Interventi dal convegno “Vite, lavoro, non lavoro delle donne”

| 23 Agosto 2012 | Comments (1)

Simona Lembi (Presidente del Consiglio comunale di Bologna)

Per chi rappresenta le istituzioni è un dovere portare un saluto di benvenuto nelle assemblee in cui si è invitati ad aprire i lavori.

Ma poiché sono una donna che momentaneamente lavora nelle istituzioni (e non capita tutti i giorni di avere l’opportunità di confrontarsi con un movimento nazionale di donne) voglio dire che sono particolarmente grata al Comitato nazionale di SNOQ per avere scelto la mia città, Bologna, per svolgere un confronto nazionale sul lavoro. Sono inoltre particolarmente riconoscente al Comitato bolognese per avere insistito nel volere questo incontro. Credo abbia così interpretato al meglio una tradizione precisa di questa terra, ben rappresentata da donne come Diana Sabbi, Vittorina Dal Monte e Angiola Sbaiz, che hanno sempre collegato il loro agire politico con una riflessione su come le donne hanno praticato i luoghi di lavoro.

Sono molto convinta della scelta, in questi due giorni, di concentrarci sul lavoro e sui lavori delle donne, guardandoli attraverso una lente particolare, purtroppo molto usata di questi tempi, chiamata precarietà.

C’è un paradosso in tutto questo e cioè che mentre noi denunciamo i rischi di una flessibilità sempre più spinta, un senso comune, ben interpretato da una certa politica e da una certa stampa, vuole (per dirlo con le parole di Maria Letizia Pruna) “farci dimenticare quanto sia ordinario nelle nostre società, che svantaggi di vario tipo si cumulino sempre sui medesimi individui o su specifiche categorie sociali” alcune delle quali cambiano sempre (i giovani ad un certo punto si emancipano e diventano adulti), altre cambiano qualche volta (i disoccupati a volte trovano lavoro), altre ancora, non cambiano mai: le donne rimangono donne.

In altri termini: nella precarietà siamo la categoria più stabile!

Ricordo a questo proposito una vignetta di Ellekappa che ad un suo personaggio faceva dire: “l’ultimo posto fisso che ho avuto è durato nove mesi. Trent’anni fa”.

Basterebbe esplicitare questo paradosso affermare quanto sia necessario che un movimento nazionale di donne si rivolga a partiti, governi, alle banche per affermare che se guardassero a noi, alle nostre vite, alle nostre fatiche, ai nostri saperi, troverebbero, con più facilità, qualche risposta credibile a questa crisi.

Mi preme in questo caso fare alcuni esempi:

1) L’espressione “boom di disoccupazione” è sempre più diffusa. L’Istat afferma che sia arrivata al 9,2% e che questo sia il dato peggiore dal 2004 ad oggi. Le Italiane hanno da sempre tassi di disoccupazione decisamente più elevati rispetto alle donne di altri paesi europei. È bene ricordare che neppure un’italiana su due oggi è occupata. Abbiamo visto proposte all’altezza di questo tragico fenomeno?

2) Si afferma sempre più spesso, in Italia, che gli stipendi sono bassi. Le donne dicono da qualche decennio che sulle loro remunerazioni pesano differenziali salariali sempre più ampi e che i loro lavori hanno minori prospettive di crescita. Abbiamo letto proposte adeguate a questa ingiustizia?

3) È sempre più frequente definire la rinuncia alla ricerca del lavoro come un vero e proprio allarme sociale. È ancora Maria Letizia Pruna a ricordarci come, nel 2003, l’Istat avesse calcolato che 350.000 donne non cercavano un’occupazione perché convinte di non riuscire a trovarla, mentre gli uomini nella stessa condizione erano 47.000. Inoltre, le donne che dichiaravano di non cercare un lavoro per motivi familiari arrivavano a 4 milioni 400 mila, a fronte di poco più di 300 mila uomini. Abbiamo letto di proposte significative per contrastare questo grave fenomeno?

Quello che mi interessa affermare è che le condizioni che oggi si sostiene essere insopportabili per un’intera parte del mondo (l’Occidente in generale e l’Europa in particolare), non sono state affrontate davvero, non perché non esistessero anche prima, ma solo perché riguardavano una parte soltanto della popolazione, stabilmente sempre la stessa: le donne.

In questi casi è evidente come non sia sufficiente affermare la necessità per i decision maker di ascoltare di più le donne. Chiedere che aprano gli occhi su questioni che noi conosciamo da tempo, non basta più. È invece urgente e necessario fare vedere noi chi siamo e quindi essere capaci di spostarci da un dibattito residuale e periferico ad un confronto nazionale ed internazionale capace di stare sulle questioni dell’agenda politica e quindi sulla definizione delle sue priorità.

Il governo Monti ha dichiarato di voler perseguire il ‘risanamento’ dell’Italia sulla base di tre principi: rigore, equità, sviluppo.

Sul primo obiettivo è opinione diffusa che questo governo abbia cambiato passo rispetto a quello precedente. Prova ne è la notizia dei giorni scorsi della pubblicazione del rapporto deficit/PIL del 2011: è sceso al 3,9% dal 4,6% dello scorso anno, al di sotto del limite del 4% sotto il quale neppure il governo Monti era pronto a scommettere. In altre parole sono stati efficientissimi nel tagliare la spesa pubblica e nell’aumentare le tasse. E per quanto occorra condividere le ragioni del rigore, è bene riflettere sulle ricadute che i tagli dei bilanci delle amministrazioni pubbliche comportano sulla vita quotidiana di donne e uomini.

Relativamente all’equità è mia opinione che siamo in presenza di ‘ritocchi’, di azioni di ‘scarso impatto’: aprire un certo numero di farmacie, spostare sui comuni le possibili nuove licenze per i taxi, ragionare sulla parcella dei liberi professionisti rappresentano la classica fogliolina d’insalata nel piatto principale, in questo caso dopo un abbondantissimo antipasto di tasse.

Quanto allo sviluppo avremmo tutte preferito affermare ‘non pervenuto’. Invece assistiamo alla classica arma di distrazione di massa: ci dicono che le aziende non investono in Italia per colpa dell’articolo 18, che il problema dell’aumento della produttività è per colpa dell’articolo 18, ora ci dicono anche che per risolvere i problemi di mancato sviluppo, basterebbe semplicemente togliere di mezzo l’articolo 18.

Abbiamo quindi una grande responsabilità, come donne, poiché conosciamo le conseguenze di politiche non eque e di crescita difforme. Abbiamo il dovere di:

1) Ricordare la catena delle responsabilità di questa crisi economica, che non è di deficit pubblico, ma che parte come crisi di finanza mondiale tra il 2007 e il 2008 e si scarica successivamente sui bilanci pubblici. Lo dobbiamo ricordare tutte le volte che ci chiedono di tagliare asili, scuola, sanità!

2) Affermare che le donne non vogliono sostituirsi al potere ma, invece, riformarlo. Non si tratta più, come forse potevamo sperare fino a dieci anni fa, di sostituirci alla guida dell’auto. Bisogna affermare il desiderio di cambiare mezzo di trasporto. E di esprimere nuove modalità per agire un conflitto inevitabile.

3) Essere massa critica è l’unica modalità per provare a fare tutto ciò. Per anni è stato sostenuto che la massa critica fosse una cifra. Gli studi ci dicevano “intorno al 30%” per essere viste. Occorre dimostrare, oggi, che non siamo più oggetto della crisi, oggetto delle riforme, oggetto della politica, ma soggetto della crisi, soggetto delle riforme, soggetto della politica. Il limite più forte che ci separa da questo obiettivo siamo solo noi. Per parte mia vedo, con molta preoccupazione, ancora troppa diffidenza tra le donne che scelgono di stare in un partito, quelle che scelgono di stare in un movimento e quelle che lavorano nelle istituzioni. Occorre provare, non sulla base di una disponibilità generica, ma su un’agenda politica condivisa, a metterci in relazione, a costruire alleanze, a riconoscerci reciprocamente fiducia.

Per queste ragioni ritengo molto importante che un movimento nazionale come SNOQ inizi a costruire la sua agenda politica a partire dal lavoro, dai lavori delle donne, affermando che il precariato non funziona, che i servizi pubblici sono una priorità, che è tempo di leggi, come il congedo di paternità maschile obbligatoria, per dare cittadinanza al lavoro di cura maschile.

Buon lavoro!

 

Barbara Pettine (FIOM-CGIL Nazionale)

Ieri, nella sua relazione, Paola Villa ha detto che la ricetta europea per rispondere  alla crisi, liberista e monetarista,  si è dimostrata essere una cura peggiore della malattia.

Condivido questo giudizio e, se guardiamo all’Italia, i dati economici che parlano ormai chiaramente di  recessione ce lo confermano.

L’Europa  di  Merkel, Sarkozy, Draghi e Monti ha imposto il totem del  “pareggio di bilancio” a costo del massacro sociale e della perdita di effettiva sovranità politica da parte degli Stati nazionali (vedi Grecia, ma anche noi siamo governati da una sorta di “commissariato europeo”).

