Bruno Amoroso: Gli ultimi tre anni di un euro in bilico

| 17 Luglio 2014 | Comments (0)

 

 

 

Per la nuova edizione del libro di Bruno Amoroso L’euro in bilico, Castelvecchi 2014 l’autore ci ha inviato la sua nuova prefazione dal titolo  Tre anni dopo che traccia uno scenario delle politiche europee che tiene conto di quanto avvenuto negli ultimi tre anni

 


Bruno Amoroso: Tre anni dopo……

 

Se otto ore vi sembran poche

provate voi a lavorare

e sentirete la differenza

di lavorar e di comandar.

[Canzone popolare]

 

 

La prima edizione di questo testo risale al 2011, tre anni che per il dibattito politico e gli eventi che sono seguiti appare come un’era geologica. Il testo fu accolto, salvo alcune generose eccezioni che fecero risaltare ancora di più le regole del gioco, con il silenzio degli accademici che vedevano con fastidio che un tale prodotto fosse partorito dall’interno del loro sistema, e dei giornali e dell’informazione in generale poiché ne metteva in luce la parzialità del loro ruolo.

I più infastiditi furono gli amici e i colleghi di ‘sinistra’ che vedevano giustamente in una mina vagante di questo tipo il rischio del diffondersi del grido ‘il re è nudo’, il re inteso sia l’euro sia la sinistra.

Sugli alti colli del potere nessuno si preoccupò. A Bruxelles erano confidenti che le grandi somme investite per la ‘ricerca europea’ avrebbero garantito la fedeltà delle call girl dell’accademia e del giornalismo europeo al loro piano, e prodotto tranquillamente il frutto dell’euro-dogmatismo. L’ipotesi avanzata nel testo che l’euro avrebbe finito per travolgere anche il progetto europeo era vista come nulla di più che una bizzarria di un accademico frustrato.

Sul colle romano erano in quei giorni troppo occupati a ricevere le Direttive di Mario Draghi e di Angela Merkel su come risolvere la crisi italiana per trovare il tempo di leggere e documentarsi sul presente e il destino dell’Europa.

I rimproveri più duri mi piovvero addosso proprio dalla sinistra accademica sindacale e politica, la più impegnata a difendere l’euro-dogmatismo. Questa vedeva con fastidio che le sue brillanti dimostrazioni teoriche degli errori commessi nell’introduzione e nella gestione dell’euro e del fallimento delle sue politiche fossero scavalcate da tentativi di analisi politica e del potere che dimostravano che non si trattava di errori ma di un lucido disegno politico e che le sue politiche, in linea con questo, fossero di grande successo.

La novità del testo, che non sfuggiva di certo gli attenti osservatori ma che proprio per questo andava esorcizzata, era quella di ricongiungere le analisi delle politiche economiche europee e dell’euro con quelle della politica e del potere – cosa che alcuni impavidi economisti come James K. Galbraith e Giulio Sapelli stavano facendo – uscendo dal comodo cono d’ombra dei tecnicismi e della critica alla moneta tout court nel quale si erano comodamente rinchiusi gli economisti keynesiani e di vari movimenti.

Lo sforzo intelligente di molti di superare i limiti di una critica teorica e spesso politicamente impotente naufragava poi nel tentativo pragmatico di superare la complessità del problema mediante la sua semplificazione, la ricerca cioè della spada che potesse tagliare il Nodo di Gordio: riprendiamoci la Cassa Deposti e Prestiti, riprendiamoci la moneta, introduciamo gli eurobond, la Tobin Tax, ecc. il tutto confluente nel grande fiume della sovranità nazionale.

Questi tentativi generosi, e quasi sempre ben elaborati, mancavano però di empatia con il sentire del popolo, cioè delle classi sociali colpite dagli ‘errori’ della Triade, che disinteressate agli specialismi della ricerca e delle nicchie dei rispettivi movimenti, vedevano con più chiarezza l’insieme del sistema che li opprimeva – l’UE e la politica – e sentivano sulla propria carne il bisogno della solidarietà e delle alleanze sociali anche oltre i confini nazionali.

Questo indicava che al popolo fosse ben chiara la manipolazione che il progetto europeo aveva subito da parte dei poteri forti e dei politici assoldati, un progetto cioè che nato sull’ispirazione dell’internazionalismo e della solidarietà tra popoli e Stati era stato trasformato in uno strumento di occidentalizzazione e competizione contro i popoli europei. In una parola, era chiaro che l’euro non è l’UE, e l’UE così come si è venuta formando dopo il 1989 non è l’Europa di pace e di cooperazione immaginata alla fine della Seconda guerra mondiale.

