rottura tra la rappresentazione mediatica e il paese reale che apre a diverse possibilità, perfino di segno opposto; lo testimonia la crisi della democrazia politica del nostro paese, dove non molti ricordano che questo Governo, questo Parlamento, è stato eletto con una legge incostituzionale che ha permesso ad un partito, il PD che ha ottenuto il 25% di voti di avere la maggioranza assoluta.
Credo che sia un caso unico in Europa, con i gruppi parlamentari che nel frattempo da 10 sono diventati 28.
Quale sia la legittimità di questo Governo e di questi parlamentari non mi è chiara e le responsabilità di Napolitano e del PD sono evidenti: lo snaturamento della democrazia piegata alle esigenze di manovre politiche in nome dell’Europa.
Anche da questo punto di vista il voto del 4 dicembre ha svelato la realtà, rendendo esplicita l’enormità della rottura democratica da parte di un Governo e di un Parlamento incostituzionale che volevano cambiare la Costituzione democratica e antifascista del nostro Paese.
Sì è aperto in questo modo una nuova dinamica dentro e fuori il PD con la formazione di nuovi soggetti politici, che si autodefiniscono movimenti e/o partiti, poco importa, ma segnalano la possibile apertura di una nuova fase per la sinistra.
Sarebbe stato meglio se questa rottura fosse avvenuta sulle scelte sociali del governo Renzi, dall’art. 18 alla previdenza, piuttosto che sulla data e sulle modalità di elezioni del congresso del Partito Democratico.
In questo ambito colloco l’iniziativa della CGIL, che ha scelto, dopo una discussione non semplice e tutt’altro che univoca nel gruppo dirigente, di utilizzare lo strumento referendario per abrogare atti legislativi che riducono le tutele sindacali fino ad arrivare ad introdurre forme di lavoro come i voucher, che semplicemente non sono configurabili come rapporto di lavoro.
Questa scelta è stata accompagnata dalla raccolta di firme per promuovere un’iniziativa di legge popolare sulla “Carta dei diritti universali del lavoro”.
In questo modo la CGIL in coerenza e in continuità con la posizione assunta sulla Costituzione, mette al centro del confronto e dello scontro politico, la questione sociale.
Questa scelta parla alla sinistra o meglio alla costruzione di una nuova sinistra perché la questione sociale, il lavoro dipendente è aspetto dirimente di una alternativa alle politiche liberiste.
Come non vedere e capire che il paradigma fondamentale di questi decenni su base locale e globale è stata la demolizione di tutto ciò che rendeva possibile l’espressione democratica e autonoma dell’altro soggetto sociale, il lavoro dipendente.
Tutte le conquiste del movimento operaio sono state cancellate – tutele, diritti, contrattazione – sostituite dalla precarietà, libertà di licenziamento, ricatto occupazionale, falso lavoro autonomo, fino ad arrivare alla stessa cancellazione del rapporto di lavoro.
E’ stata definita infine in questo modo una nuova architettura legislativa che utilizza la leva fiscale per intervenire perfino sui contenuti della contrattazione aziendale al fine di renderla funzionale e al servizio degli interessi di ogni singola impresa.
Un assetto complessivo del sistema che contempla un Sindacato aziendale, corporativo e subalterno alle imprese.
In concreto significa l’espulsione del conflitto sociale, inteso come espressione democratica di interessi diversi; il conflitto sociale viene considerato alla stregua di una anomalia per affermare viceversa in nome del mercato, competitività e produttività, la concorrenza tra lavoratori e lavoratrici, gli uni contro gli altri, a livello locale e globale.
Siamo in presenza di una guerra commerciale dove ogni paese opera per determinare le condizioni migliori e più convenienti, per l’esercizio della libertà di impresa, senza più vincoli di natura sociale e politica.
Ovviamente su scala europea e globale non è un processo lineare ma determina inevitabilmente l’emergere di conflitti di natura diversa. Lo stesso “contrasto” tra protezionismo e “libero mercato”, è da considerarsi come tra due facce della stessa realtà per definire una nuova gerarchia mondiale e relative aree di influenza.
Le disuguaglianze sociali, lo status di precarietà permanente nella vita e nel lavoro, il sentimento di paura che subentra nell’incertezza del presente e del futuro, a partire dalla condizione degli strati sociali più deboli, viene alimentata e finalizzata nell’individuare nell’altro il possibile nemico, come ad esempio nella costruzione dei muri per proteggersi dai migranti.
