Bruno Amoroso: Attenzione alle favole danesi di Mario Monti
COPENAGHEN – Per la riforma del lavoro il premier Mario Monti è stato molto chiaro: «Ci muoveremo con moderazione verso modelli che esistono con successo in Nord Europa a partire dalla Danimarca, che è la più celebrata in termini di flexsecurity (mix tra flessibilità e sicurezza), anche se non diventeremo necessariamente danesi».
Quindi tutti a Copenhagen a studiare questo modello di successo, peccato che, negli ultimi anni, sia notevolmente peggiorato e non garantisca più i migliori lavoratori. A dirlo è un italiano che in Danimarca c’è da più di 40 anni, Bruno Amoroso, economista e professore emerito della storica Università di Roskilde, a 35 chilometri dalla capitale danese.
Partiamo da un punto fermo: il licenziamento in Danimarca avviene senza protezione (non esiste l’articolo 18 che impone il reintegro del lavoratore), ma, subito dopo la perdita del posto di lavoro, interviene la sicurezza sotto forma di sostegno sociale. Che, nel corso degli ultimi anni, è però stato pesantemente eroso. «Fino a otto anni fa il lavoratore poteva godere dell’assegno di disoccupazione fino a 5 anni, praticamente fino a quando non ritrovava una condizione di lavoro per lui soddisfacente», spiega a ItaliaOggi Amoroso, «quindi aveva la libertà di rifiutare proposte non in linea con il curriculum».
Già ma quanto prende un disoccupato danese? «Specifichiamo che non è vero che quando si è licenziati si prende il 90% del proprio stipendio, bensì il 90% dello stipendio medio di un lavoratore dell’industria e oggi si parla di 1.600 euro lordi al mese. Quindi semmai è vero che i lavoratori che hanno salari medio–bassi ricevono una quota che si avvicina al loro precedente stipendio, ma indubbiamente per tutti gli altri è una forte riduzione».
L’altro aspetto negativo è che negli ultimi anni è diminuito l’arco temporale durante il quale si percepisce l’assegno di disoccupazione. «Al massimo si può restare disoccupati per tre anni», ha specificato Amoroso, «dopo il primo anno, però, scattano forti pressioni per accettare nuovi lavori o fare corsi di riqualificazione. Tuttavia, se il lavoratore rifiuta gli viene tolto il sussidio e finisce su quello sociale che equivale alla pensione minima, ovvero un livello molto basso. Facciamo un esempio: un professore universitario oppure un impiegato bancario che resta disoccupato, dopo il primo anno gli viene offerto un qualunque lavoro, per esempio come si usa in Danimarca portare il giornale la mattina nelle case, e se uno rifiuta perde il contributo di disoccupazione».
Il peggio è che queste regole non hanno niente a che vedere con il sistema di sicurezza che la Danimarca vantava fino a un decennio fa. «La flexsecurity danese funzionava fino alla fine degli anni ’80, poi il concetto è stato ripreso dalle autorità europee e lo hanno completamente stravolto, peggiorandolo», ha proseguito il professore emerito dell’Università di Roskilde. «La flessibilità in Danimarca era considerata come libertà dei lavoratori di scegliere il lavoro che preferivano a seconda delle loro capacità. Gli imprenditori finivano per farsi concorrenza tra loro offrendo migliori condizioni lavorative per attrarre i più capaci. La sicurezza, invece, consisteva nel fatto che durante questi passaggi tra un lavoro e l’altro, oltre a godere dei vantaggi di un sistema efficiente di servizi, il disoccupato veniva indennizzato in modo soddisfacente. Negli ultimi anni è stato ridotto il periodo di disoccupazione, ma è stata tolta anche la scelta del lavoro che si vuole fare».
Ma si può importare in Italia questo modello? Questo sistema che oggi funziona in modo zoppo costa in Danimarca circa il 4.5% del pil, mentre in Italia si usa circa l’1% del pil per gli ammortizzatori sociali. Certo che la Danimarca parte avvantaggiata, in quanto lì non esiste il 30-35% del mercato del lavoro e delle attività produttive sommerse, si sa chi lavora e quanto guadagna esattamente.
Il problema, ha concluso Amoroso, è che esistono in Italia condizioni obiettive perché molte aziende restano nel sommerso in quanto se emergessero finirebbero per scomparire. O si fanno emergere creando condizioni di crescita economica e di domanda che le facciano sopravvivere, oppure al limite è meglio che esista anche il nero.
L’intervista a Bruno Amoroso è stata realizzata da Carla Signorile e pubblicata su «ItaliaOggi» l’11 febbraio 2012.
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