Patrizio Paolinelli: Il postfemminismo e il bisogno di una nuova società
Diffondiamo da Le Conquiste del lavoro 25 ottobre 2014 e dal blog di Patrizio Paolinelli del 4 novembre 2014. I fotomontaggi sono della fotografa femminista Barbara Kruger
La globalizzazione sta eliminando uno ad uno simboli, istituzioni e soggettività collettive che hanno caratterizzato il Novecento. E’ una civiltà in via di estinzione quella che tutti noi attraversiamo durante le nostre affannate giornate. Nell’attuale società i libri non sono più in grado di formare una coscienza collettiva, gli intellettuali vivono rifugiati nel privato tenendosi alla larga dai sogni di un mondo migliore e persino i cantautori impegnati sono rimasti quasi senza voce. Sul piano istituzionale la moria non è da meno: i partiti politici si stanno sempre più riducendo a comitati elettorali organizzati in funzione del leader di turno, la sfiducia nei poteri dello Stato è dilagante, la scuola pubblica annaspa nel suo inesorabile declino e il progressivo indebolimento dei sindacati è sotto gli occhi di tutti.
Se simboli, saperi e istituzioni del ‘900 agonizzano, sul piano collettivo vediamo ogni giorno passare i funerali di tre movimenti: quello operaio, quello studentesco e quello delle donne. Seguiamo quest’ultimo. E lo seguiamo perché l’emancipazione femminile è ancora oggetto del discorso pubblico: se ne discute nelle università, nei partiti politici, nelle aule parlamentari e sui mezzi di comunicazione. In altre parole, le istanze di liberazione e di uguaglianza dei movimenti femminili e femministi del secolo corso, pur con molte zone d’ombra, fanno ormai parte di un patrimonio culturale abbastanza condiviso. Ma il problema è che non corrispondono più a una domanda collettiva di trasformazione del mondo. Insomma, lo slogan “Donna, donna non smettere di lottare: è tutta la vita che deve cambiare” si è infranto sugli scogli delle compatibilità con l’attuale sistema sociale. Tanto è che, nonostante i progressi legislativi volti a eliminare le tante discriminazioni, stipendi e pensioni delle donne sono mediamente più bassi di quelli degli uomini, la violenza domestica resta un problema, il femminicidio riempie spesso le cronache dei giornali, compaiono nuove forme di molestia come lo stalking e sui media l’immagine della donna difficilmente può affrancarsi dall’apparire sexy e ammiccante.
Specchio di queste contraddizioni è il numero di luglio scorso della rivista: “Il corpo della donna tra libertà e sfruttamento”. Il volume parte con un lungo dialogo tra la regista cinematografica Roberta Torre e un’icona del porno qual è Rocco Siffredi. Segue un secondo dialogo tra la pornodiva del momento, Valentina Nappi, e la giornalista Maria Latella. Non stiamo a presentare gli altri interventi. Basti dire che delle 201 pagine che compongono l’intero numero della rivista ben 93 riguardano pornografia e prostituzione. L’atteggiamento è volto a sdoganarle da remore morali e in sostanza a normalizzarle all’interno della vita quotidiana, mentre in generale l’intero volume si occupa della sessualità femminile affrontata sotto diverse angolazioni: i tabù, le religioni, l’arte e così via. Per farla breve, il corpo della donna è osservato quasi esclusivamente sul piano del desiderio.
Praticamente scartati da un’attenta riflessione sono i corpi della donna che lavora al di fuori della prostituzione e delle produzioni hardcore, della donna che invecchia, della donna che si ammala, della donna in famiglia, della donna come intramontabile strumento del mercato delle immagini (pubblicità e industria culturale). Assenze che sorprendono per una rivista di orientamento progressista qual è MicroMega. Ma non basta: per trovare qualche traccia del tema dello sfruttamento – che compare nel titolo del periodico – bisogna faticare parecchio. E quando se ne parla ci si può imbattere in sorprendenti affermazioni. E’ il caso dell’oncologo Umberto Veronesi, il cui articolo più che sulla terapia è centrato su una personale concezione della donna così declinata: “Sfruttare il proprio corpo anche per fare carriera, o comunque mostrarlo sui media per sedurre – soprattutto quando si è giovani e belle – è del tutto normale […] Per cui non vedo contraddizione tra l’uso anche spregiudicato del proprio corpo ed emancipazione femminile”.
