Andrea Segrè: La gentilezza nella nuova ecologia economica
Grazie a Franco Di Giangirolamo dell’invito a partecipare al Convegno “Della gentilezza” organizzato a Bologna dall’Auser Emilia Romagna. Questa opportunità mi permette di riflettere con voi su un termine non facile in questi tempi, che magari noi tutti abbiamo dentro, ma che in questo momento in particolare sembrarimasto rinchiuso da qualche parte. Ho letto la Carta dei Valori Auser e mi sembra di poter dire che si tratti un po’ del manifesto di un’ecologia economica gentile.
Provo a dirvela così: se per gentilezza possiamo intendere una armonioso vivere civile, l’attenzione e la disponibilità all’altro e al diverso, se per gentilezza possiamo – e dobbiamo – intendere anche il rispetto per la natura e il mondo, allora voglio che la mia riflessione ecologica, sia parte di questo contesto. Ogni giorno svolgo il mio lavoro nell’ambito universitario, a contatto coi giovani e, come Preside, accolgo gli studenti con gioia. Vedere che aumentano di numero ed arrivano con il loro carico di entusiasmi è bello: quest’anno abbiamo aumentato gli iscritti del 40%. Ma assieme alla gioia vivo una sensazione di inquietudine ed angoscia di fondo, che cerco ovviamente di non trasmettere loro. I nuovi iscritti arrivano coi loro vent’anni pieni di speranza e fiducia nel futuro, che a loro dovrebbe appartenere. Dico dovrebbe perchè io non posso fare a meno di vedere sulle loro spalle un carico di debiti sempre più gravoso. La Facoltà di Agraria della quale sono Preside è da me promossa come la facoltà delle tre “A”: Alimentazione, Agricoltura, Ambiente. Tre categorie nelle quali si condensa la necessità, se un futuro vogliamo avere, di ritorno all’economia reale. Credo che l’incremento degli iscritti sia legato anche a questo, ad una crescente sensibilità dei settori più avanzati della società civile che si ribellano all’economia virtuale dei mercati, degli speculatori. Parlo da economista “di campo”: non riuscendo ad identificare la controparte dell’economia invisibile, non posso nemmeno avere un nemico contro cui combattere.
Ma assieme alle tre “A” vedo anche tre “E” che vanno a formare quel fardello che appesantisce gli zaini dei miei giovani studenti. Il primo peso è quello del debito Economico, enorme, dato che abbiamo costruito la nostra stessa società sul debito. Ci siamo indebitati per comprare, e paghiamo dopo aver gettato via gran parte dei prodotti comperati con lo stesso debito, secondo la logica assurda di un sistema malato che condiziona ogni aspetto della nostra esistenza. I ventenni di oggi si trovano schiacciati da questo, e insorgono: “il debito non l’abbiamo prodotto noi e non dobbiamo pagarlo” urlano nelle loro proteste. Il fatto è che bisogna pagarlo, occorre trovare una via d’uscita. Ma il modo che viene indicato, e in questo senso sia destra che sinistra avanzano le stesse proposte, è la fine della fine: il mantra, incessantemente ripetuto, della necessità di una crescita economica che crei posti di lavoro, che produca ed arricchisca e consenta di comprare e comprare ed ancora comprare. Tutto ciò, insomma, che ci ha portato all’attuale condizione di crisi. Chissà che non sia questa l’occasione per riflettere e cambiare un sistema che non funziona attraverso alternative che esistono, delle quali occorre discutere e che dobbiamo mostrare alle nuove generazioni, invece di inseguire gli indicatori numerici del Pil, che misura la ricchezza materiale senza tener conto che essa stessa produce crisi.
