Tommaso Cerusici: Perché la tesi di laurea sulla figura di Claudio Sabattini
Questo articolo intende presentare il percorso di ricerca che ho svolto sulla figura di Claudio Sabattini e che si è concretizzato nella discussione della mia tesi di laurea in Storia, dal titolo “L’esperienza di Claudio Sabattini nelle lotte studentesche e operaie del ’68-’69 e nel movimento no global: pensiero e militanza di un sindacalista Fiom” (relatrice Prof.ssa Fiorenza Tarozzi e correlatrice Dott.ssa Eloisa Betti). Per quanto riguarda le fonti, ho posto grande attenzione alle interviste a quei protagonisti che, con Claudio Sabattini, hanno vissuto gli eventi descritti nel mio lavoro e prodotto, assieme a lui, quel piano teorico dal quale sono scaturite le molteplici azioni descritte nel mio lavoro[1]. Le voci dei protagonisti sono state affiancate da documenti d’archivio, per il periodo ’68-’69, e dall’utilizzo di documenti inediti, conservati negli archivi digitali del sindacato e dei movimenti, per gli anni Novanta e Duemila[2]. Entrambi i periodi storici sono stati contestualizzati grazie alla consultazione della stampa periodica[3] e della bibliografia disponibile. L’analisi degli scritti editi e inediti che Claudio Sabattini ci ha lasciato hanno rappresentato il filo rosso del mio lavoro, che ha idealmente unito due periodi così diversi tra loro.
Per rispondere a questa domanda non posso che partire dalla mia esperienza personale. Come migliaia di studenti in questo paese, ho attraversato in prima persona le mobilitazioni studentesche del biennio 2008-2010 e, da quest’osservatorio privilegiato, ho iniziato a rendermi conto – con estrema sorpresa – che quello che stava accadendo nelle scuole e nelle Università “interessava”, non solo a buona parte della società, ma anche al più grande e antico sindacato industriale italiano: la Fiom. Ho quindi cercato di capire l’origine storica di questa “anomalia” positiva, in virtù della quale “pezzi” consistenti di sindacato riescono a saldarsi con i movimenti sociali e ad aprire le proprie strutture e le proprie piattaforme alle loro domande di cambiamento. In questo percorso di scavo ho incontrato la figura di Claudio Sabattini: il Sabattini trentenne, leader della Sezione universitaria comunista bolognese e membro della Segretaria della Camera del Lavoro di Bologna, e il Sabattini della seconda metà degli anni Novanta, Segretario generale della Fiom.
Dopo questo “incontro”, ho scelto di svolgere la mia tesi sulla figura di Claudio Sabattini perché m’interessava confrontarmi con il suo pensiero e la sua militanza politico-sindacale a partire dalla mia esperienza soggettiva. M’interessava riscoprire una figura che in due epoche storiche così differenti tra loro – il biennio ’68-’69 e gli anni all’inizio del Terzo millennio – era stata indubbiamente un importante agente di collegamento tra soggettività diverse e si era spesa per un comune orizzonte di trasformazione della realtà.
1. Claudio Sabattini “anomalia” bolognese del secondo biennio rosso
Dall’emergere del ’68 bolognese la figura di Claudio Sabattini (fondatore e guida della Sezione Universitaria comunista – Suc) promuove un importante esperimento di saldatura fra studenti e operai, segmenti sociali in precedenza separati. Sabattini e i giovani militanti comunisti che, assieme a lui, sviluppano l’esperienza della Suc, non solo riescono a farsi portatori delle richieste provenienti dal movimento studentesco[4] , ma riescono anche a elaborare una strategia complessiva che permette, con l’esaurirsi del movimento universitario, il trasferimento di quel portato di lotte sul piano delle nascenti mobilitazioni operaie.