La posta in gioco oggi  è lo smantellamento del Welfare e del modello sociale solidaristico che ha caratterizzato lo sviluppo europeo dal dopoguerra ad oggi: invece che un valore  per la coesione sociale nelle società evolute lo stato sociale  viene degradato  e  considerato cinicamente  un “lusso” che non ci possiamo più permettere. Ricordate l’intervista di Monti che accusava  di  troppo buonismo i passati governi? O  Fornero che parla di ammortizzatori o del sistema pensionistico come ‘privilegi’? O ancora le più recenti dichiarazioni di  Draghi che recita il de profundis del modello sociale europeo?

Allo stesso tempo è stato scatenato un attacco senza precedenti ai diritti e alle condizioni di lavoro, attacco che già modifica nella materialità dei rapporti di produzione  e delle relazioni sociali, i fondamenti stessi della nostra Costituzione, che già oggi è stracciata nei suoi principi fondamentali, a partire dall’articolo 1, dal rispetto della dignità del lavoro, dei principi di eguaglianza e non discriminazione  tra i sessi, le etnie, le religioni…

In questi mesi, nel silenzio quasi totale dell’opinione pubblica e anche dei partiti del centrosinistra, in Italia si è creato un mostro, un mostro che si chiama Fiat, il più grande gruppo industriale del nostro paese, che si pone, indisturbato, fuori dal CCNL, fuori dalle leggi italiane ed europee, fuori dalla Costituzione.

Nel giro degli ultimi sei mesi si sono compiuti fatti che incidono pesantemente sulla materialità delle condizioni di lavoro delle donne e uomini nel nostro paese:

  • L’attacco al CCNL, attraverso l’articolo otto della manovra Tremonti che permette i cosiddetti contratti di prossimità in deroga  ai contratti nazionali e legittima gli accordi vergogna di Pomigliano e Mirafiori (accordi separati imposti da Marchionne col ricatto  dei licenziamenti e dell’abbandono  produttivo dell’Italia).
  • La manovra Monti-Fornero che ha prodotto il massacro del sistema pensionistico con risultati devastanti in particolare per le donne, ‘colpevoli’ di avere un’aspettativa di vita maggiore e mai considerate per il doppio lavoro che rendono durante tutta la loro vita e che già pesa negativamente su salari, carriere e rendimenti pensionistici.
  • L’accordo separato del 13 dicembre 2011 che estende a tutti gli 86.000 dipendenti del gruppo Fiat/Fiat Industrial gli accordi di Pomigliano e Mirafiori e mette al bando da tutti gli stabilimenti italiani la Fiom Cgil, sindacato di maggioranza relativa, colpevole di non aver sottoscritto l’accordo vergogna. Accordo che cancella i diritti e le libertà sindacali, toglie la rappresentanza e la possibilità di eleggere i delegati e di votare sugli accordi , attacca il diritto di  sciopero, discrimina le donne dal premio di risultato, impone orari e ritmi di lavoro insostenibili e frenetici (pausa mensa a fine turno, 120 ore di straordinario obbligatorio, con comandate che possono essere fatte anche durante la mensa e le pause, penalizza la malattia e l’infortunio).
  • E adesso, infine, con la trattativa sul mercato del lavoro, si vogliono  diminuire gli strumenti di tutela dalla disoccupazione, eliminando la cassa integrazione e i contratti di solidarietà, e  liberalizzare i licenziamenti aggredendo l’articolo 18 dello Statuto.

Visto dalla parte delle donne tutto ciò ha conseguenze devastanti.

Una logica che sacrifica diritti al profitto mette nel tritacarne tutto anche  i diritti indisponibili, anche principi di civiltà come la tutela della maternità che  molte di noi pensavano intoccabili fino a poco tempo fa, mentre   il dibattito tra le donne indica come necessario un allargamento ed un potenziamento  degli strumenti verso una  condivisione delle responsabilità parentali tra i sessi, che oggi più che mai sembra frontiera lontana e irraggiungibile.

Respinte indietro di oltre 50 anni! Ciò che  pareva scontato e garantito, non è più nella disponibilità di  tutte!

Ecco che l’accordo separato della Fiat discrimina esplicitamente le donne dal salario di produttività se sono in maternità, allattamento, congedi parentali , o per malattia figlio, o per assistenza ai disabili ( legge 104).

Altro che congedi di paternità!

Se non sei presente in fabbrica, sei colpevole e perdi il diritto al premio.

Ma anche la nuova organizzazione del lavoro non guarda ai corpi, tantomeno a quelli delle donne che sulla linea lavorano in condizioni di fatica non più sopportabili.

Se il nuovo metodo Ergowas/metrica applicata alle catene di montaggio, compromette la salute riproduttiva, la fertilità, se il troppo lavoro nuoce al ciclo mestruale, causa amenoree o flussi emorragici, può essere causa di aborto, nessuna valutazione  del rischio lo rileva, e le donne che stanno male e si assentano  vanno punite.

Non solo non prenderanno il premio di risultato, ma rischiano di non vedersi pagati i primi giorni di assenza quando le  assenze sono brevi.

Ecco la modernità di Marchionne, la sua capacità lungimirante di gestire il lavoro e di promuovere l’occupazione  femminile nei suoi stabilimenti.

Ma le donne Fiat (ce ne sono oltre 15.000 in tutti gli stabilimenti del gruppo), a cui è stato tolto il diritto di avere un sindacato liberamente eletto, a cui è impedito di candidarsi  ed esercitare ruolo sindacale in prima persona, se sono iscritte o simpatizzanti della Fiom, a cui sono state tolte le bacheche sindacali e il diritto a volantinare in fabbrica, non sono state ferme e zitte di fronte alla cancellazione dei loro diritti, della loro dignità, all’abuso delle condizioni di lavoro sui loro  corpi, in più di 200 hanno scritto direttamente a alla ministra Fornero  denunciando  le  norme discriminatorie e rivendicando il diritto alla salute, chiedendole di intervenire e di incontrarle, anche  per farle conoscere meglio cos’è lavorare in Fiat da donna  nell’era Marchionne.

Vogliamo che la Fornero le ascolti, che rimuova le discriminazioni, che venga istituita una commissione indipendente per la tutela della salute delle donne che sono esposte a questa nuova intensificazione dei ritmi e della saturazione  nel lavoro vincolato.

Chiediamo a tutte voi di sostenere la loro/nostra iniziativa, perché è altamente simbolica e concreta al tempo stesso e parla a tutte , dentro e fuori la fabbrica , delle libertà negate, di una democrazia inceppata, dell’impossibilità di vivere   il lavoro con dignità  quando i diritti vengono considerati privilegi, vecchi arnesi da dismettere  sull’altare della produttività e per un  supremo bene comune , che  comune non è e che , al contrario, punta a distruggere conquiste di civiltà e beni comuni.

Anche per questo come metalmeccaniche e metalmeccanici facciamo sciopero il 9 marzo e  chiamiamo tutte e tutti a partecipare  con noi alla  manifestazione nazionale a Roma:

  • per riconquistare il contratto nazionale di lavoro  e la democrazia sui posti di lavoro,
  • per rientrare in Fiat a pieno titolo come è giusto che sia se le lavoratrici e li lavoratori scelgono   e sono la Fiom in fabbrica,
  • Contro la riforma delle pensioni ingiusta e  penalizzante  per le donne
  • Per estendere gli ammortizzatori sociali e le garanzie dell’art.18 anche ai precari
  • Per il reddito di cittadinanza ed un a riaffermata dignità del lavoro
  • Per un diverso modello di sviluppo, una redistribuzione del tempo di lavoro e un più avanzato equilibrio tra i sessi e le generazioni che è il solo modo  per uscire dalla crisi evitando il massacro sociale.

I diritti non sono privilegi! Democrazia al lavoro!

 

Katia Graziosi (UDI)

Rappresento l’UDI, Unione Donne in Italia, un’associazione che è stata protagonista fin dal 1944 delle principali battaglie portate avanti in questo paese per il diritto al lavoro delle donne, per i diritti delle donne nel lavoro, nonché per un modello di produzione che riconoscesse la specificità femminile nel lavoro: un modello a misura di donna e proprio perché tale a misura di tutti. L’UDI ha sempre considerato il lavoro come base per l’emancipazione femminile, l’autodeterminazione e il reale esercizio della cittadinanza.

Riteniamo che la crisi, e le risposte all’insegna dell’austerity, abbiano acuito i problemi strutturali delle lavoratrici e di tutte le donne. Consideriamo la crisi un’occasione per mettere in discussione un modello economico che distrugge e mortifica l’economia della riproduzione. Ribadiamo con forza che le donne devono essere considerate una parte fondamentale della società su cui è più che mai necessario investire: combattere l’inoccupazione e la disoccupazione delle donne e promuoverne l’occupazione significa infatti innescare un meccanismo economico virtuoso per l’uscita dalla crisi, dando vita ad una società più equa e più inclusiva. Riteniamo sia necessario mettere in pratica un piano generale per l’occupazione femminile di qualità, sull’esempio di quello contenuto nel “Patto per la crescita, intelligente, sostenibile ed inclusiva” della Regione Emilia-Romagna. Ribadiamo inoltre la necessità di promuovere la micro-imprenditorialità femminile, attraverso forme di micro-credito a misure di donna.

