Claudio Sabattini: Un movimento sindacale e di sinistra all’altezza dei tempi (2000)

| 25 Gennaio 2013 | Comments (0)

 

 

Intervento alla presentazione del libro Restaurazione italiana di Gabriele Polo e Claudio Sabattini (Manifesto libri, 2000) nel corso del Comitato Direttivo della Fiom di Reggio Emilia, il 1 dicembre 2000. Questo intervento fa parte del dossier pubblicato da “Inchiesta” ottobre-dicembre 2012 ed è stato curato dalla  Fondazione Claudio Sabattini  per l’iniziativa del 25 gennaio 2013 a Roma sul tema “C’è un futuro per il sindacato? Quale futuro?” Il testo è tratto dalla sbobinatura dell’intervento

 

[…] è come aprire una ferita, è come riaprire una discussione che però tutti sanno che è alla base, sta dentro ciò che noi oggi tutti viviamo, non è una cosa che è passata, che è stata semplicemente superata e quindi si può parlare d’altro tranquillamente.

Il punto, secondo me, che porterebbe ad una riflessione ben più importante che proprio ci riporterebbe immediatamente alla questione e ai problemi che stiamo oggi attraversando, riguarda il fatto che c’è un nesso inscindibile tra i processi di innovazione tecnologica organizzativa e le condizioni dei lavoratori, cioè la loro collocazione nel processo, sia esso produttivo come oggi si usa dire di beni materiali, sia esso produttivo di beni immateriali.

La tecnologia, in qualche modo, richiede di essere governata; per essere governata avviene sempre uno scontro tra chi ne è proprietario e chi la subisce. L’ipotesi che sia possibile una codeterminazione, cioè un modo che entrambi i soggetti, capitale e lavoro, seppure contrattando si mettono d’accordo su questo punto, di come insieme gestirla non avviene e non è avvenuto; in un certo senso, è avvenuto solo negli anni Settanta. Nella storia italiana non è mai avvenuto, almeno nel dopoguerra: non è avvenuto certamente negli anni Cinquanta, e nemmeno negli anni Sessanta, Ottanta e Novanta e adesso non sta certo avvenendo. Perché la questione di come gestire il potere sulle tecnologie è proprio la questione centrale del potere, e nell’impresa è certamente la questione centrale del potere; se noi vogliamo, io credo correttamente, considerare la democrazia, e quindi il conflitto (perché se non c’è conflitto vuol dire che non siamo in una fase democratica).

Del resto, nessun regime autoritario ha mai accettato il conflitto, né potrebbe accettarlo. Il conflitto è un modo per regolare un processo democratico, è un modo, cioè, per risolvere i problemi, è uno strumento fondamentale per raggiungere o non raggiungere determinati obbiettivi, non è un fine. Io credo, solo per dirlo di passaggio, che l’accordo organizzativo del 23 luglio ’93 sia stato un tentativo per dimostrare che in Italia era possibile governare un conflitto in modo fisiologico: credo che questo tentativo oggi sia in fase di totale esaurimento. La concezione del conflitto fisiologicamente inteso, come un fatto non patologico, è in fase di esaurimento.

La fase di esaurimento è partita certamente dai lavoratori, ma ha avuto un’accelerazione formidabile da parte dei padroni, che sono stati i primi a contestare e a mettere in discussione il “23 luglio” quando si raggiunse l’obbiettivo che ormai l’inflazione era tenuta sotto controllo, era a livelli bassissimi e quindi non era più un problema nella competizione europea internazionale.


[…] Noi abbiamo perso molto potere in fabbrica. Nel ’68-’69, del resto non è un caso che nasce nel ’69 la contestazione articolata, nascono i consigli di fabbrica che non c’entrano niente, insisto, con le Rsu, che sono un’altra cosa. La Rsu è una rappresentanza dell’interesse dei lavoratori verso l’esterno e quindi, da questo punto di vista, è una rappresentanza delegata, mentre invece, i consigli di fabbrica erano una rappresentanza diretta.