Elemento non di poco conto, è la capacità di mantenere il piano della protesta e della contestazione (sia studentesca che operaia) all’interno delle tradizionali strutture della sinistra sindacale e politica: la Cgil e il Pci. Da tale punto di vista Bologna rappresenta un’eccezione rispetto al panorama nazionale: molti, proprio in quegli stessi anni, usciranno dalla dimensione delle organizzazioni storiche della sinistra per collocarsi nel “mare magnum” dei filoni extraparlamentari. Parlare dell’esperienza di Sabattini nel secondo biennio rosso significa ragionare di un’anomalia tutta bolognese e soprattutto di un’esperienza non singola ma collettiva. Molti giovani quadri universitari provenienti dai movimenti seguiranno le orme di Sabattini, dedicando, negli anni successivi, la propria militanza all’azione sindacale.
E’ sufficiente leggere la tesi di laurea di Sabattini, discussa nel 1970 (anno in cui è nominato Segretario della Fiom di Bologna) con il Professor Santucci e intitolata “Rosa Luxemburg e i problemi della rivoluzione in Occidente”, per rendersi conto di come egli sia già giunto a una compiuta elaborazione teorica: la ricerca del massimo di democrazia nella classe e del massimo di autonomia della classe, una certa carica antiburocratica e l’attenzione alle istanze di base, la scelta di prendere attivamente parte ai processi di cambiamento reale e contemporaneamente il rifiuto del “giacobinismo”.
Sabattini dimostra nel tempo un’assoluta coerenza, rifiutando sempre ogni approccio politico orientato verso il riconoscimento di una coscienza esterna, esercitata dalle avanguardie e il cui compito sarebbe di educare le masse. Sabattini, dall’altro lato, non ha mai pensato che le masse potessero fare da sole: per lui la forza dei processi trasformativi può darsi soltanto nel continuo confronto (ma anche scontro) tra la soggettività politica nella quale risiede la strategia complessiva e le masse in lotta, vero motore del conflitto. Avendo vissuto direttamente il movimento studentesco prima e l’autunno caldo poi, Sabattini è fermamente convinto che solo laddove si riesca a vincere “qui e ora” ci sia la possibilità di trasformazione della realtà. Tutto il resto è un rimandare nel tempo che, secondo lui, riguarda tanto la scelta della sola politica nelle istituzioni che il Pci si sta apprestando a compiere, quanto il ribellismo fine a se stesso e il “giacobinismo” estremo dei gruppi extraparlamentari. Va sottolineato che Sabattini non ha mai immaginato l’ora “x” – la famosa presa del Palazzo d’Inverno – come qualcosa di realmente praticabile e risolutivo, in primis perché rappresentazione plastica di una imposizione non democratica di una piccola parte sul tutto.
Contemporaneamente però, egli non ha mai identificato il riformismo come la soluzione alle necessità di emancipazione della classe operaia: le riforme vanno conquistate, ma, secondo lui, questo non è mai stato il principale compito storico delle forze comuniste e del movimento sindacale. Sabattini ritiene che solo qualora le lotte riescano a collocarsi a un livello sempre più alto e inclusivo – fino ad arrivare a dire che “il padrone non è più necessario” – si possano creare le condizioni per una vera trasformazione della società in senso anticapitalistico. Tali condizioni vanno cercate e, per quanto è possibile, anche create “praticando democrazia”.
Questo è quello che Sabattini e i militanti della Suc cercano di fare all’interno del frenetico e appassionante panorama del secondo biennio rosso italiano. Il passaggio di Sabattini e dei giovani quadri provenienti dalle Università in lotta al movimento sindacale va sempre letto in tal senso: laddove la contraddizione tra capitale e lavoro è massima e laddove si situa il punto più alto di espressione della conflittualità di classe (cioè la fabbrica fordista), là va agito il piano dello scontro per l’avanzamento dei diritti e della democrazia. Contemporaneamente, non si tratta di uno scontro che si possa fermare dentro i cancelli delle fabbriche, esso deve invece investire tutto il piano sociale: dalla fabbrica allo Stato (come ci ricorda il nome della rivista omonima)[5].
