Claudio Sabattini: Il lavoro di fronte al suo rovescio (2003)
Intervento al seminario su Catene al lavoro. Il controllo sociale dentro e fuori la fabbrica organizzato l’11 luglio 2003 in collaborazione tra il Centro Studi R60 , l‘Associazione Storie in Movimento e la Camera del Lavoro di Reggio Emilia. Questo intervento fa parte del dossier pubblicato da “Inchiesta” ottobre-dicembre 2012 ed è stato curato dalla Fondazione Claudio Sabattini per l’iniziativa del 25 gennaio 2013 a Roma sul tema “C’è un futuro per il sindacato? Quale futuro?”
Osservando la letteratura sociale e quella massmediologica potremmo concludere che il sindacato non esiste più. Penso che siamo davvero vicini a questo esito, almeno analizzando gli avvenimenti degli ultimi trent’anni. Ovviamente il processo che ha portato o – se vogliamo introdurre una nota di ottimismo – che sta portando all’estinzione del sindacato non parte dal movimento sindacale italiano, ma ha avuto origine negli Stati Uniti e poi via via ha conquistato l’Europa e l’Italia affermando e facendo diventare senso comune, cultura diffusa che la forza lavoro può essere considerata come uno dei tanti strumenti della produzione, seguendo quindi logiche che sono tipiche dei fattori produttivi, per usare una espressione neoclassica.
L’origine di tutto ciò credo si possa far risalire alla fine degli anni ‘70.Da una parte Reagan, dall’altra la Thatcher hanno fortemente operato in questo senso. Non solo: hanno posto l’accento sull’inesistenza di una socialità complessiva, affermando che una società è fatta di singoli cittadini. Partendo da questo assunto, che ha caratterizzato le politiche dei due capi di stato lungo gli anni 80, si è arrivati ad affermare che il lavoro non è solo un fatto strumentale ma è un fattore della produzione e quindi, come tale, è inserito nei processi di ottimizzazione delle fasi produttive.
Questo significa che come si cambia un macchinario diventato obsoleto, così si possono sostituire i lavoratori ritenuti non sufficientemente produttivi. Nello stesso arco temporale si è sviluppata anche un’altra teoria che affermava che i processi di automazione, soprattutto di origine asiatica, avrebbero consentito di sostituire totalmente i lavoratori con le macchine. Il risultato di queste due teorie era lo stesso: il lavoro scompariva non solo come socialità, ma come elemento essenziale del, processo produttivo.
Ovviamente tutto ciò non è stato privo di conseguenze anche sul piano ideologico e politico. Basta guardare, ad esempio, i tanti accordi generali fatti dalle Confederazioni sindacali in Italia cui il termine «lavoro» non compare più e viene sostituito da «costo del lavoro ». Vengono stipulati accordi sulla flessibilità, sulla produttività che alludono al fatto che riguardano i lavoratori ma essi non vengono più rappresentati come tali, non si parla mai di «flessibilità dei lavoratori», ma di «accordi sulla flessibilità», «sulla competitività».
Accordi, accordi, accordi … È da questo punto di vista che nel giro di un ventennio è stato sostanzialmente liquidato il sindacato, e questo non è avvenuto per caso. Per capire davvero la portata di ciò che è accaduto occorre, secondo me, tornare alle origini del sindacato.
Esso nacque alla metà dell’800 in Inghilterra (grazie al riconoscimento fatto dai Wigh) da una equazione assai semplice: allora venne riconosciuto che se il lavoratore è solo di fronte all’impresa lo squilibrio di poteri è tale che non è possibile ne esca un contratto libero. Si riconobbe allora ai lavoratori la possibilità di coalizzarsi e quindi il riconoscimento dell’esistenza del sindacato. Finalmente i lavoratori poterono organizzarsi, esercitare un potere di coalizione, condizione indispensabile per equilibrare i rapporti di potere e dar vita a un contrasto in senso proprio. Perché in presenza di un forte squilibrio di potere tra impresa e lavoratore non è possibile parlare di contratto.