Ma adesso, al di là di questo che ha un suo significato, e non è un caso che sia così, io credo che la cosa essenziale […] riguardi proprio la sinistra, e cioè il fatto che la sinistra ha sempre accettato la tecnologia come un fatto di positiva innovazione e la modernizzazione come un fatto che avesse una faccia sola, e l’unica faccia che aveva era quella positiva.

Non sto pensando solo a una cultura volgarizzata banale, sto pensando che di questa opinione è, in una certa misura, anche lo stesso Marx ma, al di là di questo, è sufficiente ricordare le parole d’ordine una italiana e l’altra sovietica: le parole di Gramsci su Americanismo e Fordismo da un lato, e dall’altro le dichiarazione di Lenin che per fare il socialismo ci voleva l’elettrificazione, e addirittura il taylorismo.Elettrificazione più taylorismo facevano il socialismo: sono esemplificazione del fatto che l’innovazione tecnologica è un fatto che ha sempre un significato positivo, e che ha un significato positivo ciò che deriva dall’innovazione tecnologica, che sono i vari processi di modernizzazione che intervengono nella società sotto la spinta dell’innovazione tecnologica.


Io credo invece che l’innovazione tecnologica abbia due facce, una faccia per chi la promuove e una faccia per chi la subisce. Questo però non vuol dire che chi la subisce deve subirla sempre. Dico che però su questo punto il processo non è pacifico, nel senso che la tecnologia va appunto dominata. Quando Romiti dice: “abbiamo riconquistato il potere in fabbrica, quindi il potere sull’organizzazione del lavoro, sulla produzione”, dice una cosa precisa: abbiamo conquistato il potere sul dominio della tecnologia e della sua organizzazione.

[…] Nel 1979 UmbertoAgnelli chiede la svalutazione, fatto sta che la svalutazione non gli verrà data, e dice che nella fabbrica ci sono troppe persone, bisogna tagliare e dice: “siamo di fronte ad un processo di modernizzazione che si baserà sull’automazione, su grandi investimenti tecnologici […]” quindi, da questo punto di vista, dice che, alla fine, i lavoratori conteranno molto meno perché saranno sostituiti da questi processi di automazione.

Questo è il periodo in cui si pensa addirittura alla fabbrica senza lavoratori, si pensa a utopie meravigliose da un punto di vista capitalistico […], ma, in tutti i casi, quest’idea che non ci sono più lavoratori e che non c’è più nessuno nelle fabbriche, che vivono al buio, è un’utopia che fu lanciata proprio in quel periodo. Io credo che il punto chiave sia del sindacato di tradizione socialista e anche comunista, e sia anche dei partiti della sinistra comprendendo con essi il partito (facendo riferimento non al presente ma al passato) della socialdemocrazia tedesca, come il partito comunista italiano, come anche per una lunga fase il partito socialista italiano: hanno sempre pensato a questa idea di fondo, che la tecnologia portava sviluppo e che lo sviluppo era un fatto positivo e che quindi, da questo punto di vista, occorreva incentivare questo processo. Ed è quello che andò sotto il nome di “impostazione produttivistica”, e non a caso il rappresentante per eccellenza di questo concetto era l’industria.

Se ci pensate, però, non c’è mai una valutazione di quale sia la collocazione del lavoratore in questo processo. Mentre l’interesse del padrone è quello di avere sotto controllo il processo e quindi la condizione di lavoro in tutti i suoi aspetti, non è la stessa cosa, se non in quella parentesi degli anni Settanta, non è la stessa cosa per quello che un tempo si chiamava “movimento operaio” e comunque per ciò che si chiama “la sinistra”. In che senso? Nel senso che l’aspetto dominante, quindi il compromesso, quando si è parlato di compromesso socialdemocratico in una lunga parte del Novecento, il compromesso avviene nella fase redistributiva, questo è il compromesso.