Qui sta la scommessa di Sabattini e qui si situano gli esperimenti più interessanti che, come dirigente sindacale, mette in piedi agli inizi degli anni Settanta: la battaglia sulle 150 ore e sui servizi sociali, il contatto tra operai e studenti, le inchieste nelle fabbriche, i tentativi di incidere direttamente sull’organizzazione del lavoro[6]. Su tali basi, egli apre nel ’71, quando già era Segretario della Fiom bolognese, lo scontro con le piccole e medie imprese, da sempre considerate dal Pci parte di quella alleanza tra classe operaia e ceti medi che costituisce il modello emiliano[7]. Pur arrivando all’elaborazione della teoria dell’indipendenza del sindacato molti anni dopo e in una situazione geopolitica completamente differente, fin dal 1971 afferma l’autonomia della prassi sindacale e del suo orizzonte strategico, in un ambiente in cui il sindacato era ancora considerato la “cinghia di trasmissione” del partito.
2. Sabattini e il movimento no global: dall’Assemblea di Maratea a Genova 2001
Sabattini, divenuto segretario generale della FIOM nel 1994, inaugura un nuovo corso all’interno del sindacato metalmeccanico, aprendosi alle dinamiche di movimento che, a livello globale, stanno iniziando a contestare l’egemonia neoliberista americana. Non si tratta di un’apertura, per così dire “tattica”: i temi dell’indipendenza sindacale e della necessità di una costante validazione democratica da parte della base sono avanzati da Sabattini ben prima dell’incontro con i nascenti movimenti altermondialisti. Dopo la sconfitta dell’autunno 1980 alla Fiat di Mirafiori e la caduta dell’Unione Sovietica, andava ricostruita, nella contemporaneità del “qui e ora”, l’affermazione di una soggettività antagonistica alle sole ragioni dell’impresa[8].
Dall’Assemblea di Maretea del 1995 e dal Congresso della Fiom del 1996[9], il sindacato dei metalmeccanici ritorna a essere protagonista, come non accadeva da anni, scegliendo di rincominciare a essere artefice del proprio destino. Nello slogan del movimento no global “un altro mondo è possibile” ci si ritrova anche la Fiom di Sabattini, per quanto all’interno di quello slogan erano presenti differenti interpretazioni di cosa sarebbe dovuto essere il “mondo possibile” che si voleva costruire.
Il sindacalista bolognese accetta però in pieno la sfida per la costruzione di una cultura comune, cercando di porre l’attenzione sulle tematiche del mondo del lavoro e sulla ricostruzione di una sua soggettività autonoma. La richiesta di maggiore democrazia diventa l’elemento centrale che accumuna tute blu, attivisti dei centri sociali, membri di associazioni laiche e cattoliche, ambientalisti etc. e che li porta, tutti insieme, a manifestare contro gli “illegittimi” vertici del G8 o le riunioni dei grandi organismi economici sovranazionali.
Nel 2001 avviene la firma del contratto separato, firmato solo da Cisl e Uil con Confindustria. In quell’occasione, la richiesta di maggiore democrazia attraversa anche le fabbriche: grandi cortei e manifestazioni – come quella del 16 novembre 2001 – vedono i movimenti al fianco della Fiom, nel richiedere la riapertura delle trattative per impedire che fosse apportato un nuovo attacco ai diritti dei lavoratori. È, infatti, in questo periodo che il Libro bianco di Maroni inizia a muovere i primi passi. Si tratta dunque di un percorso lungo, che parte dalla contestazione del vertice del Wto di Seattle nel 1999 e arriva fino al Forum Sociale Europeo di Firenze del novembre 2002, passando per le tragiche giornate del G8 genovese.
Giornate che colpiscono molto Sabattini, per la durezza della repressione subita dai movimenti, elemento che lo convince a rimanere in piazza nonostante il segretario generale della Cgil Cofferati glielo avesse ufficialmente sconsigliato[10]. Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, il quadro globale cambia velocemente: il focus si sposta sulle guerre che l’Occidente mette in atto nel tentativo di “esportare la democrazia”. Anche in tale frangente la Fiom di Sabattini è in prima linea all’interno dell’ampio e composito fronte pacifista.
È interessante notare come, già da questa fase, nella quale comunque Sabattini si sente molto distante dal modello cogestionale tedesco, egli ponga con estrema forza l’elemento della costruzione dello spazio del sindacalismo europeo e della necessità dei contratti continentali di filiera. Sabattini vede già con chiarezza il rischio che si concretizzerà negli anni successivi: operai tedeschi contro quelli italiani, gli italiani contro quelli polacchi, questi ultimi contro quelli serbi, etc., in una spirale che non sembra avere fine. Su tale punto trova però la strada sbarrata dal potente sindacato metalmeccanico tedesco, l’IGMetal.
