“Voi ridete di me perché sono diverso, io rido di voi perché siete tutti uguali” (proverbio yiddish)
C’è un momento, circa a metà del tie-break della partita in cui Italia e Cina si giocavano l’accesso alla finale nei recenti campionati mondiali femminili di pallavolo, in cui per Paola cambia tutto. Dopo un punto vinto, le sue compagne di squadra si abbracciano in tondo, lei fa per avvicinarsi ma non entra nel cerchio, rimane in disparte, il suo sguardo in quel momento se ne va altrove, verso un punto lontano che vede solo lei. E’ quello il momento in cui Paola capisce che tutto dipende da lei: solo lei può vincere o perdere questa partita, solo lei può portare queste ragazze a una finale mondiale. O riportarle a casa. Questa ragazzona veneta dalla pelle africana, poco più di una bambina, adesso lo sente tutto sulle sue spalle quel peso enorme. Adesso tocca a lei.
La pallavolo è un gioco di quadra, non si vince o perde mai da soli, tranne rarissime volte. E questa è una di quelle.
Sul tredici a dodici per l’Italia, Paola spara un ace lungo linea. Stringe i pugni rabbiosamente, guarda verso l’alto e urla. Quattordici a dodici. La vince lei. Due match point. Battuta fuori e con quella se ne va il primo, poi pipe dalla seconda linea fuori e se ne va il secondo. Quattordici pari. La perde lei. Le altre non fanno che cercarla, in campo e tra un colpo e l’altro per sostenerla. Ma lei adesso è sola, estranea. Estranea alle compagne, alle avversarie e anche a se stessa. Dall’altra parte della rete c’è la Zhu, di qualche anno più grande, una delle più forti giocatrici di sempre, forse l’unica di cui Paola cerca lo sguardo di tanto in tanto, l’unica che può capire quello che le passa dentro in questi momenti. Si riparte, Paola vola in alto, bellissima, piega le mani del muro cinese, quindici a quattordici, altro match point. La vince lei. Paola si alza, il coraggio o l’incoscienza non le mancano, rischia un diagonale impossibile. Fuori. Quindici pari. La perde lei. Poi Paola si rialza e torna a volare, più in alto di prima, di nuovo mani del muro. Sedici a quindici. Stavolta non esulta, lo sguardo fisso a terra aspettando il rumore della battuta della cinese per rialzarlo verso il campo. La palla, una cannonata, arriva su di lei. Bagher di Paola, palla a campanile, gliela ridanno e lei la mette di là, questa volta per sempre. E’ finita. L’ha vinta lei. Le altre urlano, corrono, piangono le si gettano tutte addosso, non la si vede là sotto, coperta da tutti quei corpi bianchi. Poi esce dal mucchio, non sa cosa fare, la baciano, ma lei non ricambia, è assente, si aggrappa al saluto a rete alle avversarie per sfuggire a tutto quel “troppo”.
In finale sappiamo com’è andata, hanno vinto le serbe e Paola stavolta ha pianto, l’ha fatto al telefono con l’Italia, consolata dalla sua fidanzata. Ha fatto scalpore sui giornali il modo con cui l’ha detto, così naturalmente, senza alcuna intenzione di incarnare chissà quale icona anti o pro qualcosa, ma solamente perché è naturale che una forte emozione si condivida con la persona che si ama. Chiamarlo outing è fuorviante. Non le interessa di essere un simbolo, né per la sua pelle nera né per il suo orientamento sessuale. Si ritiene una ragazza come tante. E lo è.
Paola è la diversità che si fa normalità, senza proclami o outing strombazzati su giornaletti gossippari e in quanto tale, sfugge a ogni tipo di strumentalizzazione.
Mi ha fatto tornare in mente una foto che diventò virale sui social qualche tempo fa. Ritraeva cinque ragazze camuffate da maschi sugli spalti dell’Azadi Stadium di Teheran. Erano lì per la partita decisiva del campionato, quella che avrebbe potuto assegnare lo scudetto alla loro squadra del cuore, il Persepolis. Erano lì ma non dovevano essere lì: rischiavano grosso, persino la galera. Dai tempi della rivoluzione, in Iran è proibito alle donne di assistere a eventi sportivi maschili. Quando qualcuno, tempo dopo, ha chiesto loro perché avessero corso questo rischio, la risposta era stata disarmante: siamo ultrà, dovevamo stare vicine alla nostra squadra in un momento così importante. Il loro gesto non partiva dal desiderio di compiere un’azione politica dimostrativa, ma da una semplice passione personale. Il messaggio per le autorità religiose che governano il paese fu devastante. E’ più semplice ingabbiare la diversità che la normalità.
Girando in autobus per Bologna, non di rado m’imbatto in gruppetti di ragazze che, tornando da scuola, chiacchierano del più e del meno tra di loro. Gli argomenti sono quelli tipici della loro età. Sono italiane, cinesi, arabe, africane, sono ragazze. Alcune portano minigonne cortissime, altre jeans strappati e magliette succinte, altre ancora hanno il fazzoletto in testa e la blusa fino a mezza gamba, ma lo smartphone che strapazzano tra le dita è lo stesso, stesso il linguaggio che adoperano per chiacchierare tra di loro, la differenza di abbigliamento è marginale, non se ne accorgono neppure di essere vestite in modo così discorde. Tra di loro non parlano di diseguaglianze, di differenze culturali più o meno incolmabili, di politiche migratorie, ma di Justin Bieber e di Sfera Ebbasta, di Cristiano Ronaldo e di quel “bonazzo” del compagno di classe “che me lo farei qui adesso” ecc. Tutte indistintamente.
Di nuovo, la diversità che si fa normalità e così facendo, si perdoni il gioco di parole, non è più normalizzabile.
Non ho mai creduto alla barzelletta che ci raccontiamo spesso noi adulti per auto assolvere la nostra incapacità di comprendere un mondo così complesso, cioè che queste generazioni siano portatrici soltanto di azioni e pensieri effimeri, tutt’altro. Le stesse ragazze che si surriscaldano disquisendo a fine scuola tra chi è più figo tra Ghali e il cantante dei Modà, le trovi poi a Libera, negli scout, nei centri sociali, nelle mille modalità aggregative presenti sul territorio. Non intendono la politica come noi l’abbiamo tradizionalmente intesa, divisi tra i diversi partiti, né noi finora siamo stati capaci di costruire un contenitore che tenga in considerazione e funga da riferimento per le loro istanze di cambiamento sociale, che le renda a pieno titolo parte di una comunità politica. E parte decisiva.
Ma chissà che non siano proprio queste ragazze, dopo tanto nostro sproloquiare di massimi sistemi, di Balibar e Wallertsein, di identità forti e deboli, a costruire una società migliore, oltre ogni discorso su razza nazione e classe, oltre ogni differenza di colore, censo o religione, oltre ogni “prima gli italiani” o altre boiate del genere. Alla faccia del Salvini di turno. E della nostra.