La precarietà rende sterili, questo lo slogan che l’UDI lanciò l’8 marzo 2006. La precarietà ha un genere: la precarietà è donna, perché le donne sono le più precarie e per loro è più difficile uscire da questo tunnel. La precarietà per le donne si traduce anche nell’impossibilità di divenire madri: il desiderio di maternità e la stessa possibilità di procreare non sono più liberi. Proponiamo che il carattere di genere della precarietà venga affrontato con misure dirette a uniformare i trattamenti di maternità per tutte le lavoratrici. Ribadiamo con forza la necessità e l’urgenza che il Ministro del Lavoro adotti la risoluzione n. 2018 del Parlamento Europeo dell’ottobre 2010 sulle lavoratrici precarie, tenendo pienamente conto nella riforma del mercato del lavoro delle indicazioni date del Parlamento europeo per il superamento della precarietà nella sua specificità di genere: misure legislative che introducano standard minimi e vincolanti di protezione sociale per tutti i lavoratori e le lavoratrici indipendentemente dalle condizioni di impiego, lo sviluppo dei servizi di cura perché il part-time sia una libera scelta, la garanzia di una retribuzione decente anche in condizioni di precarietà, misure per porre fine ai contratti a zero-hour. una legislazione che regolamenti lo status giuridico e sociale delle lavoratrici stagionali (a maggioranza donne) garantendo loro la copertura previdenziale

Le discriminazioni che oggi le donne sperimentano sul lavoro non sono nuove, ma il frutto di un paradigma culturale arretrato che l’UDI combatté con forza tra anni Cinquanta e Sessanta fino a quando il parlamento nel 1963 si assunse la responsabilità di varare una legge contro i licenziamenti per matrimonio, legge che dichiarava illegali le forme più incivili di discriminazioni legate alla maternità, tra cui le dimissioni in bianco, oggi tristemente tornate in auge. Siamo impegnate per il ripristino della legge 188 cancellata dal governo Berlusconi, auspicando che venga ulteriormente rafforzata introducendo strumenti realmente efficaci che impediscano la fine del contratto di lavoro contro la volontà della lavoratrice o del lavoratore. Ci impegneremo per una più generale sensibilizzazione contro la discriminazione delle donne come potenziali madri e affinché vi sia un monitoraggio sul fenomeno delle dimissioni in bianco.

Ribadiamo con forza il valore sociale della maternità: la maternità non può continuare ad essere considerata come un problema delle donne. In continuità con la nostra tradizione politica, affermiamo che la maternità è un valore per l’intera collettività. Crediamo fermamente che le politiche di conciliazione tra tempi di vita e di lavoro debbano essere una tappa per una vera condivisione fra uomo e donna dei compiti di accudimento. È lo Stato il primo che investendo in politiche di conciliazione e servizi di welfare per l’infanzia, l’adolescenza, la vecchiaia, la malattia deve dare l’esempio alle aziende. Lo stato deve investire sui suoi futuri cittadini e cittadine, poiché sono il futuro.

Concludiamo ribadendo con forza che il lavoro deve continuare a costituire la base della nostra società. Il lavoro non è mercificabile, così come non lo è il corpo e la vita della donna che lavora: riteniamo infatti che la produzione e le merci devono essere al servizio delle persone e non viceversa. Non vogliamo più assistere a tragedie come quella delle operaie di Barletta, dove anche il lavoro nero in condizioni estreme è considerato un ammortizzatore sociale. Noi dell’UDI saremo accanto a tutte le donne, e in particolare a quelle in difficoltà come quelle dell’OMSA e della FIAT, che insieme a noi vorranno costruire il cambiamento dei modelli produttivi e dell’organizzazione del lavoro perché si possa vivere con serenità e pienezza il presente e guardare con fiducia al futuro come lavoratrici, cittadine, madri, e prima e soprattutto come donne.

 

Rita Ghedini (Senatrice PD)

In un momento di trasformazione dell’esercizio democratico, il dibattito sulla possibilità e le condizioni di un esercizio sessuato del potere, delle forme della sua istituzionalizzazione e storicizzazione, sarà cruciale per la politica e per la democrazia nel nostro Paese.

Così come sarà cruciale la questione del lavoro: la condizione delle donne nel mercato del lavoro appare, infatti, prototipica del le condizioni di maggiore potenzialità e di maggiore criticità per l’occupazione: le donne sono più istruite, hanno skills migliori, ma sono più disoccupate, più precarie, hanno rediti più bassi, sono più esposte al rischi di povertà in tutto l’arco della vita.

Per non discriminare donne e uomini, occorre mettere in campo politiche discriminate, rivedere i concetti di “pari opportunità” e di “meritevolezza”, dandone una declinazione attenta a non riprodurre un mero paradigma competitivo, che malamente impatta con una condizione in cui gli elementi oggettivabili, misurabili sul piano pubblico sono spesso una quota non prevalente.

Esiste una questione  paradigmatica di questa situazione: la maternità: sceglierla e viverla liberamente è cruciale per garantire un cambiamento sostanziale nella condizione delle donne italiane e il mantenimento di relazioni solidali fra generi e generazioni.  Ci sono perciò alcuni interventi attorno ai quali costruire un’ azione politica che vada a vantaggio di entrambi i generi: slegare le donne- non solo loro, ma soprattutto loro – dal ricatto delle “dimissioni in bianco” cui sono soggette in particolare in relazione all’evento di maternità ; estendere le tutele di maternità a tutte le tipologie contrattuali e forme di prestazione lavorativa; riconoscerne il valore sociale addossando almeno parzialmente il costo della tutele per la maternità alla fiscalità generale; affrontare la questione della diseguaglianza reddituale,  per garantire un reddito compatibile con la scelta del lavoro intervenendo sulla politica fiscale; affrontare la questione della divisione del lavoro di riproduzione e di cura all’interno delle coppie e delle famiglie intervenendo sui congedi e introducendo congedo di paternità obbligatorio; progettare e garantire i livelli essenziali dei servizi di supporto alla cura per produrre, in un circolo virtuoso noto, maggior lavoro.

E’ un percorso che richiede risorse importanti, ma dal quale non si può prescindere, seppur modulando modi e tempi sull’attuale congiuntura, per progettare un nuovo  modello di sviluppo,che faccia del genere il driver di un nuovo paradigma economico e sociale.

 

Francesca Izzo (Comitato promotore “Se non Ora Quando?”)

Innanzitutto vorrei esprimere gratitudine alle organizzatrici del primo incontro nazionale di Se non ora quando su  uno dei temi centrali della nostra agenda , in particolare a quel manipolo di giovani coraggiose che lo scorso ottobre candidò Bologna ad ospitarlo, assumendosi il carico della preparazione.

Anche in questa occasione, così importante per noi sia per il merito delle questioni che abbiamo discusse che per la qualità e l’impegno delle partecipanti, è risaltato uno degli aspetti originali del nostro movimento:  il coinvolgimento al suo interno di donne impegnate nei partiti, nei sindacati, in genere nella vita pubblica e il rapporto ricercato all’esterno con le istituzioni. Basta pensare al non formale intervento svolto  ieri dal sindaco, alla partecipazione al dibattito di consigliere comunali,di parlamentari, di dirigenti sindacali.

Perché parlo di originalità? Perché la ricerca di  coinvolgimento e di rapporto segna una differenza di grande rilievo con altre stagioni del movimento delle donne nel nostro paese. Stagioni nelle quali un atteggiamento programmaticamente, volutamente antiistituzionale ha contraddistinto la politica delle donne, creando una distanza tra donne delle istituzioni e dei partiti e donne dei movimenti che non ha certo giovato né alle une né alle altre e che soprattutto non ha giovato alle  italiane e all’Italia intera.

Il superamento di questa distanza è un tratto, appunto nuovo, che può dare una forza e un peso assolutamente straordinario al movimento, alimentando quella unità e sinergia che è mancata in altri momenti.

Ma proprio perché costituisce un aspetto nuovo, ricco di enormi potenzialità, richiede un di più di cura, di riflessione, di elaborazione.E’ attraverso il modo in cui Se non ora quando pensa di affrontare e risolvere il nodo, che tocca ovviamente anche la qualità della democrazia, del rapporto movimento/istituzioni (rappresentative e non rappresentative),che si giuoca gran parte della forza del movimento delle donne, che si vedrà insomma se avremo la forza di cambiare il nostro paese  e  di farne un paese a misura dei due sessi.

C’ è un modo possibile e legittimo di intendere cosa è Se non ora quando che è quello della costruzione di una rete che raccolga e tenga assieme donne singole e appartenenti a associazioni, a partiti, a sindacati, ciascuna ben riconoscibile nella propria identità. Il tratto unificante di tutte queste diversità viene dato dal convergere su obiettivi scelti in comune, intorno ai quali organizzare campagne mediatiche e di mobilitazione, per ottenerne la realizzazione.

Si tratta di qualcosa che certo non c’è mai stato in Italia e che potrebbe riscuotere anche qualche successo, ma si tratta anche di qualcosa che si limita a raccogliere quello che già c’è e lo mette appunto “in rete”.