Ultimo aspetto, rispetto al quale – pur in assenza di reale confronto interno – si situa un primo proficuo contatto tra la Fiom e i movimenti giovanili e no global è quello della precarietà e delle nuove forme contrattuali nel mercato del lavoro. Sabattini dimostra, anche in questo caso, di comprendere molto bene il rischio della guerra tra poveri che, purtroppo, stiamo vivendo in questi giorni: garantiti contro non garantiti, vecchi contro giovani, la moltiplicazione dei contratti nei luoghi di lavoro.
3. L’attualità del pensiero di Claudio Sabattini
In quest’ultima parte vorrei ripercorrere alcuni aspetti dell’elaborazione teorica e della militanza di Claudio Sabattini che mi hanno particolarmente colpito. Va rilevato che il pensiero di Sabattini è stato intrinsecamente legato alla prassi dell’agire politico e sindacale, quindi sempre in divenire, aperto a modifiche e cambiamenti. Anche quando, a seguito dell’autunno 1980 alla Fiat e con l’avanzata del modello americano a livello planetario, tutto sembrava perduto, i grandi punti fermi del suo ragionamento non sono mai venuti meno.
Vorrei chiarire il punto di vista che ho adottato in questo lavoro: ho cercato di mettere a fuoco, tramite la figura di Claudio Sabattini, i rapporti tra un pezzo del sindacalismo italiano e parti dei movimenti sociali che, in fasi diverse, hanno scandito la storia di questo paese. Lungi da me pensare di fornire un quadro organico e complessivo del pensiero e dell’elaborazione teorica di Sabattini, mi soffermerò sui punti analizzati nel corso della mia ricerca.
Il primo aspetto che mi ha colpito riguarda lo spazio di manovra che la Sezione universitaria bolognese è riuscita a conquistare nei confronti del Pci. Sabattini e i giovani quadri universitari riescono a mantenere un indiscusso ruolo di leadership all’interno del movimento studentesco e di “stimolo critico” verso il partito e la sua Federazione giovanile. Essi scelgono l’assemblea come luogo privilegiato del confronto e dello scontro politico, rimandando la decisione definitiva sempre a quel tipo di contenitore e contribuendo definitivamente ad affossare la vecchia e ormai inefficace rappresentanza studentesca. Molto interessante rispetto a questo punto è il dibattito che si sviluppa nel corso del ’68 sulle pagine de l’Unità, tra alcune figure di primo piano della Suc (Garibaldo, La Forgia e Sabattini) e Alfiero Grandi, allora segretario bolognese della Fgci[11]. La Sezione universitaria sceglie di essere interna al movimento, non in forma tattica (cioè finalizzata al solo proselitismo): i giovani militanti comunisti lavorano soggettivamente perché la forza anticapitalista, espressa dalle nuove generazioni di studenti universitari, possa liberamente dipanarsi e saldarsi con la classe operaia. Lo stato dell’arte è dunque quello di un Pci bolognese ed emiliano molto meno monolitico di quanto si racconti a distanza di anni: si poteva essere eterodossi anche dentro il Pci.