Il dominio dell’impresa da un lato e, dall’altro lato, il compromesso sul salario. Questo processo non è neanche della socialdemocrazia tedesca, si è parlato di un secolo socialdemocratico, in realtà questa è un’invenzione di Ford, cioè fu Ford il primo a capire che per vendere le sue automobili (il cui colore poteva essere qualsiasi, purché fosse nero), se faceva tante automobili e quindi doveva venderle, i lavoratori che lavoravano nelle sue fabbriche avrebbero dovuto avere i soldi per comprarle, se no, a chi le avrebbe vendute?

Infatti, non a caso il fordismo nasce con un innalzamento eccezionale di salario e di produttività altissima rispetto alla fase precedente, non comparabile con la fase precedente. Alla Ford c’erano alti salari rispetto alle altre grandi imprese, perché Ford pensava che il circolo virtuoso fosse produzione e consumi, che erano l’elemento chiave dello sviluppo, e che da lì bisognava partire. Quindi, inevitabilmente, il salario diventa la condizione per la continua riproduzione di quel processo.

 

Io credo che in tutto questo vi sia stata l’illusione che da un lato il movimento sindacale aveva il compito della redistribuzione, cioè dei salari, e che dall’altro invece il partito politico aveva come funzione quella di delineare la nuova società.

Poi, come si combinassero queste due cose, si sa che hanno avuto qualche contraddizione fino al loro esaurimento, ma in tutti i casi resta il fatto che il punto chiave della redistribuzione, e cioè dei salari, fosse l’elemento essenziale per qualsiasi tipo di ragionamento.

Questo lo dico perché nel momento in cui, è la verità storica che però va detta, si tentò in Italia col centrosinistra di fare una programmazione economica in varie forme, è vero che il sindacato alla fine ebbe un atteggiamento di neutralità. Vittorio Foa in definitiva propone l’astensione rispetto alla discussione in parlamento sulla programmazione. Ma la programmazione economica in Italia non fallisce perché il sindacato non è d’accordo, ma perché i padroni non erano d’accordo che si facesse, perché nessuno voleva sottoporre la propria impresa alla programmazione dello Stato. E sto parlando, ovviamente, della grande impresa. Quindi da questo punto di vista, la grande impresa italiana non ha mai accettato, nemmeno rispetto allo Stato, di sottoporsi a nessuna regola fondamentale, quale poteva essere la programmazione.

 

Ora, proprio per questo motivo, io credo sia stata così terribile l’esperienza degli anni Settanta, soprattutto per la grande impresa, dal momento in cui si aprì la discussione, inizialmente molto torinese, ma che poi si allargò in molte parti d’Italia, sulla validazione consensuale, cioè sul fatto che la tecnologia non poteva decidere come si lavorava, che ci voleva anche il consenso dei lavoratori per lavorare in un modo piuttosto che in un altro.

Quando si apre questo problema, che oggi chiameremo della codeterminazione (la si può chiamare come si vuole), cioè che occorre trovare un accordo su come far funzionare l’impresa, perché senza la cooperazione tra capitale e lavoro l’impresa non può funzionare; quando si apre questo problema la Fiat è costretta ad accettare la contrattazione, che è la condizione per trovare volta a volta accordi e accordi successivi su come gestire l’impresa, la Fiat è costretta ad accettare la contrattazione.

È chiaro che in quel momento vengono messe in discussione quelle che il padrone considera le sue prerogative fondamentali, cioè che l’impresa ha una sua fonte di potere incontestabile, cioè che ha una fonte di potere dispositiva, cioè che l’impresa dispone di ciò che occorre fare. Ora, io credo, proprio per questa ragione, che tutte le crisi che sono avvenute nei vari paesi si sono risolte anche in termini molto diversi: c’è il compromesso svedese come c’è quello tedesco del secondo dopoguerra. Ci sono stati vari compromessi che sono stati fatti e anche negli anni Settanta c’è stato un compromesso che era appunto che tutto doveva essere contrattato per poter funzionare.