Ma Se non ora quando ha dentro di sé anche un’altra potenzialità, quella di rappresentare e proiettare in grande un punto di vista politico di donne, un punto di vista generale sull’intero a partire dall’idea di  una società di donne e uomini.

Questo punto di vista, innalzato a dimensione politica e non solo culturale, non si configura come tale in nessuna organizzazione, in nessun partito, in nessuna istituzione, solo un movimento di donne, autonomo, cioè che fonda la propria esistenza politica su quel punto di vista, può farlo proprio e tradurlo in azione efficace.

Un’efficacia che si misura a cominciare da quanta forza riesce a trasmettere alle donne che agiscono nei vari luoghi della vita pubblica, stabilendo continuità e sinergie, ma senza vincoli di appartenenze precostituite, nella libertà garantita dal parlare e agire in autonomia.

Certo perché questa idea possa mettere gambe occorre condividere il convicimento che il punto di vista di donne non è né settoriale, né corporativo ma è una straordinaria risorsa per cambiare il mondo, tutto.

 

Cristina Gramolini (ArciLesbica)

In questo intervento farò più domande che dare risposte, allo scopo di stimolare una riflessione su cosa può significare essere lesbiche in Italia, in un contesto caratterizzato da profonde disuguaglianze di genere, fortemente arretrato dal punto di vista culturale e legislativo per quanto riguarda il riconoscimento di diversi orientamenti sessuali, tradizionalista rispetto ai ruoli di genere, in cui l’immagine della donna raramente emerge per capacità e competenze individuali, ma appare quasi sempre subordinata alla figura maschile, spesso ridotta a mero oggetto sessuale.

Nel caso delle donne lesbiche, limitarsi a  quantificare i fatti di discriminazioni omofobe in cui possono incorrere a scuola o sul lavoro, in famiglia o per strada, disconoscendo il rilievo che assume la dimensione di genere nei loro vissuti quotidiani, porta a trarre conclusioni riduttive e superficiali.

La dimensione lesbica per essere compresa va collocata all’interno del tema delle immense disuguaglianze di genere che caratterizzano il nostro paese al quale vanno aggiunte le discriminazioni specifiche generate dall’arretratezza legislativa e culturale dell’Italia rispetto al tema dei diversi orientamenti sessuali.

Parliamo di lavoro. Le domande che pongo sono: fino a che punto una ragazza lesbica sarà libera di manifestare il proprio orientamento sessuale, in famiglia ad esempio, quando è legata rapporti di dipendenza economica da cui è difficile sottrarsi perché manca la possibilità di lavorare?

In un contesto di gravi disuguaglianze, culturalmente arretrato in cui un politico può paragonare impunemente un bacio lesbico al gesto volgare fare pipì per strada, fino a che punto una donna lesbica è libera di essere sé stessa sul posto di lavoro?

Quali sono le condizioni economiche e di benessere psicofisico delle coppie lesbiche in un contesto che, le priva di elementari diritti e doveri disconoscendo la loro unione?

Parliamo di redditi. Ciò che emerge dagli studi è che il differenziale salariale tra uomini e donne in Italia non è dato in molti casi da motivi legittimi, bensì da una vera e propria discriminazione, ovvero dal fatto che il mercato valuta di minor valore molte caratteristiche individuali quando possedute dalle donne.

In un contesto culturalmente arretrato che svaluta il valore umano e professionale delle donne, intriso di pregiudizio misogino e omofobico, come verranno valutate le caratteristiche individuali e le capacità professionali di donne le cui scelte sessuali sono cancellate o oggetto di derisione?

Quanta libertà di essere sé stesse, di mostrarci serenamente come lesbiche, di uscire dal ricatto dell’invisibilità e di migliorare professionalmente, ci può essere in un contesto che lavorativamente ci penalizza anche solo perché “donne”?

Parliamo di conciliazione. Malgrado una legislazione che prevede i congedi parentali – che tuttavia non è accessibile alle coppie di lesbiche con figli – di fatto le soluzioni disponibili al problema della conciliazione tra lavoro retribuito e lavoro di cura sono soltanto due: il ricorso alla famiglia allargata (genitori, nonni) per l’assolvimento dei compiti di cura, e il part time che le aziende concedono con riluttanza.

Questo assetto che ricadute può avere sulle coppie di donne che hanno figli?

Considerando l’impossibilità in Italia di accedere alla procreazione assistita per una donna da sola o in coppia con un’altra donna – questo assetto che ricadute può avere rispetto al desiderio di avere dei figli da parte delle donne lesbiche?

Il ricorso all’aiuto di genitori e nonni può essere considerata una soluzione realmente praticabile per le donne lesbiche con figli in un contesto culturalmente arretrato che spinge ancora le persone lgbt a spostarsi dalle provincie per vivere più liberamente la propria omosessualità nelle grandi città?

L’assenza di adeguata formazione per il personale della scuola sul tema della omosessualità e della omogenitorialità quante preoccupazione e problemi aggiuntivi può generare in chi è lesbica e ha figli?

Parliamo di lavoro di cura. La donna, in Italia, è ancora considerata l’attrice esclusiva della cura, sia per figli, sia per gli anziani. Secondo l’Istat nel 2000 il 35,9% delle famiglie italiane deve prendersi cura di almeno un anziano e i carichi di lavoro famigliare ricadono interamente sulle donne. Quali contraddizioni e discriminazioni deve ancora vivere una donna lesbica di fronte ad un contesto sociale che se da una parte esige che assuma attivamente il ruolo di cura dall’altra continua a disconoscere le sue scelte sessuali?

Questo intervento contiene più domande che risposte, perché in Italia manca ancora una analisi seria della situazione economica di lesbiche e gay e delle differenze tra loro L’analisi del nostro vissuto ci spinge a richiedere con forza piena uguaglianza formale e sostanziale.

Sintesi del discorso fatto da Cristina Gramolini, vice-presidente di ArciLesbica Nazionale, al Convegno “Vita Lavoro e non Lavoro delle donne” del 4 e 5 Marzo 2012, estratto da un documento redatto dalla Segreteria Nazionale di ArciLesbica e presentato da Giovanna Camertoni il 16/02/2012 a Roma al seminario Unar presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri alla presenza della Ministra Fornero.

 

Blagovesta Guetova (Agorà dei Mondi)

Buongiorno a tutte e a tutti,

Sono Blagovesta Guetova, fondatrice e presidente dell’associazione di donne immigrate e italiane Agorà dei Mondi che da diversi anni svolge attività rivolte all’empowerment sociale, economico, politico delle donne immigrate nella società italiana e al miglioramento della qualità della loro vita.  Negli ultimi anni abbiamo realizzato diversi progetti nell’ottica del “femminismo interculturale”, ideati, progettati e realizzati da donne immigrate a favore di donne immigrate, considerando il genere elemento chiave nell’immigrazione e le donne immigrate soggetto attivo nel processo migratorio.

Come è ben noto per lungo tempo nello sviluppo delle politiche di integrazione dei migranti non si sono tenute in debito conto le donne, presumendo che non facessero parte attiva del mercato di lavoro. Tuttavia, da ricerche svolte negli ultimi 15 anni, risulta che le donne immigrate sono in realtà lavoratrici occupate in una varietà di settori e rappresentano una grande fetta della forza lavoro ufficiale e non ufficiale. Recentemente si parla addirittura  di un nuovo lavoratore transculturale e transnazionale di genere femminile, che potrebbe essere definito hypermobile global female worker, che ha caratteristiche di affidabilità, economicità, efficienza, competenza, impegno e multifunzionalità.

Quasi la meta della popolazione straniera in Italia è composta di donne, in molti territori è anche superiore come per esempio a Bologna e provincia dove le donne rappresentano 53% della popolazione straniera.

Secondo i dati di Censis incrociati con quelli della Caritas nazionale e dell’INPS nel 2010 le collaboratrici domestiche (baby sitter, colf e badanti) in Italia sono circa 1 milione e mezzo, ma sono solo circa 700 mila gli italiani che pagano loro regolarmente i contributi previdenziali e che assumono le badanti – più di 70% straniere, la maggior parte giovani donne con elevato livello di istruzione.

Nell’ambito di un’analisi di genere nel contesto lavorativo, possiamo parlare di “discriminazioni multiple” delle lavoratrici straniere, basate sull’origine etnica di provenienza e sul sesso, a cui di frequente si somma anche il fattore dell’estrazione sociale.

Nonostante le donne immigrate affrontino percorsi migratori diversi, provengano da una varietà di nazioni e abbiano acquisito competenze scolastiche e professionali spesso elevate, esse hanno in comune il fatto di essere inserite in livelli occupazionali bassi e non qualificati, di essere sottopagate, di essere segregate nei settori delle pulizie e di servizi e cura alle persone e a bassa retribuzione che le rende ricattabili, poiché dipendenti dal lavoro per il permesso di soggiorno o la stessa sopravvivenza, dato che molto spesso sono sole, prive di qualcuno garanzie di un temporaneo sostegno economico.  Le lavoratrici immigrate sono spesso costrette di scegliere volontariamente il lavoro part-time, la flessibilità un po’ forzata, perché per molte è l’unica possibilità per gestire famiglia e figli spesso in assenza di una rete di supporto famigliare e di carenti servizi al sostegno della famiglia. Agli orari flessibili delle donne che non si fermano d’estate, nei fine settimana o durante le ore notturne, occupate nei ristoranti, nelle aziende di pulizie o nelle fabbriche, non fanno riscontro i servizi di welfare “flessibili”, assenti o tarati sulle otto ore standard.