Alla crisi sociale e economica esplosa nel 2008, successo clamoroso dei centri di potere della finanza internazionale, si dette risposta non attaccando i suoi autori e le sue cause ma puntando il dito contro le sue vittime. Non si parlò di riformare il sistema bancario e della finanza internazionale per disarmarlo – secondo la felice espressione di un altro fuoriuscito della politica europea – Riccardo Petrella – e tantomeno si dispose l’immediato sequestro dei bonus donati ai dirigenti e operatori finanziari che avevano svolto il ruolo di ‘pusher’ dei titoli spazzatura (derivati). Al contrario ci si concentrò sulle misure necessarie a prevenire iniziative in tal senso e sull’introduzione di riforme che indebolissero ancora di più le capacità di resistenza dei sistemi sociali e economici europei, come le riforme del mercato del lavoro, della ricerca e dell’istruzione, dei sistemi fiscali, ecc.

L’unica solidarietà espressa dall’UE, cioè della Troika, fu con le banche colpite dalla crisi per assumerne ancor più il controllo, mentre il monito rivolto ai ceti sociali colpiti e espropriati fu quello di non resistere al potere dell’UE e della finanza internazionale a rischio di ulteriori ‘sanzioni’. Il disegno geopolitico dell’UE mostrò presto i risultati ottenuti: lo squilibrio economico e produttivo tra i paesi dell’Europa del nord e quelli del sud e dell’est si aggravò e le disuguaglianze sociali tornarono a caratterizzare il panorama di tutti i paesi europei.

Sulla politica e le istituzioni l’effetto della crisi fu quello di dare in affidamento ai sicari della finanza le istituzioni dei paesi vittima della crisi, e promuovere l’idea che per uscire dalla crisi fosse necessaria ‘più Europa’, cioè più potere alla Troika di quello già oggi assoluto di cui dispone.

Mentre scrivo queste righe si stá consumando l’ultimo – in ordine di tempo – atto di presa del potere con la formazione del governo di Matteo Renzi. Un governo nel quale il Partito Democratico, spinto dalla disperazione per la propria sopravvivenza e apertamente ricattato per la collusione con tutto quanto è accaduto nel decennio trascorso, mette la propria faccia e si presenta come il curatore fallimentare dell’economia italiana. Un fallimento efficacemente prodotto per svendere gli ultimi pezzi del sistema produttivo italiano agli SU, alla Francia e alla Germania e chiudere definitivamente il capitolo sul carattere eccezionale del ‘caso italiano’ in Europa.

Le stazioni del calvario dell’economia italiana, che stá per concludersi sul Colle, vedono lungo il suo percorso, come da tradizione, la dialettica tra i centurione buono, Enrico Letta, e quello cattivo, Matteo Renzi, che attende impaziente con il pesante martello in mano di compiere l’atto finale della crocifissione.

 

La stazioni già note sono le seguenti:

Prima stazione – dicembre 2012.

Introduzione dell’obbligo del conto corrente bancario. Il governo impone all’Inps di versare le pensioni superiori a mille euro non più tramite le Poste (nelle mani del pensionato), ma in un conto corrente bancario o postale o anche su un libretto di risparmio (conseguenza dell’obbligo di tracciabilità dei pagamenti superiori a mille euro). Dunque, i pensionati sono obbligati ad aprire un conto corrente sul quale l’Inps fa automaticamente confluire le somme dovute mensilmente.

Seconda Stazione – 24 giugno 2013

Entra in vigore il sistema interscambio dati (SID) che trasferisce alla Agenzia delle entrate tutti i dati sui c/c bancari. Dal 31 ottobre tutti i dati bancari sono trasferiti all’A. E. Sotto osservazione finiranno così non solo i conti correnti e le operazioni extra-conto, ma anche i depositi (titoli e/o obbligazioni), la gestione patrimoniale, i certificati di deposito e i buoni fruttiferi, i contratti derivati, le carte di credito/debito, i prodotti assicurativi, l’acquisto e la vendita di oro e il numero degli accessi annui alle cassette di sicurezza.

Terza Stazione – giugno 2013

Il Commissario alle finanze dell’UE Barnier presenta al Parlamento europeo una direttiva sul fallimento bancario dei paesi dell’UE. In caso di fallimento non sarà la BCE o gli Stati a coprire i deficit ma i risparmiatori. Il modello Cipro esteso a tutta l’UE. Il decreto sarà approvato entro l’anno. In base
al meccanismo definito, quando una banca fallisce, a rimetterci
saranno in prima battuta gli azionisti, poi gli obbligazionisti
meno assicurati, e infine i depositi, fatti salvi quelli sotto i
centomila euro che sono garantiti da una direttiva europea. Se la garanzia data ai risparmiatori ‘sotto i centomila euro’ consista nella possibilità di prelievo in contanti dei propri soldi o nella compensazione mediante ‘titoli della banca’ non è specificato.