Il nodo della questione però è il fatto che, di fronte alla sconfitta alla Fiat, il problema che viene affrontato successivamente nel sindacato non è il problema della condizione di lavoro sulla quale la Fiat aveva fatto la sua battaglia centrale (al di là del fatto che fosse convinta o no di vincerla, perché Romiti dichiarò che, fino all’ultimo, non era certo che avesse vinto), ma anzi, tutto va nella direzione contraria, cioè va nella direzione classica, che è quella in cui vanno tutte le varie concertazioni, che non nacquero nel ’93, ma dopo l’Ottanta, perché già nel 1983 siamo in fase di concertazione.

Con i vari ministri che si successero, Spadolini riaprì una parte di concertazione: la concertazione nasce dopo questa visione in cui da un lato il sindacato rinuncia a intervenire sulla condizione di lavoro, dall’altro si discute di quello che era già stato detto dall’attuale Presidente della Repubblica, allora Governatore della Banca d’Italia, che nel 1980 fece una relazione molto precisa, dicendo che il salario doveva essere riferito all’inflazione, non poteva superare l’inflazione. Questo lo disse nel 1980, non nel 1993 o oggi. Questa è la linea di fondo che si apre in quel periodo e contemporaneamente dall’altro lato il processo di ristrutturazione, cioè l’aumento della produttività, deve essere guadagnato attraverso il taglio dell’occupazione, e inizialmente il taglio dell’occupazione vuol dire predisporre un certo processo produttivo, ma intanto abbassare il costo del lavoro e quindi, da questo punto di vista, significa aumentare la produttività in termini relativi al taglio occupazionale. Se lo si guarda da questo punto di vista, ci possono essere moltissime opinioni su come è andata nel ventennio che va dal 1980 al 2000.

Certo, l’opinione prevalente è l’opinione che dice che è bene così, nel senso che per fortuna è andata così, perché in qualche modo sono state difese certe condizioni, è stato difeso il sindacato, insomma, adesso è poco importante quello che si dice, però la natura di questo problema è che dentro l’impresa ci sono due soggetti, e per esserci due soggetti occorre che uno dei due, cioè i lavoratori, diventano soggetto, e lo diventano solo nel momento in cui sono capaci di affrontare e definire la loro condizione, contrattando, in tutte le forme che volete, ma definendo la loro condizione. Se non diventano soggetti, è l’impresa che rappresenta tutti, che lo si voglia o no.

Esiste in questo caso un processo di redistribuzione che dipende dagli andamenti congiunturali del capitalismo internazionale, processo che può essere più o meno ampio, ma sempre dentro un quadro, un vincolo di compatibilità che sono quelli dell’impresa.

Senza questi vincoli di compatibilità l’impresa non può funzionare, quindi proprio per questo l’impresa diventa l’elemento chiave di tutto il processo e quindi lo sviluppo dell’impresa è lo sviluppo generale in quanto l’impresa rappresenta anche coloro che stanno dentro l’impresa, rappresentanti e lavoratori.

Io credo che questo fatto, che è una situazione che è sotto i nostri occhi, fa parte dell’idea, che io non sono convinto che sia vera, che è quella che dice che il sindacato viene dopo i processi, cioè i processi li capisci dopo e il sindacato è necessariamente conservatore. Questa idea ormai è una celebrità. Quando uno deve dire qualcosa al sindacato dice “i conservatori”. Rutelli, D’Alema, il Presidente di Confindustria e Berlusconi dicono che il sindacato è conservatore. C’è proprio un accerchiamento su questo argomento.

Io credo che noi siamo in una fase che, nel mentre si dice che il sindacato è conservatore, non ci si accorge di ciò che invece sta succedendo, così come era possibile e trasparente capire quello che stava per succedere dopo la vicenda Thatcher.

La Thatcher era arrivata addirittura a dire quella sua celebre frase per cui la società non esisteva più, esistevano solo gli individui, una frase esemplificativa del pensiero conservatore. Nessuna società poteva esistere, la società era fatta semplicemente di individui uno vicino all’alto che non avevano relazioni particolari se non attraverso la tecnologia.

La cosa che a me pare decisiva è il fatto che noi stiamo attraversando quella che viene chiamata globalizzazione, una fase in cui il capitalismo ha preso un ulteriore sviluppo che non è nemmeno più quello della fine degli anni Settanta, inizio anni Ottanta, i Tatcher e Reagan, ma va ben oltre.