C’è un secondo debito, ed è quello Ecologico: viviamo in un sistema che consuma risorse esauribili, ad un ritmo esasperato, senza alcuna possibilità di recuperarle o riformarle. Gli indicatori annuali ci dicono che già ad agosto abbiamo consumato tutte le risorse dell’anno: ciò vuol dire che nel momento in cui stiamo parlando il nostro pianeta vive in rosso, e negli anni a venire la lancetta si sposterà sempre più indietro. Il cambiamento climatico è palesemente in corso, ce lo dicono le catastrofi naturali che si succedono a ritmo incalzante, all’estero e in Italia, con l’aggravante, nel nostro Paese, di smascherare l’incuria e la barbarie delle politiche territoriali. Vorrei far notare come ultimamente si usino, in meteorologia ed economia, i medesimi termini: le Borse “bruciano” , la crisi è “la tempesta perfetta”. E’ una sottigliezza linguistica che nasconde uno scopo ben preciso: l’idea che si vuole trasmettere è quella di una naturalità degli eventi, in natura così come in economia. Come “non ci sono più le mezze stagioni” così anche in economia passa il concetto che sia normale che crollino le borse e gli Stati falliscano: c’è un processo di naturalizzazione di ciò che sta avvenendo a livello economico e finanziario, come se tutto potesse anche passare, o tornare il bel tempo, se si preferisce. Ma sappiamo bene che non è così.
Il terzo debito, la terza “E”, è il più pesante di tutti, quello Etico. Ci troviamo in una società dove tutto è possibile, dove si parla di meritocrazia mentre sono gli altri e meno nobili i valori sui quali ci si basa, lo vedo ogni giorno dal mio piccolo osservatorio, dove si crede a tutto, come si è creduto, ad esempio, che la crisi non ci fosse, ciò che peraltro, temo, creda ancora una parte rilevante della nostra società. Per far carriera non occorrono studi, d’altra parte la cultura non produce introiti, al contrario affama, quando invece proprio in un periodo di crisi come questo, con il Paese allo sbando, occorrerebbe investire in cultura, istruzione, università.
Ma forse una via d’uscita c’è, e possiamo provare a trovarla in questa ecologia economica gentile, invertendo il nostro modo di pensare ed agire. Io mi sono sempre domandato il perché dell’abuso del prefisso “eco”: al di là delle parole che prendiamo in esame, ossia “ecologia” ed “economia”. Oggi è tutto “eco”, come se aggiungere questo prefisso serva a lavare, a dare una patina di pulizia e rispettabilità, a dare l’impressione di un sistema sostenibile appunto. Proviamo a pensare in questi termini: l’ecologia è la gestione della nostra grande casa, del pianeta. L’economia la gestione della nostra piccola casa, della nostra quotidianità. Non è possibile, ed è ciò che accade oggi, che la gestione della grande casa, l’ecologia appunto, debba sottostare alle regole della piccola casa, dell’economia. Occorre ribaltare questo approccio: non è l’ecologia che sta dentro l’economia, non è l’ambiente, è il contrario. Occorre abbattere una prospettiva che ci ha guidati verso il disastro il fallimento, seguendo la quale continuiamo a sbattere contro un muro e peggiorare la nostra situazione. Basterebbe invertire i termini: il senso, il significato di essi è già evidente, non dobbiamo scoprire nulla di nuovo. Certo che se l’economia diventa, utilizzando categorie accademiche, una sottodisciplina dell’ecologia le azioni da mettere in campo cambiano radicalmente. Come è possibile attuare questa inversione?
Bene, penso al mio campo di riflessione, lo spreco: assieme ai ragazzi che fanno parte del progetto “Last Minut Market” abbiamo cercato le possibili soluzioni per recuperare ciò che si getta via. Abbiamo fatto, è proprio il caso di dirlo, la scoperta dell’acqua calda: da un lato abbiamo un mercato che fallisce e che produce più di quello che consuma, il surplus diventa addirittura un costo perchè si deve gettar via, smaltire; da un altro c’è chi ha bisogno. E’ un sistema squilibrato su tutto, caratterizzato da disuguaglianza a livello mondiale e rispetto a qualsiasi indicatore, denaro, cibo, acqua? Allora proviamo a riequilibrarlo: se lo spreco è una delle conseguenze del fallimento del mercato, proviamo a recuperare questo spreco. Addirittura lo spreco è la base stessa dell’esistenza del mercato: è necessario che si distrugga in fretta ciò che si produce, per poter produrre altro. E’ dal 1929 che i mercati mondiali funzionano in base a questo: tutto dev’essere usato e gettato, occorre sostituire in fretta i beni in modo da creare lavoro, con la conseguenza che ci stiamo riempendo di rifiuti, mentre buona parte di ciò che gettiamo via è ancora utilizzabile e consumabile.