Quarta stazione: 16 luglio 2013

Il Ministro dell’economia Saccomanni, annuncia che dal prossimo anno non sarà più necessario rivolgersi al sistema bancario ma al più efficiente “sistema finanziario ombra”. Per Saccomanni le esigenze di credito «dovranno esser soddisfatte da altri attori, soprattutto investitori istituzionali, e da nuove forme di intermediazione finanziaria, di cui sono un esempio i credit funds». Il ministro ha spiegato che si tratta di intermediari la cui operatività rientra nello shadow banking, di cui generalmente si temono i rischi sistemici prodotti al di fuori del perimetro della regolamentazione. Tuttavia la sua convinzione è che «il ruolo del sistema bancario ombra potrebbe rivelarsi di supporto al rilancio dell’economia».

Quinta stazione: 20 luglio 2013

Domenico Siniscalco, già ministro dell’economia e oggi presidente di Assogestioni, dichiara che i propri soci, il 25% dei risparmiatori che detiene il 75% dei risparmi italiani, hanno registrato guadagni record nel 2013 e che non possono investire nelle banche perché il guadagno è modesto. Serve un altro sistema bancario e finanziario.

Sesta stazione: 19 settembre 2013

Le banche non rinnovano il contratto ai bancari. Sono in corso le elaborazioni di piani di riorganizzazione delle banche per adeguarle al loro ruolo di canalizzazione del risparmio dei ceti più agiati verso investimenti speculativi.

Settima stazione: novembre 2013

Mario Draghi annuncia che la BCE avvierà da gennaio la revisione di tutte le banche per adeguarle al sistema bancario europeo. Saranno così fatte emergere le anomalie di parti del sistema bancario che si ostinano a conservare forme non redditizie di industria finanziarie (il settore cooperativo e etico) innescando meccanismi di “cura” che ne prevedono la loro estinzione.

Ottava stazione: marzo 2014

L’urgenza delle misure da adottate, introdotte le norme che le rendono possibili, accelera il processo di cambiamento dei governi politici. Matteo Renzi è chiamato a presiedere il gruppo di lavoro che dovrà svolgere il ruolo di curatore fallimentare dell’economa italiana.

Nona Stazione – marzo 2014

Hanno inizio le ispezioni della BCE alle Banche italiane. Ogni giorno si segnalano accorpamenti e nuove partecipazioni di capitale estero nelle maggiori banche italiane, in parallelo con la svendita del restante patrimonio industriale italiano.

 

Eppure sappiamo:

anche l’odio verso la bassezza

distorce i tratti del viso.

Anche l’ira per le ingiustizie

rende la voce rauca. Ah, noi

che volevamo preparare il terreno per la gentilezza

noi non potevamo essere gentili.

Bertolt Brecht

 

Le previsioni sulle elezioni per il rinnovo del parlamento europeo e i risultati di quelle che si stanno svolgendo nei singoli paesi rendono ormai palese la disaffezione e la rabbia provocata dalle politiche economiche dell’UE. Sono il prodotto del centralismo, dell’integrazione accelerata e delle liberalizzazioni  perseguite dall’élite politica, burocratica e accademica di Bruxelles.

Questi caratteri nuovi dell’UE sono stati utilizzati come grimaldelli per scardinare i sistemi sociali esistenti costruiti su base nazionale, per sostituire alla concretezza di diritti e doveri, che sono stati il risultato di un ‘patto sociale’ territoriale liberamente sottoscritto dalle forze politiche dei vari paesi, l’astrattezza di un mondo virtuale, quello dei diritti e della mobilità dei mercati.

Una élite sorda ai richiami di tornare allo spirito di pace e cooperazione tra popoli del progetto originario europeo, e schiava dei tamburi di guerra e dello spirito di competizione e di rapina della finanza globale gestiti dalla Troika (Banca Centrale Europea, Commissione Europea e Fondo Monetario Internazionale).

La distruzione del modello sociale europeo, avviata con la globalizzazione negli anni Settanta e portata avanti con vigore dai conservatori e liberali e con livore e servilismo dai grandi movimenti della sinistra, è stata certamente un successo. Con l’annientamento delle forse sociali e politiche che a essa si opponevano – partiti e sindacati – è riuscita nel corso di tre decenni e destabilizzare i sistemi istituzionali e costituzionali dei paesi europei, a inglobare le forme della democrazia e della partecipazione nell’ambito delle domande e delle risposta da essa stessa formulate, a trasformare il pensiero unico in potere unico.

L’assetto istituzionale dell’UE è certamente un unicum mondiale. I decennali dibattiti svoltisi in Europa sulle forme della rappresentanza degli Stati e delle Regioni europee, della scelta tra un modello policentrico o monocentrico, le raffinate disquisizioni dei costituzionalisti sull’equilibrio dei poteri e la sovranità popolare si sono conclusi con una scelta geniale e imprevedibile ai più: una Banca Centrale Europea che governa 28 Stati ‘sovrani’. Un sistema di parlamenti e istituzioni di 28 paesi utilizzati per fare da passacarte e approvare le direttive europee adattando le rispettive legislazioni e forme di organizzazione sociale e politica ai dettati di queste.