La concentrazione di MicroMega sull’eros, il suo immaginario e la sua rappresentazione costituisce la spia di una sorta di automatismo culturale che scatta non appena si parla del corpo delle donne. Direttamente o indirettamente il corpo a cui si pensa e di cui si discute è il corpo favoloso: giovane, bello, sensuale, mediaticamente appetibile. Un approccio così connaturato alla società dello spettacolo sarebbe stato aspramente criticato dalle femministe del passato. Ma siamo in un nuovo secolo e, sempre su MicroMega, la storica della cultura, Giuliana Sissa, sostiene che il femminismo di oggi manda in pensione le tirate esistenzial-marxiste di Simone de Beauvoir e la successiva critica alla mercificazione del corpo (quella che contestava i concorsi di bellezza e gettava il reggiseno in segno di rifiuto della donna-oggetto). E chi sono le esponenti di punta dell’attuale femminismo? Le militanti in topless del gruppo Femen. A parere di Sissa dal femminismo dei diritti di ieri le donne sono passate al femminismo del godimento di oggi. Come si caratterizza la nuova ondata? Niente più cortei arrabbiati contro il maschilismo. E’ l’ora delle nuove femministe. E’ l’ora delle Femen: “Impavide, provocanti, sexy, prendono in giro il mercato del matrimonio, le norme religiose, gli ostacoli all’autonomia. Corona di fiori in testa, seno nudo e slogan pitturati sulla pelle, queste giovani donne fanno irruzione in situazioni ufficiali e simboliche”.
Delle performance delle Femen, che per inciso sono quasi tutte giovani e con fisici da top model, la stampa italiana, si è occupata parecchio cucendo intorno al gruppo un’immagine decisamente positiva. Le Femen sono state seguite passo passo durante i loro tour in tutta Europa e, tra una contestazione e l’altra, la loro leader, Inna Shevchenko si è dichiarata disponibile a posare per Playboy. Cosa c’entra questo gruppo con i movimenti delle donne? Non molto. Tanto più che si sono rivelate un fenomeno poco chiaro. A iniziare dal fatto che dietro di loro c’è un maschio (Valeria Fraschetti, “Femen, se comanda un uomo: “Ho inventato io la protesta in topless”, la Repubblica 3 settembre 2013) per finire con l’inchiesta di Joele Corbeau da cui parrebbe che le Femen siano stipendiate da finanzieri internazionali e pedine di una complessa partita geopolitica orchestrata da alcuni think tank statunitensi.
La parabola delle Femen è indicativa di due processi sociali di vasta portata che caratterizzano la transizione dalla società di massa all’attuale società asociale. Primo, i movimenti femminili e femministi sono in piena eclissi e la riflessione delle donne sulla propria condizione è circoscritta nelle enclave dell’arte, della cultura, dell’università e nell’attivismo di tanto encomiabili quanto minoritarie associazioni. Secondo, la società dello spettacolo ha fatto proprio il bisogno di eguaglianza delle donne individualizzandolo e, di conseguenza, scollegandolo dalle rivendicazioni di un mondo più equo e più giusto per tutti. Un mondo ancora oggi teorizzato dalla femminista tedesca Heide Goettner-Abendroth, secondo la quale le società matriarcali del passato e quelle poche del presente ci insegnano a superare la realtà tardo-patriarcale di oggi perché si fondano sulla parità tra i generi e la collaborazione fra generazioni. Si tratta di società egualitarie basate su valori materni come la cura, il nutrimento e la pace. Un insieme di principi in netta controtendenza rispetto all’ideologia neoliberista oggi dominante. Un’ideologia la cui presa sull’universo femminile passa attraverso il monopolio dell’eros e dell’anticonformismo da parte delle più disparate industrie. Solo per citarne qualcuna, moda, musica pop e vacanze trasgressive sono comparti economici che pur partendo da un’istanza di liberazione del corpo e della sessualità non aspirano a una società socievole dove può concretizzarsi la libertà di tutti. Al massimo autorizzano a fare del proprio corpo un marchio inconfondibile per emergere dall’anonimato. Si tratta di una libertà vigilata sulla quale le persone non hanno alcun potere decisionale mentre assistono impotenti all’assedio di quel poco di Welfare state che c’è in Italia, alla crescita della disoccupazione, allo scardinamento dei diritti sociali. E tuttavia, grazie al martellamento mediatico, il corpo eroticamente teatralizzato assume una centralità assoluta nelle preoccupazioni della vita. La dedizione all’apparenza e all’apparire si trasforma così in un vero e proprio lavoro quotidiano. Lavoro che non costruisce una società di donne e uomini liberi, ma una società di consumatori in competizione uno con l’altro, uno contro l’altro. Ciò significa che c’è un’altra società da immaginare.
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