Questo è il mercato, e non ci piace: vogliamo cambiarlo, senza però passare per rivoluzionari rischiando di essere bloccati in partenza. Allora aggiriamo l’ostacolo utilizzando gli stessi termini del mercato così da riuscire a fare questa rivoluzione soft, “gentile” appunto. Il mercato è domanda, offerta, prezzo. Gettare via qualcosa diventa un costo ambientale, economico, che comporta ricarichi sugli altri beni se non si riesce a vendere la merce. L’economia è anche valore d’uso, quello che ci insegnano nei libri di economia, valore di scambio. Noi siamo recintati qui, non abbiamo all’apparenza alternative. Ma recuperare ciò che si getterebbe via – che è un riequilibrio temporaneo, beninteso, non la soluzione del problema di chi ha fame, di chi è escluso, della povertà – ha un valore aggiunto inestimabile: l’ attivazione di una relazione tra un donatore e un beneficiario. Si tratta di un valore di relazione che esiste dentro al mercato, anche se ce lo siamo scordato. In una lettura in chiave antropologica si potrebbe parlare di scambio di anime, ma al di là delle angolazioni occorre recuperare questa concezione, ossia che nel mercato esiste lo scambio di relazione che a quel punto va al di là del bene che tu scambi: volutamente lo chiamo bene, non merce. Ecco che recuperiamo il valore della gentilezza: la relazione tra le persone implica infatti inclusione e scambio con gli altri.
Ma c’è anche un altro aspetto su cui riflettere: a volte si scarta semplicemente ciò che non è esteticamente apprezzabile, ad esempio perchè la confezione è danneggiata. O si getta un prodotto in scadenza o scaduto perchè si immaginano danni incalcolabili che il consumo di esso potrà causare. In entrambi i casi è il sentimento della paura a vincere: a nulla vale pensare che i livelli di protezione e controlli, ma è comodo creare il sistema della paura, che porta con sé l’esclusione di ciò che è diverso. E questo vale a tutti i livelli. Ma nel momento in cui si attiva una relazione tra ciò che è brutto, difettoso o semplicemente antiestetico e ne rivaluti invece il fatto che sia pienamente utilizzabile e consumabile, la diversità e la paura sono superate.
E’ allora in questo sistema, in questo nuovo orizzonte di valori che abbiamo già dentro di noi, nasce un’economia diversa. Ecco la nostra rivoluzione silenziosa e gentile, un’economia nuova che ammette gli stessi termini di quella tradizionale e fallimentare: abbiamo mantenuto valore di scambio e valore d’uso, valore di relazione, il legame, la reciprocità, la gratuità, il dono (pensateci: le parole “donare” e “danaro” sono quasi un anagramma l’una dell’altra). Il valore di relazione “gentile” che considera e rispetta ciò che è altro e diverso e rispetta natura e uomo è un valore che abbiamo dentro e che non costa nulla, e si consuma tutto nella relazione tra me che ho eccedenza e te che hai carenza.
Sforziamoci di ammettere questo passaggio: un’economia che stia dentro l’ecologia, ed aggettiviamola nella “ecologia economica gentile” del noi, della relazione, della gentilezza: questo è il mondo che io vorrei.
Questo intervento tenuto l’11 novembre 2011 al Convegno “Della gentilezza” organizzato dall’Auser dell’Emilia Romagna a Bologna è stato pubblicato in Inchiesta 174 gennaio-marzo 2012
Category: Economia, Osservatorio Emilia Romagna, Welfare e Salute