I successi di queste politiche e il raggiungimento degli obiettivi proposti sono indiscussi. La competizione è entrata in tutti i gangli vitali della vita dell’economia e delle persone.

La ri-dislocazione dei sistemi produttivi in Europa, dal sud e dall’est verso occidente e la Grande Germania, con il suo seguito convulso di migrazioni interne all’UE, di dissesto dei territori e dei centri urbani, con il rinascere di contrapposizioni sociali e nazionali, è stata realizzata secondo un piano preciso lungo i percorsi delle infrastrutture europee immaginati da Jacques Delors.

La riorganizzazione dei sistemi finanziari e bancari attuata mediante trasferimenti forzati e espropri di reddito di milioni di famiglie europee, la crescita delle diseguaglianze, il ritorno della povertà accanto alle forme più sfacciate di aumento dei redditi e della ricchezza sono serviti a finanziare i piani dell’UE.

Tutto ciò è avvenuto dietro lo scudo della ‘legalità’ di un sistema finanziario criminale, mentre le famiglie e gli imprenditori impegnati giorno per giorno per la sopravvivenza sono stati classificati nell’area grigia dell’evasione’ e del ‘sommerso’.

La disciplina dei diritti e del mercato del lavoro introdotta dall’UE ha prodotto una disoccupazione non vista dagli anni Trenta, le riforme della scuola e dell’università sono la causa della degenerazione dei sistemi europei dell’istruzione e della cultura, ridotti a strumenti di omologazione umana e culturale.

Tutto questo, con il tocco magico del potere, è stato realizzato attribuendo tutti i vizi e le disfunzioni ai governi e agli Stati nazionali, e le virtù agli effetti promessi. Infatti alle proteste e richieste dei popoli europei chiusi nei boccaporti del Titanic che sta affondando si risponde con la richiesta di ‘più Europa’, di una marcia accelerata verso gli ‘Stati Uniti d’Europa’, come se il potere illimitato e sconsiderato di cui la Troika dispone non fosse all’origine della crisi attuale.

Ma la reazione dei popoli non si fa attendere. La crisi produce nuove polarizzazioni economiche, sociali e politiche e crea le basi per una rifondazione della politica. Questa trova espressione nelle nuove forme della protesta popolare, che si articolano nella nascita di nuovi movimenti di opposizione alla Troika e alle sue politiche neoliberiste – Syriza in Grecia, gli Indignados in Spagna e il Movimento Cinque Stelle in Italia – e nel rafforzarsi di movimenti politici di destra – come quello di Marine Le Pen in Francia e del Partito popolare in Danimarca che contrappongono al cosmopolitismo di destra dell’UE un nazionalismo di destra.

Le parole d’ordine e gli slogan di questi movimenti esprimono una dura opposizione agli effetti dell’euro e delle politiche che lo hanno accompagnato (Patto di Stabilità e Patto Fiscale), ai costi sociali e produttivi intollerabili da queste prodotti. Senza una rinegoziazione rapida dei trattati e dell’unione monetaria europea non ci sono ragioni per non credere che la storia, con il riaccendersi della conflittualità tra Stati e regioni europee, non si ripeta con i tragici esiti del passato.

Rimuovere il cuneo della divisione e la camicia di forza per le economie nazionali rappresentati dall’euro non è un’operazione tecnica – torniamo alle valute nazionali o emettiamo gli eurobond – ma politica. Richiede l’espressione organizzata di una volontà popolare capace di riprendere in mano i destini dell’Europa a partire dai governi nazionali oggi cloni della Troika.

La rifondazione del progetto europeo può partire dalla capacità e volontà dei paesi dell’Europa del sud di riformare l’eurozona con un nuovo patto di solidarietà tra il nord e il sud e rilanciare così il progetto di un’Europa costruita dal basso, policentrica.

La crisi europea è stata preparata con un processo accelerato e sbagliato di integrazione dei sistemi produttivi e dei mercati europei segnato dal martellamento delle liberalizzazioni e privatizzazioni, ed è esplosa con la violenza della finanza resa possibile dall’introduzione dell’euro. La crisi europea è infatti soprattutto crisi dell’eurozona e da questa zona si deve ripartire per ricostruire un modello di cooperazione europea su base regionale.

Il contributo dei paesi dell’Europa del sud alla rinascita del progetto europeo passa per l’elaborazione di un piano di rinascita economica di questi paesi basato sulle reciproche sinergie produttive e la cooperazione, l’introduzione di una moneta comune (Euromed) amministrata da accordi tra i vari paesi per sostenerne le linee produttive e le sinergie tra sistemi economici affini.