Colf e “badanti” licenziate quando si scopre la gravidanza non sono casi rari e di nuovo sono le donne le prime a pagare la crescente flessibilità che, con i nuovi contratti di lavoro nega diritti che le donne davano già per acquisiti.

L’immigrazione femminile è un fenomeno complesso, composto di madri capofamiglia, madri transnazionali, famiglie patchwork, con molteplici situazioni e strategie di inserimento che richiedono una maggiore sensibilità e sostegno nei confronti delle sue protagoniste nonché analisi e riflessioni mirate anche riguardo agli effetti sull’intera società di accoglienza e sulle nuove generazioni.  E sono spesso proprio loro le nostre migliori alleate per la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro ai quali confidiamo la cura dei nostri prediletti – figli, genitori, case.  Dobbiamo cominciare a pensare come valorizzarle, come  favorirle affinché possono vedere garantita quella conciliazione a noi tanto cara e quei diritti che pensavamo di aver ottenuto ma adesso vediamo sempre più minacciati. Dobbiamo sperimentare nuove modalità di partecipazione e di coinvolgimento delle donne immigrate nel individuare le politiche finalizzate al superamento e alla prevenzione dei meccanismi sociali e culturali che determinano l’isolamento, l’indebolimento, la carenza di sicurezza, di dignità e di tutela nel lavoro.  E dobbiamo rendercene conto che abbiamo bisogno di trovarci unite in mezzo a questo movimento popolare che riguarda la vita ed il lavoro – non lavoro di tutte noi, immigrate e italiane, perché ormai è già ora, il quando è adesso.

 

Eleonora Pacetti (EXbo)

Buongiorno a tutte e a tutti, facciamo parte di Exbo, una rete che unisce bolognesi emigrati con quelli che invece a Bologna sono rimasti.

‪Affrontiamo temi propri alla nostra identità in movimento con la volontà di mettere in rete le nostre competenze e esperienze per costruire un ponte tra la città di Bologna e il resto del mondo. Ci confrontiamo sulle risposte che i Paesi nei quali viviamo hanno dato a temi di pubblica utilità, individuando buone pratiche e, se necessario, sfatando dei miti.

‪Abbiamo sentito l’esigenza di prendere la parola a questo convegno perché la realtà delle emigrate merita di essere valorizzata. E perché le esperienze che le donne emigrate vivono fuori dall’Italia possono essere spunto d’importanti riflessioni anche per le politiche che riguardano il nostro Paese.

‪All’interno di Exbo ci siamo chieste come fuori dall’Italia si affrontino temi quali la parità salariale, la conciliazione tra famiglia e lavoro, la condivisione del lavoro di cura.

Siamo rimaste noi stesse tristemente sorprese di leggere su le Monde che in Francia – dove proprio adesso il governo sta promuovendo una campagna sociale per la condivisione del lavoro di cura e per la parità di condizioni sul lavoro – i dati del 2009 ci presentano una disparità salariale tra uomini e donne impressionante: 20%.

Un giovane padre ha raccontato la sua esperienza di vita e lavoro in Olanda, Paese in cui i servizi sono eccellenti (anche perché le tasse sono altissime) ma in cui si ha comunque la sensazione che ci sia ancora molto da fare per permettere alle donne l’accesso alle più alte cariche dirigenziali.

Una delle testimonianze, però, che forse lascerà qualcuna di voi sorpresa viene dalla Svizzera. Quì una donna ha probabilmente molte più opportunità di quante l’Italia non possa offrire, ma si troverà comunque confrontata a una realtà in cui le donne che lavorano a tempo pieno sono mal viste, dove la maggior parte delle scuole non hanno la mensa e dove trovare un asilo, anche privato, che tenga i bambini 5 giorni alla settimana è una missione quasi impossibile.

Un esempio virtuoso in tema di genitorialità ci arriva invece dalla Germania, dove lo Stato dà alle famiglie un assegno familiare e i lavoratori dipendenti possono chiedere – cosa che accade molto spesso – un congedo di paternità a stipendio ridotto di durata fino a 6 mesi.  E’ chiaro che nel caso dei liberi professionisti le cose si complicano un po’, ma questo non toglie che gli aiuti statali, assegni familiari compresi, rimangano invariati.

Ma usciamo dall’area europea: una neomamma che vive in Cina ci racconta come quì le donne detengano posizioni di potere in proporzione decisamente maggiore a quanto non si veda in Italia. Ci parla, inoltre, di un fenomeno che forse ci può apparire bizzarro: per le professionalità meno specializzate il gender gap fa sì che le aziende prediligano le donne agli uomini, proprio perché queste vengono pagate di meno. Così a Shanghai sono moltissime le famiglie dove lei lavora e lui invece sta a casa.

Il nostro intervento non può e non vuole pretendere di spiegare la condizione delle donne fuori dall’Italia, ma vuole mettere l’accento sul fatto che tutte le donne, in Italia come all’estero, emigrate dall’Italia o immigrate in Italia, si devono confrontare con difficoltà simili.

‪Ma vi vogliamo lasciare con un’ultima riflessione: ci chiediamo se non sarebbe più giusto affrontare i temi che riguardano il lavoro delle donne almeno in termini europei, o se addirittura la soluzione più efficace non sia quella di un movimento transnazionale che, come ai tempi delle suffragette, porti avanti battaglie articolate su pochi punti, ma universali.

Proprio in quest’ottica invitiamo le italiane emigrate a raccontarci le loro esperienze (positive e negative) al nostro indirizzo info@exbo.org.

‪Grazie!

 

Lidia Cirillo (Redazione Quaderni viola)

Se c’è una cosa che mi ha lasciato insoddisfatta  di questo interessante convegno, è la marginalità del tema della crisi. Eppure la crisi dei debiti pubblici in Europa e i conseguenti provvedimenti delle istituzioni europee e dei governi nazionali rappresentano il contesto all’interno del quale siamo costrette a pensare e ad agire. In una prima fase le donne hanno retto degli uomini alla crisi per ragioni a cui qui non posso nemmeno accennare, ma che sono spiegate efficacemente nell’ultimo numero dei Quaderni Viola “Se ben che siamo donne. Femminismo e lotta sindacale nella crisi”.

Ora i tagli alla spesa pubblica colpiscono settori a prevalente occupazione femminile (sanità, educazione, servizi sociali in genere) e distruggono ciò che resta dello striminzito welfare italiano. Che senso ha prospettare una così vasta articolazione di obiettivi, rivendicazioni, desiderata e dall’altra parte non dire quasi nulla sul fatto che l’attuale governo sta distruggendo le condizioni materiali della loro realizzazione?

Per quel che ci riguarda, noi non crediamo affatto in una mitica seconda fase nella quale l’economia dovrebbe essere rilanciata con le conseguenze virtuose su occupazione e welfare. A parte l’ironia che sarebbe lecito fare sulle seconde fasi che non arrivano mai, alcune semplici considerazioni dovrebbero distruggere le eventuali illusioni sul merito. La terapia Monti, dettata dalle istituzioni europee e dal Fondo monetario, è stata già imposta alla Grecia con effetti che sono sotto gli occhi di tutte. Essa ha la stessa logica del salasso con cui i medici di un tempo curavano ogni male e che provocava il passaggio di molti pazienti a miglior vita. I tagli e la riorganizzazione del mercato del lavoro produrranno un’ulteriore contrazione della domanda interna, mentre d’altra parte la concorrenza sui mercati internazionali è resa più difficile dallo stato generalizzato di crisi.

L’effetto ultimo poi non sarà nemmeno un minor peso del debito perché il problema non è quello della sua entità in senso assoluto, ma del suo rapporto con il pil. Ci sono paesi che hanno un debito pubblico più alto di quello italiano ma che sono in condizioni migliori perché migliore è quel rapporto. I governi della Grecia hanno imposto ai loro disgraziati cittadini tagli di ogni genere, austerità e sacrifici fino a qualche tempo fa impensabili per un paese europeo, sia pure a economia fragile. Qual è stato il risultato? Il risultato è stato che il rapporto debito-pil è passato da 120/100 a 180/100, il che è la prova evidente che più si taglia più i problemi si aggravano. Del resto è noto al mondo intero, senza bisogno di scomodare la scienza economica, che assecondare la logica dell’usura è il modo migliore di andare in rovina.

Monti e il suo collega greco Lucas Papademos non sono dementi, si limitano ad assecondare la dittatura dei mercati finanziari che caratterizza la costruzione europea. Tutte sanno per esempio, ma qui vale la pena di ricordarlo, che la BCE non può prestare soldi agli Stati ma che li presta invece all’uno per cento alle banche, che li prestano poi agli Stati con tassi di interesse di quattro-cinque volte maggiori o anche di più.