Oggi, dopo un secolo e mezzo di storia sindacale e del movimento operaio, considerando gli ultimi avvenimenti sociali succedutisi nel nostro Paese siamo alla liquidazione di due capisaldi di questa storia: il contratto e il potere di coalizione dei lavoratori. Del sindacato abbiamo detto. Per quanto riguarda il contratto collettivo possiamo certamente affermare che è stato liquidato sostanzialmente ma anche tecnicamente come ci insegnano le recenti vicende dei metalmeccanici: la firma posta da Fim e Uilm a quel testo ne ha sancito la definitiva estinzione visto che l’accordo non conteneva alcun elemento delle piattaforme presentate da quelle organizzazione che l’hanno firmato sottoscrivendo esattamente ed esclusivamente la posizione presentata da Federmeccanica e da Confindustria. Con l’aiuto, ovviamente, del Parlamento e del Governo che hanno provveduto a sostituirne la parte normativa – quella che riguarda le relazioni tra le parti e i diritti – con una sequenza di leggi che liquidano i diritti dei lavoratori. La liquidazione di questi diritti ha come connotato fondamentale un’ estrema frammentazione delle forme di lavoro. Si va dal job-on call, al lavoro intermittente, ad altre forme di lavoro sempre, però, a tempo determinato lasciando quindi il lavoratore in una perenne condizione di ricattabilità.
Esiste, ed è su questo che vorrei soffermare la nostra attenzione, un elemento che ha reso possibile queste due operazioni di liquidazione, il potere di coalizione sindacale da una parte, il contratto collettivo dall’altra: i lavoratori non possono più votare. I datori di lavoro possono fare il contratto con chi vogliono senza considerare quanto sia rappresentativo.
Così nasce il paradosso del contratto dei meccanici i cui lavoratori sono in maggioranza iscritti alla Fiom, più numerosi di quelli iscritti alla Fim e alla Uilm messe insieme. Che quel contratto sia stato sottoscritto da una minoranza è fuor di dubbio, la cosa grave è che questo non provoca nessun effetto perché non vi è una legge sulla rappresentanza e l’articolo 39 della Costituzione (che garantisce la libertà dell’organizzazione sindacale) non è mai stato applicato. Per rendere completa l’analisi, però, a mio giudizio occorre tenere presente un altro elemento che probabilmente ha una valenza ancor più generale. Se è chiarissimo cosa sia la manifattura, cosa sia la fabbrica, invece, non lo è affatto.
Nel corso degli ultimi trent’anni la fabbrica è stata attraversata da trasformazioni profondissime, causate non solo dai processi di internazionalizzazione, che l’hanno completamente modificata rendendo
assolutamente non paragonabile quella di oggi a quella di ieri. Il modo in cui si produce, si progetta, si dirige e si vende è completamente cambiato: l’impresa non è più sequenziale. Una volta si cominciava dall’ideare il prodotto per poi, per tappe successive, arrivare fino al prodotto finito e a organizzare la sua vendita. Ora ogni fase della produzione è svolta contemporaneamente alle altre in luoghi diversi, in tempi diversi, con costi e valori differenti e molte funzioni che una volta si svolgevano all’interno ora vengono esternalizzate dall’impresa stessa e vengono chiamati servizi, terziario. E un enorme quantità di ciò che comunemente viene chiamato terziario in realtà è puro e semplice prodotto industriale fatto fuori dalla fabbrica.
I primi a percorrere questa strada sono stati i giapponesi che, avendo realizzato subforniture di tutte le componenti lasciando all’interno dell’impresa soltanto l’assemblaggio, riuscirono a produrre automobili a una velocità tale da immetterne sul mercato quantità di sette o otto volte maggiori rispetto alle tradizionali fabbriche fordiste per la pura e semplice ragione che facevano fare due terzi dell’automobile fuori dalla fabbrica. Però, nonostante le modifiche che molti lavori hanno subito nel corso di questi decenni, diluendosi diversamente, è assai difficile che un qualsiasi prodotto, sia esso terziarizzato o meno, possa essere slegato dall’oggetto. Solo l’oggetto, infatti, può essere commercializzato.