Dunque due «euro»: da una parte quello tedesco e dei Paesi tradizionalmente appartenenti all’area del marco, dall’altra un nuovo sistema monetario che comprenda Francia, Grecia, Portogallo, Spagna e Grecia. Una soluzione che se solo fino a qualche anno fa appariva ‘eretica’, anche per l’opposizione della Francia che si ostina a voler giocare direttamente tra i grandi dell’Europa, oggi viene seriamente presa in considerazione di fronte all’evidenza delle sconfitte economiche subite da questo paese.

Tuttavia anche la Francia ha bisogno di scrollarsi di dosso la vecchia arroganza neogollista che sopravvive, sia nella sua destra nazionalista sia nella sua sinistra ‘libertaria’, sempre pronte a sedersi al tavolo dei vincitori.

Questa iniziativa di riforma dell’eurozona può nascere dall’impulso dei paesi dell’Europa del sud e dar vita a una seria rinegoziazione dei rapporti nord-sud in un quadro di crescente programmazione dei sistemi produttivi europei le cui allocazioni non possono più essere lasciati nella mani di scelte private. In assenza di ciò, difronte all’inevitabile inasprirsi dei rapporti sociali e tra i paesi dell’eurozona, la possibilità che sia la Germania e la sua zona di influenza a uscire dall’eurozona è di notevole attualità.

 

Non si tratta di sapere che cosa questo o quel proletariato,

o anche il proletariato tutto intero,

si propone temporaneamente come meta.

Si tratta di sapere che cosa esso è

e che cosa esso sarà storicamente costretto a fare

in conformità a questo suo essere.

La sua méta e la sua azione storica sono tracciate

in modo sensibile e irrevocabile nella situazione della sua vita,

come in tutta l’organizzazione della odierna società borghese.

Marx K. E Engels F. (1848) La Sacra Famiglia, Edizioni Rinascita, Roma, 1954, p. 41

 

Questo importante richiamo del filosofo tedesco di Treviri, impegnato nello studio delle nuove classi sociali e dei loro comportamenti, a non fondare la propria forma e il consenso solo sulle ideologie ma a perseguire i propri obiettivi tenendo conto delle condizioni di vita materiale e intellettuale della popolazione e del loro ruolo nella produzione divenne il filo rosso dei movimenti popolari (contadini e operai) in Europa e nei paesi scandinavi in particolare.

Infatti, la reazione alle crisi del mercato capitalistico fu sempre cercata mediante la creazione di strutture alternative di produzione e di consumo, di istruzione e cultura (movimenti cooperativi, sindacati, centri di educazione e formazione, ecc.) e intervenendo sul suo funzionamento. Da ebbe origine la possibilità di negoziare con autonomia e da posizioni di forza un patto sociale con i gruppi di potere agrari e industriali organizzati intorno alla monarchia.

Questa tradizione politica è continuata oltre la prima metà del secolo scorso. Alla luce dei processi d’internazionalizzazione e finanziarizzazione dell’economia le socialdemocrazie scandinave tentarono di costruire delle dighe protettive per i loro sistemi di welfare. La proposta danese di “democrazia economica” – seguita dagli svedesi e norvegesi – per la creazione di fondi di investimento gestiti dai lavoratori aveva questo esplicito obiettivo. Sulla stessa linea si mosse la riforma del sistema sociale danese del 1971 che introdusse la separazione tra reddito e lavoro contro la quale si è poi scatenata l’offensiva neoliberista dagli anni Ottanta. A questo orientamento appartengono i grandi contributi degli economisti scandinavi (Gunnar Myrdal e Ragnar Frisch) e italiani (Franco Archibugi, Federico Caffè, e Giorgio Ruffolo) impegnati per una programmazione economica e sociale al servizio delle persone. Infine, sul lato della cultura e della formazione, la costituzione di due nuove università “sperimentali” – Università di Roskilde e di Ålborg in Danimarca, Università di Trento e della Calabria in Italia – mirava all’elaborazione della cultura e dei profili professionali necessari a un nuovo Stato sociale e democratico.

Dagli anni Settanta, con l’avvio dei primi tentativi di introdurre la Globalizzazione nei paesi scandinavi, si accese lo scontro tra questi diversi orientamenti. La lezione di Marx fu fatta propria dai nuovi poteri economici e finanziari per avviare il piano di destabilizzazione dei sistemi di welfare e del movimento operaio. Anzitutto influenzando le condizioni di vita dei lavoratori con l’aiuto delle nuove tecnologie utilizzate come un grimaldello per distruggere i nodi di (r)esistenza dei lavoratori e dei sindacati. Il principio di solidarietà fu sostituito mettendo l’impresa al centro del nuovo sistema sociale e togliendo funzioni strategiche ai sindacati nazionali spinti sempre più verso posizioni di difesa corporativa. Gli obiettivi di questa ristrutturazione, che colse distratti e impreparati i partiti e i sindacati e avvallata dall’opportunismo del mondo della ricerca, furono: (i) introduzione della contrattazione individuale e a livello d’impresa; (ii) richiesta di una maggiore flessibilità che riduce le possibilità di scelta dei lavoratori e accresce quella delle imprese; (iii) introduzione di varie forme di partecipazione agli utili d’impresa utilizzate come un coltello per dividere i lavoratori. Con queste misure ha inizio quel processo di transizione dal “socialismo funzionale” al “capitalismo funzionale” che ha aperto la porta alle politiche neoliberiste.