Il secondo aspetto che ho trovato interessante è la capacità di trasferire il grande portato di lotte nelle scuole e nelle Università verso il terreno della mobilitazione operaia. All’inizio degli anni Settanta, molti dei militanti della Suc passano all’impegno sindacale, trasferendo con sé tutto il portato delle mobilitazioni universitarie degli anni precedenti: la pratica assembleare, l’inchiesta, l’attenzione al mondo della scuola e un analisi più adeguata rispetto alle contemporanee forme di capitalismo diventano da quel momento punti di riferimento del loro agire sindacale. Da questo punto di vista la Camera del Lavoro di Bologna e più in generale la Fiom si dimostrano ben più ricettive del partito nei confronti delle richieste poste dagli studenti. Sabattini e i militanti della Suc mettono sempre al centro del proprio ragionamento l’autonomia della classe (intesa come autonoma soggettività del mondo del lavoro) e il potere che essa deve riuscire a esprimere in ogni ambito della società. Non si tratta quindi né di guardare al solo riformismo, né di mirare a trasformare ogni passaggio di lotta nell’ora “x”. In particolare, mi sembra di poter dire che essi pensano a una costruzione graduale che permetta, attraverso processi democratici e assembleari, una sempre maggiore presa di coscienza delle proprie condizioni e che consenta, sia in fabbrica che nello Stato, la sedimentazione di un contropotere alternativo al capitalismo. Da tale punto di vista, si comprende molto bene la critica che essi muovono sia a un Pci troppo concentrato sulla sola politica nelle istituzioni (quel farsi Stato che giungerà poi al compromesso storico), sia a quei gruppi che identificheranno nello studente solo un nuovo militante da aggregare per fini politici generali, perdendo così la capacità di modificare alla radice quel sistema scolastico e universitario incentrato sugli interessi del capitale. Sabattini in un articolo del 1972 su Unità Operaia esprime delle valutazioni molto critiche sulla fine dell’azione trasformativa dei movimenti studenteschi, proprio perché incapaci di sedimentare nuove istituzioni permanenti all’interno degli istituti del sapere e, tramite queste, ricontrattare con il potere ogni aspetto della formazione su basi anticapitalistiche[12].
Un terzo aspetto che mi ha colpito è vedere come la lettura e lo studio dei testi di Rosa Luxemburg – basti in questo caso pensare alla sua tesi di laurea – abbia condotto Sabattini e i giovani a lui vicino verso un’analisi del rapporto tra partito e classe, se non unica nel suo genere quanto meno inedita: per Sabattini non vi è mai né la primazia dell’uno sull’altra né viceversa. Vi è un continuo confronto dialettico tra il partito, strumento nel quale risiede la strategia rivoluzionaria, e la classe, motore primo della lotta: in tal senso, Sabattini rappresenta un insolito mix di leninismo (che egli sottopone a una moderata critica rispetto alla ineluttabile necessità della coscienza esterna) e di luxemburghismo (che non viene però vissuto né come spontaneismo delle masse né come proselitismo in preparazione al ruolo guida del partito). Secondo lui, compito dei militanti comunisti, degli intellettuali e dei dirigenti, è, infatti, quello di mettere in condizione la classe lavoratrice di decidere da sola: massimo di autonomia della classe e massimo di democrazia nella classe divengono, già dalla fine degli anni Sessanta, una costante nel pensiero del sindacalista bolognese. In un articolo del 1972, apparso sulla rivista Fabbrica e Stato, Sabattini s’interroga, a partire proprio dai ragionamenti adesso esposti, sull’attualità del pensiero di Lenin a settant’anni dalla pubblicazione del Che fare?. In tale articolo, egli indaga il rapporto sindacato-partito in una chiave non dogmatica, rielaborando la concezione dell’autonomia della classe e identificando nella sua indipendenza strategica (anche nei confronti del partito comunista) la chiave di volta, tramite la quale ricostruire un piano di attacco complessivo agli interessi del capitale[13].
Un successivo aspetto sul quale ho riflettuto a lungo riguarda, a cominciare dal 1994, la capacità di Sabattini e del gruppo di sindacalisti a lui vicino di rimettere tutto in discussione e ripartire[14]. Essi, a mio avviso, pur sentendosi parte di una storia precisa, quella delle forze comuniste in un Occidente capitalistico, hanno la capacità di rielaborare quel “lutto” e di ridare un nuovo significato al termine alternativa, alle soglie del Terzo millennio. La scelta di modificare “qui e ora” la realtà, a partire dalla materialità delle condizioni presenti, è, in fin dei conti, quello che Sabattini aveva fatto per tutta una vita: almeno fin dai tempi del secondo biennio rosso. Quando dal palco di Maratea parla di “indipendenza del sindacato”[15], tali parole andavano semplicemente lette come la necessità di ricostruire l’autonoma soggettività del lavoro dipendente e come la volontà di riattualizzare la possibilità di trasformazione dell’esistente. La prima era stata sconfitta nell’autunno ’80 a Mirafiori e la seconda sembrava tramontata in seguito alla caduta del Muro di Berlino. Con estrema coerenza Sabattini sosteneva – come non aveva mai smesso di fare – che per ripartire davvero era necessario riprendere ad affermare la propria ineliminabile irriducibilità, finendola con “gli scambi a tutti i costi”[16] e rimettendo al centro le lotte e la contrattazione collettiva. Lo strumento doveva essere, anche in questo caso, la pratica democratica e la decisione collettiva[17]. Quello che per tanti altri fu solo un “trauma” (o peggio ancora la “fine di tutto”), a Sabattini appariva invece come un nuovo campo di possibilità.