Il capitalismo oggi, nella fase della globalizzazione, avendo a disposizione l’intero pianeta per potersi muovere, date le tecnologie telematiche, informatiche, ecc., oggi, nella fase attuale, il capitalismo si svolge nel senso che non è più possibile accettare nessuna regola.

Si discute di commercio internazionale e sull’ambiente, e non si trova un accordo, e nessuna discussione internazionale riguarda le questioni sociali fondamentali che riguardano tutti. La discussione sul pianeta e sull’ambiente, sulla vita di tutti, non trova un accordo neanche arrivando alla conclusione facile che la questione dell’ambiente non riguarda solo gli operai e gli impiegati o i tecnici, certamente molto anche loro, ma riguarda anche i padroni, ma nonostante questo non si trova un accordo per ragioni molto precise, perché le grandi oligarchie finanziarie non vogliono che in nessun modo si controlli il processo e quindi sono contrario a qualsiasi vincolo che può essere messo al processo. Prima di tutto sono contrari al vincolo, prima ancora di essere contrari al significato di questo vincolo.

Non vogliono vincoli, però, in questa logica, non vogliono nemmeno vincoli da parte dei lavoratori e del sindacato, non qualche vincolo, ma proprio nessun vincolo, fino ad arrivare alla conclusione, per esempio, che sulla questione essenziale in discussione, quella dei licenziamenti, il programma della Confindustria è preciso come quello di Berlusconi.

Il programma della Confindustria chiarisce che bisogna avere libertà di licenziamento, Berlusconi addirittura aggiunge che ci deve essere il libero contratto. Se voi pensare alle due cose insieme (il libero contratto è quello che non ha bisogno di nessuna organizzazione sindacale) è semplicemente dire che il sindacato va sciolto. Quello che dice D’Amato appare un po’ meno radicale ma dice libertà di licenziamento.

Con questa libertà si ritorna a una situazione in cui chiunque può essere licenziato per qualsiasi ragione, non c’è più alcun motivo che debba giustificare il licenziamento. Se il motivo può essere economico, il licenziamento può essere fatto in qualsiasi momento. Ora, io credo che stia arrivando questo vento dagli Stati Uniti d’America, che noi apprezziamo. Io sono uno che apprezza gli Stati Uniti perché mi permette di capire meglio i processi che stanno arrivando.

Questo vento è del tipo di quello della fine degli anni Settanta con una caratteristica in più, che è essenziale: la caratteristica di non avere vincoli, per cui se anche il lavoro non è e non può essere più un vincolo, vuole dire che la flessibilità non è la flessibilità su qualcosa, ma è totale, va dal fatto che ti assumo al fatto che ti licenzio, ti sposto, quindi al fatto che ho piena disponibilità della tua persona; non esiste più il contratto.

Io penso che stia succedendo così, e capisco che nelle zone più ricche del nostro paese si pensi che c’è solo da passare la nottata. Io temo, invece, che non sia una nottata, temo cioè che a questo punto la questione centrale è che, proprio perché il capitalismo non vuole più avere vincoli, che i capitali girano dappertutto, liberamente, la rincorsa del capitale non è più semplicemente quella di avere un profitto, ma di avere un alto profitto.

Se non ci sono alti profitti i capitali si spostano da un’altra parte dove c’è maggiore profitto. La ricerca del profitto e i fondi di investimento sono una delle classiche chiavi di questa interpretazione che noi stiamo rincorrendo, naturalmente. Se tu non mi dai tanto, non di profitto ad anni, sto parlando di profitto a sei mesi, allora io vado via da qui e vado da un’altra parte; le fabbriche si distruggono e si riaprono e richiudono a seconda della situazione, i lavoratori vengono licenziati e poi riassunti a condizioni peggiori o magari le stesse di come erano stati licenziati.