Modificata la base materiale e produttiva dell’esistenza dei gruppi proletari e del ceto medio l’esplosione della crisi della socialdemocrazia e dei sindacati, nei paesi scandinavi come altrove, è stata inevitabile. Nicchie di resistenza sono esistite per alcuni anni in Europa. Tra questi tentativi per una ripresa dell’iniziativa critica si ricordano, tra gli altri, “Rivolta dal centro” (1978)[1] e gruppi critici dentro la socialdemocrazia danese, come il Kaffe klub di Ritt Bjerregård, e svedese con l’azione solitaria ma incisiva di denuncia delle manipolazioni dei dati economici dell’economista svedese Sven Grassman.[2]

Nel mondo accademico, l’Università di Roskilde pubblicò negli anni Ottanta cinque Rapporti sulla situazione economica e sociale del paese nel tentativo di richiamare l’attenzione sulle trasformazioni strutturali e istituzionali in corso e sulla necessità di reagire con un forte programma di riforme. Il titolo dell’ultimo rapporto fu “Voglia di cambiamento?” che sottolineava il tentativo in corso di cambiare tutto per lasciare tutto immutato. [3] Poi fu la sconfitta, e l’occupazione delle università, dei partiti, dei sindacati e delle imprese da parte dei “Chicago boys” ebbe inizio sia nelle istituzioni europee sia nei vari paesi.

Questi processi si intrecciano con il progetto di cooperazione europea che gradualmente si trasforma in un “processo di integrazione” sulle linee dettate dalla Globalizzazione.

 

Beato il paese che non ha bisogno di eroi

Bertold Brecht

 

Una riflessione sull’Europa, sia sulla storia sia sul presente, si intreccia inevitabilmente con l’analisi dei nuovi aspetti del potere che oggi dominano in Italia, in Danimarca e negli altri paesi e che a nostro avviso sono la causa reale della profonda e diffusa crisi politica, che non può essere interpretata come una crisi interna ai singoli paesi, partiti e movimenti.

Sul problema del potere e delle sue mutazioni economiche e politiche, ci sono molti contributi forniti nel corso degli ultimi decenni basati sullo studio dei processi di concentrazione del capitale, e sulle alleanze tra i poteri forti della borghesia comprendenti i mezzi di comunicazione, gli apparati amministrativi e giudiziari dello Stato, le strutture militari.

Questo fino agli anni Ottanta. Successivamente, l’analisi del potere è stata trasformata in un problema di efficienza, di amministrazione e di informazione da risolvere mediante le tecniche della governance. Al discorso sul potere si è sostituita la retorica sulla democrazia politica, sulle forme di partecipazione, sui sistemi elettorali, sui partiti, ecc.. Un cambio di orientamento che ci ha reso ciechi verso il processo di formazione delle nuove strutture del potere in Europa che oggi sono uno dei fattori principali che minano i sistemi politici e le basi produttive degli Stati.

Una nuova struttura che ha al centro il potere finanziario e militare, con l’attiva presenza della Goldman Sachs, in Italia come in Danimarca, e che ha reintrodotto la guerra e la competizione in un progetto politico europeo che era stato invece pensato per la pace e la cooperazione.

I limiti che gli Stati Uniti hanno imposto alla vita economica e politica degli Stati europei, mediante l’adesione al blocco occidentale e alla NATO, hanno contribuito alla rinascita dello storico distacco della Gran Bretagna dal “continente”, e alla ripresa del conflitto tra la Francia e la Germania per il controllo dell’Europa e del Mediterraneo. Dagli anni Novanta la riapertura del conflitto tra la Francia e la Germania, accresciuto dalla riunificazione tedesca, ha influenzato in misura crescente il processo di costruzione europea.

Il fallito tentativo francese di limitare gli effetti della ricostituita “grande Germania” mediante l’introduzione di una valuta, ha prodotto un boomerang negativo sia sulla Francia sia sull’Europa del sud nel suo complesso. La Francia reagisce a queste sconfitte e frustrazioni riprendendo la sua aggressione coloniale contro popoli e Stati dell’Africa del nord, e cerca di proteggere i propri interessi allacciando alleanze tattiche con la Germania nel tentativo di isolare e far retrocedere le economie dell’Europa del sud.