Un ultimo elemento sul quale vorrei soffermarmi è quello che ha riguardato – all’interno del dibattito in seno al movimento no global – da un lato, l’identificazione dei soggetti della trasformazione e, dall’altro, l’immaginazione di cosa concretamente fosse l’alternativa sistemica. La pratica democratica è lo spazio d’azione nel quale si sedimentano le due coordinate appena descritte. Ed è proprio rispetto a tale pratica che si manifestano i più importanti ed efficaci rapporti tra la Fiom di Sabattini e pezzi consistenti dei movimenti altermondialisti e pacifisti della fine del Secondo millennio. La scelta di un’inversione di rotta delle politiche neoliberiste, in senso radicale e democratico (cioè controvertici, manifestazioni, azioni di disobbedienza di massa), accomuna tutte le forze che si mettono in cammino in quel percorso che da Seattle, passando per le giornate del G8 di Genova e del Forum Sociale Europeo di Firenze, giunge al ciclo no war del 2003 e 2004. Il problema, a mio avviso, si palesa quando si vanno a definire le due coordinate di base che ponevo all’inizio: che cos’è l’alternativa e qual è il soggetto trasformativo. Ho usato appositamente il singolare per rendere ancora più chiaro il passaggio: usando il plurale – parlando quindi di alternative e di soggetti, come in effetti si è fatto in quella fase – si evita semplicemente di affrontare il problema. E lì come in altri periodi storici non si tratta di affermare la propria idea contro quella di qualcun altro ma invece di discutere e confrontarsi: di giungere alla costruzione di un “comune”. Cosa che i movimenti – cioè tutti i soggetti che hanno attraversato l’esperienza dei social forum, Fiom compresa – hanno fatto, a mio avviso, troppo poco. Voglio semplicemente fare miei quelli che erano, rispetto a tale passaggio, i dubbi e le preoccupazioni (più che legittime) che Claudio Sabattini poneva agli altri e a se stesso. Come si poteva pensare, oltre la comunanza di pratiche e il rifiuto del neoliberismo, che reddito di cittadinanza e battaglie per il salario, riconversione ecologica e contemporaneo sviluppo dei pesi poveri, rilancio del ruolo delle Nazioni Unite e un pacifismo “senza se e senza ma”, la sfida della costituente europea e la volontà di ridare peso allo stato nazione e ai parlamenti, etc., potessero stare insieme senza una approfondita discussione? Sabattini, in particolare, sembra in quest’ultima fase molto preoccupato – coerentemente con il suo percorso di militanza – rispetto alla necessità di una rappresentanza politica dei soggetti del lavoro dipendente[18]: egli capiva che il movimento, già dal Forum di Firenze (novembre 2002), stava perdendo la sua forza propulsiva e che le differenze stavano iniziando a emergere sempre più. Quella discussione comune, di lungo periodo, era mancata, ed era ora di provare a sedimentare quanto costruito. Non era comunque una vittoria…e di questo Sabattini era pienamente consapevole.