In questo consiste la crisi della democrazia e la sua stessa deriva autoritaria, perché la politica non è più luogo di confronto e scontro tra ipotesi alternative. Punti di vista alternativi che vivono e attraversano la società anche nella espressione di conflitti sociali che sono la linfa vitale della democrazia.
La politica è diventata il luogo dove si amministra di fatto un disegno politico e sociale comune, senza alcuna significativa distinzione.
In sostanza alla globalizzazione fondata sul “neo liberismo”, la sinistra storica non è stata in gradi di contrapporre un altro punto di vista, ma ne ha assunto i suoi aspetti fondamentali, al punto tale, che quando governa si caratterizza per le misure contro i lavoratori.
Il governo Berlusconi non riuscì ad abolire l’art. 18, cioè affermare la libertà di licenziamento. C’è voluto un Governo di centro sinistra per farlo.
E’ paradossale che il movimento di emancipazione delle lavoratrici e dei lavoratori che nasce da una istanza internazionalista, per superare la concorrenza tra lavoratori e lavoratrici, va in frantumi a fronte dei passaggi storici del capitalismo globalizzato.
E successo nel passato con la prima guerra mondiale, si ripropone nel presente perché guerra commerciale, vuole dire guerra tra i lavoratori.
Per l’insieme di queste ragioni la costruzione di una nuova sinistra non può che avvenire a partire delle questioni sociali con un orizzonte perlomeno europeo.
Questa opportunità è oggi favorita dall’iniziativa della CGIL, nella piena consapevolezza che attualizzare i valori della solidarietà e giustizia sociale, vuole dire aprirsi ad un confronto in campo aperto, sulle scelte fondamentali da compiere.
Lavoro, ambiente e democrazia possono essere il terreno su cui costruire un disegno sociale e politico alternativo.
La stessa natura confederale della rappresentanza sociale è messa in discussione dai processi in atto, perché essa vive soltanto se esistono obiettivi e finalità che riguardano l’insieme del lavoro dipendente.
Mi riferisco all’universalità del sistema di Welfare – previdenza, sanità, istruzione – oggetto di un progressivo processo di privatizzazione ed inclusione, nel circuito delle attività finanziarie.
La corporativizzazione di diritti universali è un dato della realtà con cui fare i conti, prima che abbia una definizione più compiuta.
Il Governo ha annunciato per il 2018 la riduzione delle tasse, o meglio del cuneo fiscale, che vuole dire in realtà una possibile riduzione degli oneri previdenziali per i nuovi assunti, che, in un sistema totalmente contributivo, comporterà una ulteriore riduzione della pensione pubblica e una crescita dei fondi previdenziali.
La molteplicità dei contratti nazionali di categoria è assolutamente priva di senso rispetto alla nuova configurazione dell’attività produttiva, perché nel ciclo di formazione del prodotto, dalla progettazione alla commercializzazione e all’interno di ogni singolo stabilimento, convivono lavoratori e lavoratrici con contratti completamente diversi.
Un percorso di ricostruzione di una reale e incisiva funzione dei Contratti deve necessariamente passare attraverso una nuova e diversa composizione della platea dei lavoratori interessati, con un processo di accorpamento e fusione delle attuali categorie.
Nel corso di questi anni si è sviluppata una interessante discussione ed un confronto tra l’obiettivo della piena occupazione e le forme di sostegno al reddito, in un mercato del lavoro caratterizzato da disoccupazione e precarietà.
Nel frattempo la realtà è rappresentata dalla abolizione degli ammortizzatori sociali e dall’aumento della precarietà.
In questo quadro, a mio parere, l’obiettivo della piena occupazione, deve essere perseguito non in contrapposizione al necessario obiettivo di un reddito minimo garantito finalizzato alla attività lavorativa. Solo così possiamo tentare di parlare al concreto vissuto delle persone.
Si tratta di riattivare un percorso per una rappresentanza sociale autonoma e democratica, la cui unica legittimazione venga dalle lavoratrici e dai lavoratori che vogliamo rappresentare.
Ho voluto richiamare soltanto alcuni aspetti di un possibile percorso di riunificazione nelle diversità del lavoro dipendente, perché senza la riapertura di un conflitto sociale che comunichi e persegua concreti valori generali di eguaglianza, solidarietà e giustizia sociale, è complicato prevedere il futuro di una nuova sinistra.
Anche per questo l’ iniziativa della Cgil offre una possibilità, di cui la scadenza referendaria sulle questioni sociali rappresenta un passaggio fondamentale.
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