C’è poi una seconda questione che mi lascia perplessa. Che cosa ne facciamo adesso di tutta questa materia, delle rivendicazioni, degli obiettivi, dei desiderata, ecc? Ora che queste cose ce le siamo dette, la festa finisce qui? Di questa materia condivido l’ottanta per cento e sarei disposta ad accettare il venti restante in nome di quell’ottanta. Ma mi si deve spiegare come utilizzeremo il grande sforzo organizzativo e di pensiero fatto per mettere in piedi questo evento.

Ora farò una domanda forse ingenua. Che cosa osta alla convocazione di una grande manifestazione di donne come quella del 13 febbraio dello scorso anno, questa volta sui temi di cui qui si è parlato: il lavoro che non c’è, la precarietà, il lavoro che c’è ma è troppo intenso e mal pagato, il diritto a una maternità che non sia un percorso a ostacoli…? Insomma non sarebbe ora di cominciare a dire qualche no a ciò che distrugge le condizioni dei nostri sì? Come fa a essere credibile un soggetto che elabora così ambiziosi progetti, che ha alle spalle tanto pensiero e raccoglie bisogni così vitali e poi si lascia bastonare senza nemmeno dire “ahi!”?

 

Maria Grazia Campari (Agorà del lavoro di Milano)

La mia partecipazione al seminario ha l’obiettivo di contribuire alla costruzione di una rete fra donne interessate al tema dell’attività femminile nel lavoro per il mercato e nella cura.

A Milano, nell’ultimo anno sono stati creati due luoghi, a partecipazione prevalentemente femminile, che hanno la caratteristica di essere pubblici e di veicolare narrazioni, pensieri, proposte radicate in diverse esperienze esistenziali. Luoghi pensanti, propositivi di obiettivi e di azioni: l’Agorà del Lavoro e il Tavolo del Lavoro presso la Commissione Pari Opportunità del Comune presieduta da Anita Sonego.  Penso che si dovrebbero creare connessioni sempre più strette fra questi e altri luoghi di pensiero e pratica politica innovativa, che valgano a squilibrare e modificare dalla radice l’attuale, infelice, stato delle cose. Ritengo questa una capacità e responsabilità femminista.

Ieri, nell’interessante confronto su “lavoro/non lavoro delle donne” è emerso che il tema (centrale) si articola per le donne nel doppio aspetto dell’attività poco remunerata per il mercato e della cura, a sostegno delle vite e dei corpi in ambito famigliare. Ciò che renderebbe necessaria una migliore articolazione dei tempi per consentire conciliazione e condivisione.

La mia opinione è che la questione dei tempi richieda un’acuta attenzione critica, allo scopo di non predisporre noi stesse un’altra trappola per le donne, causata dalla ben nota abnegazione femminile. La riflessione è indotta da alcuni casi: l’atteggiamento collaborativo delle operaie della Luxottica che hanno accettato immediatamente la recente proposta padronale di essere adibite al turno di lavoro dalle 5 alle 13, per poi dedicarsi alla cura dei figli e ai lavori domestici fino alle 21/22 e crollare in un sonno scarsamente riparatore fino alle 4 del mattino successivo. Ritratto di esistenze femminili composte a tessera di mosaico (la ripartizione dei tempi lo consente) che complessivamente mostra uno stile di vita non degna di essere vissuta per eccessivo sacrificio di sé. E’ la cura degli altri che implica il sacrificio di sé.

Un’attitudine alla donazione di se stessa che per le donne troppo spesso slitta dalla famiglia al mercato, in regime quasi di donazione per la scarsità di riconoscimento economico e di carriera. C’è un altro aggancio al tempo e alla cura -questa volta all’apparente cura di sé, per contrastare gli effetti del tempo che passa- in un episodio che mi è stato raccontato. Una lavoratrice informatica super specializzata rammentava come la cura della pelle, delle occhiaie, il mascheramento dei sintomi di stanchezza, siano necessari per apparire svelte come ventenni anche a quarantacinque/cinquanta anni, per rispondere ai parametri produttivi dell’impresa, per non discostarsi dalla norma, anche a prezzo di uno sforzo costante e faticoso di controllo su se stesse. La cura di sé, la cura degli altri, anche la cura del/nel tempo. Una pretesa femminile di onnipotenza, o meglio un potere sotterraneo radicato nella complementarietà cui le donne non intendono rinunciare, come è stato detto in una recente riunione dell’Agorà? Propendo per quest’ultima ipotesi: il problema sta nella complementarietà che produce il desiderio adattativo, frutto di colonizzazione interiore, che evita il conflitto, aderisce alla norma sociale, propizia approvazione anche e soprattutto perché si inserisce nel flusso delle aspettative del sistema capitalistico/patriarcale cui fornisce una stampella essenziale.

Penso sia giunto per noi il tempo di esprimere un conflitto visibile che non si risolva in conciliazioni individuali, individualmente pagate a prezzo di sacrifici inenarrabili. Tempo di attivare il conflitto (inedito perché mai in precedenza riconosciuto) sullo snodo, di sesso e di classe. Tempo di agire per il sovvertimento del sistema capitalistico/patriarcale, particolarmente esoso in Italia su entrambi i versanti. Questo mi aspetto da una rete di donne attiva nelle questioni del lavoro: prendere l’iniziativa del cambiamento più radicale, iniziando col mettere al centro un netto contrasto rispetto al sentimento radicato negli uomini della loro superiorità di “produttori” e della loro priorità nella aggiudicazione delle risorse disponibili, eliminando il misfatto della divisione sessista del lavoro. Porsi come primo obiettivo la condivisione di tutti i lavori necessari per vivere, imporre l’autorappresentanza delle donne in tutti i luoghi sociali, una rappresentanza di sé, di bisogni e desideri radicati in una differente esperienza esistenziale, che non è quella del soggetto unico maschile, corretta con qualche marginale aggiustatina.

Rivendicare anche dallo Stato italiano l’erogazione universale e incondizionata di un reddito di base e di provvidenze indispensabili a vivere una vita degna e libera dal bisogno, non sottoposta a ricatti spesso drammatici, per costruire ognuna il proprio libero progetto esistenziale.

 

Adriana Nannicini (Libera Università delle donne)

Voglio qui interloquire con i contenuti presentati durante le giornate bolognesi di SNOQ, ma soprattutto vorrei farlo con la proposta ambiziosa del progetto del convegno: dare parola a esperienze di soggettività diverse, mettere accanto relazioni, tutte sapienti, che tuttavia presentano  in modo evidente impostazioni e approcci teorici e ideologici diversi. Proverò dunque a raccogliere la vostra sfida, intrecciare e presentare differenze, cercando di proporvi due piani, per ora accostati e insieme con voi tutte e in seguito cercheremo di metterli in dialogo.

Il primo accenna ad un’esperienza in corso con tante altre e un’istituzione a Milano è un piano, e alcune riflessioni, mentre il secondo suggerisce un piano più astratto, prodotto di un lungo e intenso dialogo con un’altra, una donna di un’altra generazione e di un’altra città. Alle spalle di entrambe altre conversazioni, altri incontri, ristretti o pubblici con varie e molto diverse donne avvenuti nei mesi precedenti.

Per quanto riguarda il primo vi racconto di un’esperienza milanese, il cosiddetto “tavolo-lavoro” che si sta riunendo da ottobre, con circa 50 donne partecipanti. Un tavolo lavoro perché?

Il tema del lavoro delle donne nella città di Milano è stato individuato in seguito all’assemblea cittadina di settembre 2011 “ Milano , bene comune” come uno dei tre temi sui cui avviare un percorso di relazione istituzioni-cittadinanza  assolutamente innovativo.

Innovativo per le modalità di partecipazione e perché il tema non è tra le competenze istituzionali del comune se inteso come “ politiche attive”, e tuttavia risulta coerente con la scelta dell’Amministrazione Pisapia di dare consistenza e visibilità al lavoro, di individuare nuovi percorsi per accompagnare il cambiamento della città, e secondo noi a partire dalla constatazione che il lavoro cambia , anzi il lavoro delle donne è cambiato già  adesso, e dunque si richiede che cambi anche l’attenzione di un’amministrazione municipale. Il tema si configura come complesso e sfaccettato, e di centrale importanza in un quadro di grandi mutazioni in atto.

In relazione a questo gruppo di lavoro è interessante sottolineare la composizione: molte donne “esperte” dei temi di genere, altre rappresentanti di associazioni, di gruppi definiti, altre “single” interessate a portare la propria personale esperienza, tutte riconoscendo nell’incontro un luogo nuovo e innovativo: per qualità del dialogo, per l’intreccio intergenerazionale, per diversità di sguardi e di punti di osservazione sul tema del lavoro. Questo incontro/tavolo-lavoro viene colto come opportunità innovativa ancora da esplorare e sperimentare, il mix di saperi ed esperienze, personali e politiche consistente e visibile nel corso della riunione, è stato apprezzato come tratto distintivo.

Ad oggi, si sono elaborate proposte intorno al “lavoro delle donne nella città” che verranno presentate alla Giunta e al Sindaco di Milano in un’assemblea pubblica prevista per il 14 marzo.