4. Per concludere
Per terminare il mio ragionamento, ritengo che in primis vengano le lotte perché se non ci sono lotte non esiste nemmeno la possibilità di cambiamento. Esistono però delle variabili secondarie. Se nel secondo biennio rosso si crea effettivamente un’osmosi tra movimento studentesco e movimento operaio è anche perché il soggetto e l’alternativa avevano dei nomi precisi: si chiamavano classe operaia e comunismo, ed erano da tutte le componenti (dai partiti della sinistra, al sindacato, ai gruppi extraparlamentari) identificate con questi nomi. Contrariamente la fase dei movimenti globali identifica, come abbiamo visto, una pluralità di soggetti differenti (dagli operai tradizionali ai lavoratori precari, dai contadini del Sud del mondo agli operatori dei call centre, dai cattolici di base ai centri sociali, dagli ambientalisti ai sindacati industriali, etc.) che si battono contro le ricadute del neoliberismo sulle loro vite.
Utilizzando le parole di Sabattini: se è la vita di ognuno di noi la posta in palio, allora è dalla “ricostruzione di vincoli sociali per il capitalismo”[19] che si riparte concretamente. Tutto questo, Sabattini l’ha sempre detto con chiarezza, anche se era uno dei pochi in quella fase. Egli ha comunque scelto la strada del confronto anche con chi non la pensava come lui: essere “interni” ai percorsi di movimento e l’essere presenti come Fiom a Genova, nel 2001, penso parlino da soli. Il pensiero e la militanza di Sabattini, a mio avviso, possono insegnare molto anche ai movimenti contemporanei: più coraggio nel pensare uno spazio sociale e politico oltre il dominio del capitale e più coraggio nel definirsi anticapitalisti, l’orizzonte dell’unità delle lotte e il diritto di coalizzarsi fra tanti e differenti come unico antidoto all’isolamento e all’atomizzazione, la pratica democratica (si decide insieme e si fa quello che si decide) contro l’autismo della rassegnazione o dell’estetismo delle solitarie fughe in avanti. Soprattutto egli ci ricorda che il capitalismo, in ogni sua forma, creerà sempre più contraddizioni di quante ne risolva. Claudio Sabattini, come sempre senza dogmatismi e nostalgie, ci rammenta insomma, alle soglie del Terzo millennio, che il conflitto fra capitale (anche quello finanziario, transnazionale e neoliberista) e lavoro (in tutte le sue forme) è il nodo da cui ripartire
Una versione ridotta di questo testo è pubblicata in “Inchiesta” ottobre-dicembre 2013
[1] Questi gli intervistati: Luca Casarini, Giorgio Cremaschi, Francesco Garibaldo, Roberto Giudici, Antonio La Forgia, Federico Martelloni, Anna Naldi, Gabriele Polo, Gianni Rinaldini e Tiziano Rinaldini.
[2] Archivi consultati: Archivio Fondazione Gramsci Emilia Romagna(AIGER), Fondo Raccolta documentaria dei Movimenti Studenteschi del 1968 e del 1977, buste I-XXVI; Archivio Fondazione Claudio Sabattini, carte sciolte.
[3] Riviste, periodici e quotidiani consultati: “Carta/Cantieri Sociali” (aa. 2001-2002), “Fabbrica e Stato” (aa. 1972-1975), “Inchiesta” (aa. 1971-1974), “I Consigli, rivista mensile della FLM” (aa. 1973-1974), “Impegno Unitario, giornale della FLM di Bologna” (aa. 1973-1974), “il Manifesto” (aa. 2001-2002), “la Repubblica” (aa. 2001-2002), “Notizie Internazionali, Bollettino trimestrale della Fiom-Cgil” (aa. 2001-2002), “Rassegna sindacale” (aa. 1968-1974), “Rinascita” (aa. 1968-1969), “l’Unità, edizione di Bologna” (aa. 1968-1969).
[4] Basti pensare al ruolo di primo piano che la Suc svolge all’interno delle mobilitazioni universitarie bolognesi e in particolare nella vicenda dei settanta giorni di occupazione dell’Istituto di Fisica. A riguardo si rimanda a: AIGER, b. VI, f. 3, 70 giorni di occupazione, a cura degli occupanti l’Istituto di Fisica in Raccolta documentaria dei Movimenti Studenteschi del 1968 e del 1977. b. VI, f. 3
[5] “Fabbrica e Stato”, a. 1, n. 1-5, 1972.