Tutto questo processo di distruzione e costruzione è rapidissimo per cui la precarietà non è un fatto transitorio, lo dice il documento Blair – D’Alema, ma ne è la condizione, perché la piena occupazione rischia di dare troppa forza al sindacato e ai lavoratori mentre una situazione di piena occupazione ma con un alto livello di precarizzazione impedisce questo processo di rafforzamento del potere dei lavoratori e del sindacato. Non ho scritto io quel documento, è firmato, come ho detto: è il documento Blair, poi è stato chiamato Blair-D’Alema. Se voi guardate attentamente questa situazione, qual è il punto?

Si torna al punto di partenza di questi ragionamenti, il punto di partenza vero, autentico, che del resto non a caso ha ispirato il socialismo (non ne faccio una descrizione storica perché sarebbe impossibile), il socialismo non a caso ha rappresentato e ha voluto rappresentare il lavoro, per una ragione molto semplice: perché il lavoro e quindi la possibilità propria per le persone di potersi esprimere, creare, lavorare, trasformare, è intrinsicamente in conflitto con il capitale.

Si può dire che è conflitto o che è antagonismo, lo si può mettere come si vuole, però il conflitto di interesse è fondamentale perché la lotta sul dominio dell’utilizzo delle tecnologie è una lotta che avviene tra due soggetti, da un lato i capitalisti e dall’altro i lavoratori, e uno dei due può soccombere, naturalmente. Questo problema rimane, come problema inevitabile della società industriale, non è possibile risolverlo per sempre.

Per cui, quando io parlo di una nuova possibilità di coalizione, non parlo di una nuova possibilità di coalizione attraverso un processo redistributivo a cui non credo (pur sostenendo che le ragioni di aumento del salario sono ben presenti nel nostro paese). Penso che la costruzione di un movimento sindacale e di una sinistra all’altezza dei tempi che attraversiamo, stia nel rappresentare integralmente il lavoro, non solo nella fase redistributiva, cioè nel salario, ma nella sua condizione, nella sua qualità, perché se non rappresenta questo e rappresenta solo l’aspetto redistributivo non può in nessun modo costruire una coalizione all’altezza dell’attuale potere capitalistico, non è in grado di confliggere sul serio col capitalismo.

Quindi, in questo modo non ha la forza di ricostruirsi come forza alternativa e autonoma, non può diventare soggetto, cioè forza autonoma. Questo secondo me è il punto chiave della discussione, oggi, io credo. Ovviamente non è solo la discussione di oggi, di questo mi rendo conto perfettamente.

 

[…] Questo è il nodo della questione, il socialismo ha scoperto che se si vuole rappresentare davvero il lavoro o lo si rappresenta in tutta la sua valenza, cioè in tutti i suoi significati, oppure, altrimenti, non c’è nessuna possibilità reale di costruire un soggetto autonomo in grado di competere con il capitalismo.

Io sono pochissimo affezionato alle attuali discussioni, come oggi si usa dire, della “sinistra”,molto spesso non le capisco nemmeno, però sono molto affezionato a quello che sta accadendo nella società e nel mondo, nel senso che penso si aprano problemi veri su questi argomenti. Si aprono negli Stati Uniti così come in Italia o in altri paesi, cioè si aprono momenti in cui il sistema, così come si presenta con la sua organizzazione tecnologica, diventa insopportabile.

I lavoratori della Zanussi, come i lavoratori giovani di Prato La Serra o di Melfi, che trovano insopportabile vivere in quelle condizioni e si ribellano, trovano una soggettività, e non vogliono più lavorare in quel modo. Io credo che il fatto che si ribellano nasca proprio da lì, dalla loro condizione di lavoro, cioè dal fatto di diventare elementi puramente strumentali di questo processo. Io credo che questo sia il punto chiave della ricostruzione del sindacato, e mi pare che da questo punto di vista la risoluzione non sia affidata alla mia generazione perché più di tanto non si può fare nella vita, credo però che questo problema si riapra nella stessa dimensione di come si era aperto in altre fasi storiche. E non tutte le fasi storiche devono finire allo stesso modo.

 

 

Category: Fondazione Claudio Sabattini

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