Tuttavia questi fattori endogeni non sono le cause principali della situazione attuale, ma effetti collaterali della scelta di un modello economico e sociale che risale alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso. Una scelta che ai moniti sollevati dal Club di Roma e da altri osservatori nei paesi europei di abbandonare un modello di crescita basato sul capitalismo espansivo e concorrenziale  – produzione di massa per il consumo di massa a spese della cooperazione e dell’ambiente – rispose con l’introduzione di un nuovo sistema di sviluppo capitalistico, intensivo e introverso, la Globalizzazione. Un modello di Apartheid Globale, comprendente i tre centri maggiori della crescita dell’Occidente: Giappone, Unione Europea e gli Stati Uniti. Questo ha dato inizio alla struttura triadica del potere, con la marginalizzazione dell’economia dei paesi africani e dell’America latina e la demolizione dei sistemi di welfare nei paesi europei.

I conflitti e le guerre attuali messi in atto dalle nuove strutture del potere utilizzano la finanziarizzazione, le tecnologie e la militarizzazione per questa trasfigurazione del modello capitalistico di sviluppo. Tuttavia concentrarsi sui mezzi e non sul modello di sviluppo – la Globalizzazione – nel tracciare la divisione tra potere e opposizione porta all’impotenza. I mezzi scelti sono gli effetti e non la causa del persistente scontro tra due progetti di società.

Il primo, inclusivo di nove miliardi di persone, si propone di ristabilire un equilibrio tra produzione, consumo e natura mediante un bilanciamento delle forme di vita e la distribuzione delle risorse naturali esistenti e di quelle prodotte dall’umanità. In coerenza con questo obiettivo mette al centro riforme e innovazioni delle forme di vita coerenti con la crescita e il benessere mondiale, e sul valore della diversità all’interno di un modello policentrico di organizzazione sociale e istituzionale.

Il secondo tenta di porre rimedio allo squilibrio dei fenomeni ambientali e  economici attraverso la realizzazione di un piano di apartheid globale, che abbatte tutte le barriere protezionistiche e di salvaguardia delle risorse naturali esistenti in tutto il pianeta mediante le liberalizzazioni, ma concentra lo sfruttamento di queste a favore di circa un miliardo di persone che costituiscono il nucleo ricco della struttura triadica della Globalizzazione mediante le privatizzazioni. Per questo si fa portavoce della concorrenza e crescita delle aree forti dell’economia mondiale, e della frugalità, sobrietà e stagnazione del resto dell’economia mondiale. Gli strumenti economici e finanziari sono presenti in entrambi i progetti di società, ma con ruoli e pesi ovviamente diversi.

Il progetto politico europeo è stato concepito durante e alla fine della seconda guerra mondiale per porre fine a un’epoca di competizione, conflitti e guerre tra i popoli europei. Un’epoca durante la quale i tentativi di uscire dalle crisi prodotte dal capitalismo sono stati ripetutamente cercati non pensando alle trasformazioni necessarie del mercato capitalistico, sulla linea tentata da Keynes e da altri settori della società, ma proiettando al di fuori degli Stati, nella competizione geopolitica con gli Stati Uniti e la Russia, la soluzione dei problemi.

Nella competizione geopolitica ogni Stato cercava nell’allargamento delle proprie frontiere e della propria area di influenza la propria centralità dentro la Grande Europa. A questa candidatura i grandi Stati europei si sono proposti promuovendo un’idea di Europa unificata anche con la forza con il richiamo storico alla Francia napoleonica e quello più attuale della Grande Germania promosso e perseguito con la Seconda guerra mondiale dal nazismo. Questi tentativi di unificazione imperiale sono tornati al centro del discorso europeista con la Globalizzazione, centrato sull’obiettivo di “fare dell’Europa il polo più competitivo dell’economia mondiale”. L’effetto è stato la frammentazione in corso del progetto europeo con la posizione radicale di autonomia della Gran Bretagna dal resto dell’Europa, la diffidenza di tutti i piccoli Stati del nord Europa verso ogni discorso di integrazione, e la colonizzazione delle economie dell’Europa del sud.

La rinascita del pensiero europeista e di un suo progetto politico nel dopoguerra si è basata su un approccio ispirato alla cooperazione e al dialogo interculturale tra i popoli europei, nel riconoscimento e rispetto delle loro diversità e dei loro sistemi produttivi, nella ricerca instancabile di processi sinergici capaci di utilizzare al meglio i beni e le risorse a disposizione dei singoli paesi per la costruzione di un sistema di welfare europeo.