[6] Le 150 ore. Suonata per i padroni. Numero speciale di “Fabbrica e Stato” e “Inchiesta”, a. 2, n. 7-8, luglio-agosto 1973.
[7] Fim-Cisl, Fiom-Cgil, Uilm-Uil Emilia Romagna, Atti convegno piccole e medie aziende metal meccaniche industriali e artigiane, Grafiche Bg, Bologna 1972.
[8] G. Polo, C. Sabattini, Restaurazione italiana: Fiat, la sconfitta operaia dell’autunno 1980 all’origine della rivoluzione liberista, Manifesto libri, Roma 2000.
[9] S. Vecchi (a cura di), Il sindacato nel tempo della globalizzazione, Meta Edizioni, Roma 2006.
[10] G. Polo, “Botte all’americana”, in “il Manifesto”, 31/07/01.
[11] Dal 2 aprile al 5 maggio del 1968, sulle pagine bolognesi de “l’Unità”, si susseguono ben quattro interventi polemici fra gli esponenti di primo piano della Suc (Garibaldo, La Forgia e Sabattini) e il Segretario provinciale della Fgci (Grandi).
[12] C. Sabattini, Quale organizzazione per il movimento degli studenti? in “Unità Operaia”, a. III, n. 8-9, agosto-settembre 1972.
[13] C. Sabattini, A 70 anni dal Che fare? Una rilettura critica di Lenin sul rapporto sindacato-partito, in “Fabbrica e Stato”, a. 1, n. 2, marzo-aprile 1972.
[14] La Segreteria di Claudio Sabattini alla Fiom nazionale (1994 – 2002) era stata anticipata dall’Accordo interconfederale del 23 luglio 1993, che fu duramente contestato dai lavoratori: la cosiddetta “stagione dei bulloni”.
[15] “In altre parole, e anche se può sembrare un paradosso, il sindacato può dare una dimensione politica autonoma al suo agire solo alla condizione di accettare integralmente la propria parzialità, il proprio essere rappresentante di una parte della società”. Cfr. Documento presentato all’Assemblea nazionale della Fiom-Cgil, Maratea, 10-11 ottobre 1995, stralci dallo Schema di documento del 26 luglio 1995, in S. Vecchi (a cura di), Il sindacato nel tempo della globalizzazione, Meta Edizioni, Roma 2006, p. 21.
[16] “Io sono infatti particolarmente convinto che noi siamo di fronte all’esaurimento della politica sindacale fin qui svolta e alla necessità di una nuova proposta strategica. La linea dello scambio, inaugurata all’Eur nel ’77, non ha più alcuno spazio, per la semplice ragione che non abbiamo più nulla da scambiare. […] E’ necessario allora avere il coraggio di una innovazione radicale nell’analisi e nella proposta”. Cfr. Relazione introduttiva all’Assemblea nazionale della Fiom-Cgil, Maratea, 10-11 ottobre 1995, in S. Vecchi (a cura di), Il sindacato nel tempo della globalizzazione, Meta Edizioni, Roma 2006, p. 18.
[17] A seguito dell’accordo alla Fiat di Termoli del dicembre 1994, accordo contestato dai lavoratori e fatto passare a stretta maggioranza nelle assemblea proprio grazie all’intervento diretto di Sabattini, quest’ultimo dichiara a Gabriele Polo: “Mai più. Non sigleremo mai più un accordo sulle condizioni di lavoro senza un mandato dei lavoratori, senza farli votare prima.” Cfr. G. Polo, Ritorno di Fiom, Manifesto Libri, Roma 2011, p. 11.
[18] A proposito si vedano: C. Sabattini, La centralità del lavoro, in “Critica Marxista”, n. 1, gennaio-febbraio 2002, p. 15 e C. Sabattini, Lavoro senza rappresentanza, in “Critica Marxista”, n. 4, luglio-agosto 2002, p. 34.
[19] Terrorismo, guerra, globalizzazione. Cosa fare contro l’attuale deriva, 22 novembre 2002, in Centro studi R60 (a cura di) Claudio Sabattini, alcuni interventi, autunno 2002-estate 2003, Edizioni Teorema, Reggio Emilia 2003, p. 21.
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