L’altro piano, quello delle riflessioni, cerca di parlare a partire da una pratica femminista, e di più dal riconoscere che le donne hanno un potere di pensiero e di parola su questo tema perché apparteniamo storicamente a chi ha avuto un rapporto eccentrico con i contesti lavorativi e ha usato capacità divergenti di lettura e di interpretazione. E’ lo  stesso spostamento che suggerisce Wislawa Szymborska nella poesia Scrivere un curriculum.

Vengono indicati di seguito alcuni punti, quasi un elenco di questioni che si sono rese visibili, o sono tornate nelle discussioni dell’ultimo anno in vari luoghi in cui le donne hanno preso parola sul tema del lavoro. Per una presentazione più articolata rimando ad un articolo pubblicato su DWF, settembre 2011, a cura di Burchi e Nannicini.

Individualizzazione come esperienza, come concetto. Uno dei prodotti più preziosi delle narrazioni che le precarie e le autonome ci hanno dato in questi anni è la capacità di raccontare con anticipo una questione che si è rivelata essere cruciale nella comprensione delle vite. Si tratta di sguardi che si sono rivelati necessari a sentire e a vedere la fatica, l’isolamento, la solitudine, meglio, le centinaia di solitudini identiche che non sapevano  di essere tali, e che oggi sono in grado di stabilire delle connessioni.

Individualizzazione come habitus produttivo si ritrova come abitudine e prende varie forme provocando perdita di collaborazione, competizione esasperata.

Per le donne superare questa individualizzazione è già politica.

Questa condivisione ha prodotto e continua a produrre la rielaborazione di vite disperse e frammentate e ha costruito un lessico, lo ha imposto. ll punto è già oltre , il superamento tout court dell’individualizzazione: è L’invenzione di forme di mutualità durevole, questo punto resta un desiderio e la creazione di piattaforme rivendicative comuni sembra limitarsi alle questioni fiscali.

Più difficile è oltrepassare questa soglia e inventare mutualità che attivino modalità “solidali” e non concorrenziali nello stare sul mercato del lavoro. Quanto e come la frammentazione e reso parola sul tema del lavoro.

Il tema della precarietà, finalmente all’ordine del giorno nel dibattito politico, deve ancora essere visto per intero e svelare le declinazioni che sta assumendo per le diverse generazioni di donne. Non è ancora stato detto con sufficiente forza che la precarietà del lavoro è già condizione comune a una pluralità di generazioni, e che attraversa, nei suoi effetti, le diverse età delle vita. La precarietà delle ultime generazioni – e  sono già più di una – nell’accesso al lavoro, che si traduce in precarietà dell’esistenza, convive con la precarietà causata dal furto del “tesoretto” delle donne  e dell’innalzamento dell’età pensionabile. E’ ancora precarietà la perdita del lavoro per le over40 e over50, per quelle che sperimentano l’impossibilità di trovare un’occupazione stabile. Sono donne che oggi, già adulte, non hanno lavoro, e domani, anziane, non avranno pensione.

Si tratta di precarietà differenti, ma che è necessario nominare per attivare forme di riconoscimento reciproco fra generazioni, riconoscimento essenziale  per costruire  alleanze.

Poiché concordo con la preoccupazione di Antonella Picchio nel segnalare la dimensione di cinica e distruttiva conflittualità che ha assunto questa crisi contro la vita di chi lavora, credo che dobbiamo vedere e praticare alleanze tra le tante forme che la precarietà di questi tempi assume nelle vite delle donne,. Dobbiamo evitare che siamo poste su fronti contrapposti, evitare di sfinirci in fronteggiamenti ad excludendum, evitare di immaginarci antagoniste.

Si è parlato ieri di discriminazioni, che certo ci sono e pesanti e diffuse nelle nostre esistenze. Mi pare che la logica con cui questo, ed altri, tema è stato proposto, sia una logica neoemancipazionista, molto presente in questi giorni. Interessante, soprattutto perché viene portata avanti da generazioni differenti. A me pare utile per il nostro dibattito e la comprensione di quanto ampia e fondativi sia la partita in atto che si possa ragionare a partire da una coppia concettuale: discriminazione-desiderio.

Individuati come concetti-chiave per pensare il lavoro: la prima indica l’emancipazione, come ideologia e come esperienza, il secondo indica il femminismo, delle origini e nel suo differenziarsi. Oggi, al tempo di una crisi economica che modifica il quadro dei mercati e dei lavori, la discriminazione non è fuori questione, vogliamo mostrare che il desiderio di lavoro delle donne c’è, si è reso più visibile negli ultimi anni, ha una qualità specifica.

Le donne che lavorano non si vivono più come eccezioni, lavorare è esito di una scelta, o una normalità.

Se non si tematizza la “differenza” al lavoro  Il desiderio di lavoro delle donne è provato dalla passione dilagante e dilatante per il racconto, la narrazione, che negli ultimi quindici anni è nata dal lavoro di tanti gruppi diversi: è desiderio di apprendere, di apprendimento continuo, è sfida nel fare lavori difficili o lavori nuovi, essere protagoniste, mettersi alla prova, di passare per questa via per socializzare. E’ desiderio di fare bene ciò che si sta facendo, di lavorare bene, nelle condizioni migliori per sé e per il prodotto finale, è desiderio di lavorare con piacere, di potersi identificare nel proprio lavoro senza dimenticare la vita: le donne conoscono il valore di identificazione che viene dal lavoro, ma sanno che non è l’unico valore.

 

Gabriella Montera (Assessora alle Pari Opportunità Provincia di Bologna)

La piattaforma scelta dal movimento “SNOQ” del 3 e 4 marzo a Bologna é di grande rilevanza. I dati evidenziano quanto in tempo di crisi le donne subiscano di più l’espulsione dal mondo del lavoro. Sebbene in provincia di Bologna le donne abbiano raggiunto livelli di occupazione coerenti con gli obiettivi di Lisbona, i nostri centri per l’impiego negli ultimi due anni registrano 75.000 persone in carico, fra disoccupati e inoccupati, disponibili alla chiamata immediata. Di questi, 42.000 sono donne. Inoltre, a parità di funzioni, permane lo scarto salariale fra donne e uomini, come testimonia uno studio prodotto nel precedente mandato dalla Provincia di Bologna, tramite l’allora Assessora Simona Lembi. Un’altra analisi recente, di grande interesse, condotta dalle Consigliere di Parità, esplora il tema donne e lavoro in provincia di Bologna e ci dice che  c’é una forte correlazione fra il lavoro precario e il depauperamento del reddito familiare, così come fra precarietà sociale e precarietà civile; convivenze di fatto, menages singolari, divorzi/separazioni, monogenitorialità, posposizione del matrimonio e della riproduzione e rafforzamento della rete parentale, appaiono più legati alla condizione precaria, che all’affermarsi di nuovi stili di vita. Del resto, se pensiamo al fenomeno diffuso della richiesta di firma di dimissioni in bianco, ci rendiamo conto della ricattabilità che ancora subiscono, non solo le donne, nelle imprese al di sotto dei quindici dipendenti. E’ evidente che dobbiamo impegnarci di più insieme alle organizzazioni sindacali, perchè è una questione cruciale che ricade su molte, data la peculiarità del nostro tessuto produttivo. Sul fronte dell’imprenditoria, i dati  sono più confortanti: nel 2009, mentre molte imprese chiudevano i battenti, quelle condotte da donne resistevano, investendo in settori innovativi come quelli dei servizi avanzati (informazione e comunicazione, attività socio-assistenziali, finanziarie,  assicurative e immobiliari, agenzie di viaggio, servizi di supporto alle imprese) e producendo nuova occupazione. Dati che si sommano alla maggiore scolarizzazione delle ragazze e alle loro migliori performance a tutto campo. A proposito di campo, una battuta sulle imprenditrici agricole, che stanno facendo della multifunzionalità una pratica diffusa, a dimostrazione che quando il reddito da attività primaria cala, sanno diversificare. Eppure alcune sfuggono all’anagrafe aziendale, perchè non risultano imprenditrici a titolo principale, ma dipendenti/coadiuvanti dei mariti/compagni o dei figli. Sono entusiasta della grande partecipazione e affluenza in questa due giorni bolognese che testimonia la tensione che connota il movimento, che, come spesso capita, ha dimensione carsica, e quindi ciclica, ma sono fiduciosa per il futuro e come assessore di un ente in dissoluzione, vi offro la mia piena disponibilità a collaborare, anche in altre sedi.

