Gabriele Polo: Mestre, la Cgia di Mestre: salvate i piccoli
6. Mestre, la Cgia di Mestre: “salvate i piccoli”
Giuseppe Bortolussi, presidente della Cgia di Mestre e consigliere regionale «La dimensione delle imprese non è un problema. Anzi, i piccoli si adattano meglio al mercato. Ma per non soccombere alla crisi servono banche generose e politiche non restrittive»
Il luogo migliore dove andare a chiedere conto della crisi della piccola impresa, linfa vitale dei distretti, è un palazzo d’acciaio e vetri di Mestre, sede della Cgia. La confederazione degli artigiani – fondata parecchi anni fa da ex operai socialisti e comunisti riconvertitisi in artigiani dopo essere stati licenziati per motivi politici o sindacali – è ormai una presenza fissa nel dibattito economico italiano. La guida Giuseppe Bortolussi, anche consigliere regionale veneto dopo un tentativo fallito di corsa per la presidenza contro il leghista Zaia.
I «piccoli» sono i primi a pagare la recessione e nel nord-est sembra la fine di un modello. E’ stato sottovalutato il problema delle dimensioni e della sottocapitalizzazione che fa saltare l’impresa alla prima crisi?La piccola impresa, industriale e artigiana, è centrale non solo in Italia ma anche in tutta Europa, dove il 58% dei posti di lavoro è creato da imprese sotto i 10 dipendenti. Qui da noi siamo addirittura al 67%. In particolare c’è una dorsale – da Bergamo a Venezia, da Bologna ad Ancona fin giù alla Puglia – che ha sempre saputo specializzarsi ed essere duttile di fronte alle contingenze. Non è vero che la tendenza al piccolo è in regressione: anzi, l’impresa tende a frantumarsi e specializzarsi. Le piccole imprese creano ricchezza, anche se sono fragili, soprattutto da noi, questo è vero. E’ una questione di storia e di un apparato produttivo che ha dovuto per forza puntare molto di più sull’intensità del lavoro che sul capitale da investire. Il problema è che di fronte alla crisi finanziaria tutto è più difficile, soprattutto l’accesso al credito: servirebbero politiche pubbliche di sostegno e una riduzione del peso fiscale.Le accuse di sempre: banche avare, fisco predatore.
Sicuro che questi siano i problemi principali? Certo. Prendiamo il sistema della casse di risparmio che molto a lungo era stato il principale riferimentio creditizio per la piccola impresa, se non altro perché molto decentrato e legato ai destini del territorio. Ora non è più così perché la rete delle casse di risparmio è stata inglobata nei grandi gruppi, moltissimi istituti sono stati chiusi e le banche hanno perso attenzione per i piccoli. Solo che i piccoli restano il cuore del nostro sistema economico, mentre il 10% dei soggetti che accedono al credito si mangiano l’80% dell’intera torta. Quanto alle tasse, basta un dato: in Italia la tassazione complessiva sugli utili da impresa è al 68,6%, in Svezia – dove non si può dire che lo stato sia assente, anzi – sono al 54%.
Qualche settimana fa un vostro studio metteva in evidenza il dramma dei suicidi tra i piccoli imprenditori, con il Veneto a guidare questa triste classifica. Ci si uccide per troppi debiti provocati dalle tasse o dall’inaccessibilità del credito? Ci si uccide perché ci si trova persi e soli. Il fisco pesante, l’amministrazione pubblica che non paga i suoi debiti con i privati, il credito negato, creano le condizioni. Poi c’è un elemento soggettivo, che ha a che fare con la vergogna di fronte ai propri famigliari, amici, dipendenti. Qui nel Veneto questo sentimento è molto sentito. E’ come accade ai contadini indiani cui viene tolta la terra, diventano poveri e si sentono in colpa rispetto al proprio codice d’onore che prevede il mantenimento della famiglia con la coltivazione della terra. Anche lì alcuni scelgono il suicidio come gesto isolato di ribellione.Di fronte al quale le istituzioni non fanno nulla, al massimo chiedono ai media di evitare di parlarne troppo per scongiurare il rischio emulazione..
Qui in Veneto la regione ha aperto un «telefono amico», ma soprattutto siamo riusciti a far istituire un fondo per i crediti alle piccole imprese in difficoltà. Non è granché, 350 milioni di euro, ma nei primi dieci giorni sono già arrivate cento richieste, molto spesso per debiti piccolissimi, 3-4.000 euro.Resta il fatto che la crisi è profonda, che le imprese chiudono e la locomotiva del nord-est si è fermata. E abbiamo la quota di investimenti diretti dall’estero più bassa d’Europa dopo quella il Portogallo. Ma non dipende dalle dimensioni delle imprese o da una loro presunta bassa competitività. Lo posso dire da una regione in cui la crisi è meno devastante che in altre e in cui resiste la cultura del lavoro. Quel che manca è una politica economica espansiva, meno rigidità e più scelte selettive nella gestione della spesa pubblica. Anche un po’ di inflazione in più, pur di far ripartire il treno.
Il Manifesto 7 luglio 2012
(6, continua)
Category: Viaggio nella crisi italiana
And I was just wodnering about that too!