E anche la teoria sui beni immateriali in realtà, non è fondata sul fatto che in passato si lavorava di braccia e ora si lavora di testa, ma sul concetto classico che esiste una supremazia del lavoro intellettuale su quello materiale. Concetto ovviamente sbagliato: anche per eseguire lavoro materiale occorre metterci testa! Gli skilled tedeschi ce ne mettevano molta di testa nel produrre le loro macchine utensili e non credo che «avessero meno testa» di quelli che oggi fanno il software dentro le imprese meccaniche o quelle informatiche.
Lo dico perché senza comprendere il processo di riorganizzazione produttiva dell’impresa è difficile fare un’ analisi di ciò che è avvenuto, nella terziarizzazione e nel suo gonfiamento.
Infine, ho ascoltato con molto interesse l’analisi sulla società dei consumi. lo, però, rimango legato ad un concetto novecentesco: il taylorismo non è solo un metodo di produzione, ma è anche una cultura, una struttura di società. E l’idea forte su cui costruire quel modello sociale era, ed è, che la produzione anche di beni ritenuti di lusso, come ad esempio era considerata un tempo l’automobile, potesse diventare produzione di beni di massa. Si trasformò il sistema produttivo abbandonando sostanzialmente la manifattura e rendendolo altamente gerarchizzato e sequenziale, facendo cosi in modo che un qualunque lavoratore della Ford potesse acquistare un’automobile Ford. In sintesi, che i prodotti potessero essere accessibili a chi lavorava.
Dalla produzione di massa, quindi, alla società di massa – e non viceversa – attraverso un’altissima e crescente produttività e una parziale redistribuzione di reddito che permetteva il consumo di massa.
In questo quadro, oggi, il problema che abbiamo davanti, non solo in Italia per lo meno in tutta Europa, è quello della definitiva svalorizzazione fino al nascondimento del lavoro operaio. Per affermare il valore della finanza e del capitale rispetto a qualunque altro elemento, sia esso macchinario o struttura produttiva, è indispensabile dare significato di assoluta marginalità al lavoro operaio. E allora lo si definisce – tutto il lavoro operaio, anche quello che un tempo si chiamava professionalizzato – come poco qualificato e, non a caso, tendenzialmente lo si riserva agli uomini e alle donne «marginali» nella scala sociale, fino ad arrivare agli extracomunitari. A me pare che questa nuova gerarchizzazione del lavoro tenga conto di una ideologia fortemente reazionaria e dispotica e, ritengo, non sia un caso che stia invadendo il complesso delle relazioni delle società occidentali.
Il tentativo di liquidare il sindacato, cosi come il tentativo di liquidare qualsiasi autonomia soggettiva dell’impresa, come qualsiasi forma di relazione contrattuale tra capitale e lavoro è la forma moderna di dequalificazione e segmentazione sociale; una forma moderna di autoritarismo basata sull’oscuramento del lavoro operaio, sulla sua segmentazione e ricollocazione dentro una nuova gerarchia sociale, una piramide castale. È molto di più dell’antiegualitarismo (del resto nel ‘900 non abbiamo mai vissuto di eguaglianza), è la creazione di una gerarchia altamente dispotica basata sul fatto che uomini e donne con la loro soggettività, che sono la base materiale della ricchezza (da noi come nel mondo povero), sono collocati alla base della piramide, privati di diritti, impediti a coalizzarsi, schiacciati, negati nella loro stessa esistenza. Ecco, mi pare che questa sia la questione del lavoro oggi in Italia, in Europa; ma forse, chissà, molto di più.
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