Da questo la convinzione diffusa del bisogno di riconoscere la varietà e ricchezza delle forme di vita, delle forme di organizzazione sociale e istituzionali esistenti nei paesi europei e il loro migliore utilizzo mediante il pluralismo. L’impegno politico fu quello di realizzare una coesione territoriale e sociale tra gli Stati e le Regioni mediante un meccanismo democratico capace di produrre nel lungo periodo una federazione dei popoli europei e mondiale.

L’Europa poteva diventare il laboratorio di avvio di questo processo che trovò espressione nel Manifesto di Ventotene [4]. Nell’orizzonte degli autori della proposta, ispirati dalla tradizione internazionalista del socialismo europeo,[5] e del consenso che suscitò esisteva la previsione di un lungo periodo di pace in Europa e l’avvio di forme crescenti di cooperazione tra Stati e popoli europei.

 

NOTE

 

[1] Meyer N. I. , Petersen K. H., Sørensen V. , Opgør fra midten,  Gyldendal, København 1978

[2] Bjerregård Ritt, I Opposition, Vindrose, København 1987.

[3] Socialøkonomisk Rapport om landets tilstand, n.2 (ed. Bruno Amoroso og Jesper Jespersen), settembre 1986, FS&P, Roskilde; Ballet er forbi, Socialøkonomisk Rapport n.3, (ed. Bruno Amoroso e Jesper Jespersen, Akademisk forlag, København, ottobre 1987; Mod Strømmen. Socialøkonomisk Rapport n. 4, (ed. Bruno Amoroso og Bent Greve), Akademisk Forlag, København, august 1988; Viljen til forandring?, Socialøkonomisk Rapport n. 5, (ed. Bruno Amoroso og Bent Greve), Akademisk forlag, København, 1989.

[4] Spinelli A. og Rossi E. Problemi della Federazione Europea, Edizioni del Movimento italiano per la Federazione Europea, Roma 1944.

[5] Lenin V. I., ”Sulla parola d’ordine degli Stati Unit d’Europa”, Social Demokrat, n.44, 23 agosto 1915.


Category: Economia, Libri e librerie, Osservatorio Europa

About Bruno Amoroso: Bruno Amoroso (1936) si è laureato in economia all'Università La Sapienza di Roma, sotto la guida di Federico Caffè. Negli anni dal 1970 al 1972 è stato ricercatore e docente all'Università di Copenhagen. Dal 1972 al 2007 ha insegnato all'Università di Roskilde, in Danimarca, dove ha ricoperto la cattedra Jean Monnet, presso la quale è professore emerito. Amoroso è docente all'International University di Hanoi, nel Vietnam. È stato visiting professor in vari atenei, tra cui l'Università della Calabria, la Sapienza di Roma, l'Atılım Üniversitesi di Ankara, l'Università di Bari. È presidente del Centro studi Federico Caffè dell'Università di Roskilde ed è condirettore della rivista italo-canadese Interculture. È membro del consiglio di amministrazione del FEMISE-Forum Euroméditerranéen des Instituts de Sciences Économiques, e coordinatore del comitato scientifico dell'italiana Fondazione per l'internazionalizzazione dell'impresa sociale (Italy). Fa parte, inoltre, del comitato scientifico FLARE Network (Freedom, Legality and Rights in Europe), la rete internazionale per la lotta alla criminalità e alla corruzione; è membro ed esperto di DIESIS (Bruxelles) organizzazione non profit dedicata allo sviluppo dell'economia sociale, nelle forme cooperative, di impresa sociale, e di impresa autogestita dai lavoratori, attraverso attività di supporto, consulenza e valutazione dei progetti. È decano della Facoltà di Mondiality, all'Università del Bene comune (Bruxelles-Roskilde-Roma), fondata da Riccardo Petrella; è membro del comitato scientifico del progetto WISE dell'Unione europea, ed è stato direttore del Progetto Mediterraneo promosso dal CNEL (1991–2001). Tra i suoi ultimi libri in italiano: Il "mezzogiorno" d'Europa. Il Sud Italia, la Germania dell'Est e la Polonia Orientale nel contesto europeo, (a cura di) (Diabasis, 2011); Euro in bilico (Castelvecchi, 2011); Per il bene comune. Dallo stato del benessere alla società del benessere (Diabasis, 2010); Il Mediterraneo: incontro di culture (con Mario Alcaro e Giuseppe Cacciatore), (Aracne, 2007); Persone e comunità. Gli attori del cambiamento, (con Sergio Gomez y Paloma) (Dedalo, 2007); La stanza rossa. Riflessioni scandinave di Federico Caffè (Città Aperta, 2004); Europa e Mediterraneo. Le sfide del futuro (Dedalo editore); L'apartheid globale. Globalizzazione, marginalizzazione economica, destabilizzazione politica (Edizioni Lavoro, 1999); Il pianeta unico. Processi di globalizzazione (con Noam Chomsky e Salvo Vaccaro) (Eleuthera, 1999).

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