 

Paola Bottoni (Direttivo ANPI Bologna)

Nella crisi le distanze tra uomini e donne si allungano. Anche in Italia, che si colloca ora al modesto 74° posto tra i circa 150 paesi del Rapporto ONU per Gender Equity Index. Sarebbe del tutto scontato se alcuni Paesi poveri dell’Africa e del sud-est asiatico non stessero scalando la classifica, accorciando le distanze , surclassando  molti paesi occidentali e l’ Italia. Evidentemente, come sostiene Karina Batthyany, “non basta essere ricchi per essere giusti, e trattare bene le donne”. Quindi l’arretramento delle condizioni delle donne, e della loro stessa considerazione sociale, non è ineluttabile; dipende dalle politiche, anzi, dall’assetto culturale che sottende le politiche. Tra i più odiosi arretramenti, dopo la deregulation legislativa, dobbiamo registrare la prassi delle “dimissioni in bianco”, stimata in circa 2 milioni di casi in Italia, per lo più a danno di donne. Anche il movimento “Se Non Ora Quando?” aderisce alla petizione per ristabilire una Legge giusta. Proprio mentre Governo e parti sociali sono impegnati in una “nuova” riforma del mercato del lavoro, ristabilire una regola giusta per uomini e donne  diventa un obbiettivo del movimento e chiama in causa la più nobile funzione democratica del Parlamento. Ma il movimento “SNOQ” si alimenta anche di “Visione” di un mondo giusto, come è stato ampiamente argomentato al convegno di Bologna del 3 e 4 marzo scorso. Ancora gli indicatori “GEI” ci soccorrono. Secondo i dati della formazione, le donne italiane si attestano a 100 punti su 100 e l’Italia si collocherebbe al top della classifica ONU. Ma per  gli indicatori che le donne non possono autodeterminare, partecipazione economica e,  ancor più, corresponsabilità  nel  governo di cose pubbliche e private, l’Italia crolla al 74° posto.

Che per le donne l’accesso al lavoro sia più lungo; il lavoro più precario; il salario, a parità di mansioni, più basso; lo sviluppo di carriera più difficile o che il lavoro resti solo all’orizzonte del proprio progetto di vita; che ancora con reticenza si affidino a donne  ruoli di responsabilità, prima ancora di essere “un problema delle donne” è, con ogni evidenza, un problema  del “sistema paese” che non investe sulle capacità umane e, credo, per ragioni eminentemente culturali. Anche gli stereotipi, infatti, danno luogo a sprechi e diseconomie di sistema e aggravano le crisi. In particolare questa crisi ha avuto un inizio: lo slittamento dalla centralità del lavoro al dominio della rendita soprattutto speculativo-finanziaria (quanti luoghi di lavoro si sono trasformati in centri commerciali!). Avrà una conclusione con la riconosciuta priorità di tornare a creare lavoro; per i giovani e per le donne, per reimpiegare le professionalità espulse dal lavoro e per coloro che, sfiduciati, un lavoro non lo cercano più. Il convegno di Bologna ha dato voce alla consapevolezza che politiche di contrasto alla crisi  sono tanto più efficaci tanto più inclusive e rispettose dei diritti e delle persone, se la “chiamata” all’impegno di tutti  ridistribuisce sacrifici ed opportunità. Nel contesto di tali politiche è realistico, anzi necessario,  sostenere gli obiettivi  e le azioni positive volte a ridurre le distanze tra uomini e donne nel nostro paese.

 

Rosa M. Amorevole (Consigliera di Parità per l’Emilia Romagna)

Le norme vigenti in materia di parità e pari opportunità incrociano un mercato del lavoro completamente cambiato nel quale, alla tradizionale fatica di affermare tali principi, si aggiunge la costatazione che l’esercizio di alcuni diritti – come quello di maternità, ad esempio -non possano essere ugualmente agiti in contesti contrattuali diversi. Se poi si è state costrette a sottoscrivere le proprie preventive dimissioni in bianco, vi si rinuncia definitivamente.

La crisi sembra aver aggravato i problemi strutturali dell’occupazione femminile, soprattutto in relazione al tema della “qualità del lavoro”. Infatti sono aumentati i fenomeni di segregazione verticale ed orizzontale, sono aumentati gli impieghi non standard, sono cresciuti i problemi di conciliazione tra lavoro e vita (al contempo l’offerta dei servizi cura si è contratta e/o ha innalzato i suoi costi, o semplicemente gli orari riescono sempre meno a rispondere a fabbisogni originati da ampie articolazioni dell’orario di lavoro sulla giornata), si è acutizzato il sottoutilizzo del capitale umano.

E’ calata l’occupazione femminile qualificata e contemporaneamente è aumentata quella non qualificata, è in aumento il part time involontario (in mancanza di contratti a tempo pieno), aumenta il divario di genere a causa del sottoutilizzo del capitale umano (che a livello italiano ha raggiunto il 40% per le laureate, contro il 31% dei colleghi maschi). Più donne che uomini svolgono un lavoro temporaneo, soprattutto in età giovanile: in Emilia Romagna, ad esempio, il 68,3% delle donne e il 53,8% degli uomini si colloca nella fascia di età 25-44 anni.

In un clima di incertezza trovano terreno fertile le discriminazioni. La paura di perdere il posto di lavoro porta ad innalzare la soglia di sopportazione rispetto a quanto accade nell’organizzazione.

Le discriminazioni che maggiormente mi sono trovata a trattare negli ultimi 2 anni, sono prevalentemente legate a:

–  maternità e cure parentali (resistenza a forme di flessibilità conciliative), conciliazione tempi di vita e di lavoro;

–  riconoscimento delle competenze, avanzamento di carriera (che in un contesto di maggiore preparazione scolastica e formativa delle donne, crea frustrazioni;

–  stereotipi/vincoli di genere nell’accesso e/o nell’avanzamento di carriera, nell’assegnazione di premi di produzione (che si concretizzano in bandi di concorso/selezione, contratti nazionali, accordi aziendali,regolamenti, ecc. che introducono clausole discriminatorie nei confronti del genere femminile: dalla piccola impresa alla Fiat;

–  molestie, molestie verbali e  sessuali, mobbing (indicatore di un clima profondamente cambiato).

Questi fattori producono una ulteriore discriminazione: la  disparità salariale. In Emilia Romagna, ad esempio:

–  nel caso di lavoro non standard, il 56% delle donne non supera i 10mila euro di reddito (39% i maschi). Considerando il reddito medio per classi di età emerge che lo scarto di genere, pur sempre presente, si accentua a partire dalla classe di età 30-39 anni, inoltre, al crescere dell’età mentre il reddito maschile aumenta arrivando ad oltre 39mila euro per i 50-59 anni, fra le donne si mantiene stabile poco sopra i 20mila euro;

–  mediamente nel lavoro dipendente le donne percepiscono il 21% in meno di salario (ovviamente queste differenze variano anche in funzione delle età, dell’inquadramento, ecc.)

–  nel lavoro professionale la rilevazione attraverso le casse previdenziali degli ordini ha messo in evidenza un differenziale reddituale tra il 40 e il 60%

Il “rischio” di maternità è un forte deterrente all’assunzione delle giovani, ma oltre i 45 anni faticano a ricollocarsi in caso di licenziamento.

Tra i suggerimenti che potrebbero essere portati all’attenzione della discussione, mi sento di elencare:

–   la definizione di una nuova legge per contrastare le dimissioni in bianco, elemento di civiltà;

–  Il miglioramento delle condizioni di accesso a diritti fondamentali come quelli legati alla maternità, alla paternità, alla cura per ogni forma di contratto;

–  Il rafforzamento dei presidi antidiscriminatori: le Consigliere di parità, i Comitati Unici di Garanzia (nelle imprese pubbliche) solo per fare un esempio, valutandone azioni e risultati e senza confondere ruoli e funzioni;

–  La penalizzazione delle organizzazioni pubbliche e private che discriminano (mancato accesso a finanziamenti, esclusione dagli appalti, ecc…). Sarebbe importante partire dalle pubbliche amministrazioni, per dare il buon esempio;

–  l’incentivazione delle aziende che realizzano buone prassi in raccordo con il territorio sul versante della conciliazione, promozione parità e pari opportunità attraverso l’individuazioni di indicatori. E’ sempre più importante che la creazione di servizi per la conciliazione non sia vista soltanto come soluzione endogena ad un fabbisogno interno. Sono estremamente importanti tutte quelle sperimentazioni che, a partire da fabbisogni interni, costruiscono in raccordo con il territorio nuovi servizi di prossimità sinergici al sistema dei servizi esistenti;

–  promozione della conoscenza del fenomeno discriminatorio: la discriminazione non è un fatto individuale, è qualcosa che colpisce tutte le donne.

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Category: Vite, lavoro, non lavoro delle donne

About Redazione: Alla Redazione operativa e a quella allargata di Inchiesta partecipano: Mario Agostinelli, Bruno Amoroso, Laura Balbo, Luciano Berselli, Eloisa Betti, Roberto Bianco, Franca Bimbi, Loris Campetti, Saveria Capecchi, Simonetta Capecchi, Vittorio Capecchi, Carla Caprioli, Sergio Caserta, Tommaso Cerusici, Francesco Ciafaloni, Alberto Cini, Barbara Cologna, Laura Corradi, Chiara Cretella, Amina Crisma, Aulo Crisma, Roberto Dall'Olio, Vilmo Ferri, Barbara Floridia, Maria Fogliaro, Andrea Gallina, Massimiliano Geraci, Ivan Franceschini, Franco di Giangirolamo, Bruno Giorgini, Bruno Maggi, Maurizio Matteuzzi, Donata Meneghelli, Marina Montella, Giovanni Mottura, Oliva Novello, Riccardo Petrella, Gabriele Polo, Enrico Pugliese, Emilio Rebecchi, Enrico Rebeggiani, Tiziano Rinaldini, Nello Rubattu, Gino Rubini, Gianni Scaltriti, Maurizio Scarpari, Angiolo Tavanti, Marco Trotta, Gian Luca Valentini, Luigi Zanolio.

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