Luce Irigaray, una nuova cultura dell’energia
In occasione della pubblicazione del nuovo libro di Luce Irigaray, «Una nuova cultura dell’energia. Al di là di Oriente e Occidente», (Bollati Boringhieri, 2011), riproponiamo l’intervista alla psicoanalista belga realizzata da Patrizia Melluso e pubblicata su www.fuoricentroscampia.it il 6 settembre 2011.
Luce Irigaray, da molti anni, pratica lo yoga. Da questa esperienza la filosofa e psicoanalista parte per rispondere alla domanda: come far nascere una nuova cultura dell’energia? E come imparare a conservarla, coltivarla e trasformarla? Anche in quest’ultimo libro, Irigaray afferma la necessità dell’incontro tra culture differenti, tra Oriente e Occidente, per costruire una comunità umana mondiale capace di mantenere dentro di sé i due soggetti, il maschile e il femminile. Luce Irigaray è direttrice di ricerca filosofica presso il Centre national de la recherche scientifique di Parigi. È filosofa, psicoanalista e linguista. Ha fondato il pensiero della differenza sessuale ed ha sviluppato, soprattutto nei suoi primi testi, la critica di una cultura a soggetto unico e la ricerca di mediazioni per la costruzione di un’identità femminile autonoma. Centrale nel suo percorso è il ripensamento del linguaggio e lo svelamento del suo carattere falsamente neutro. Negli ultimi anni, Irigaray ha sempre di più approfondito il tema di come convivere, rispettando le differenze, nei nostri tempi multiculturali a partire dall’assunto che proprio la differenza sessuale sia il paradigma di tutte le differenze. Oltre i propri confini (2007), La via dell’amore (2008) e Condividere il mondo (2009), Il silenzio di Maria (2010) sono le opere in cui questo tema è stato maggiormente approfondito.
D. In Oltre i propri confini lei aveva sostenuto che occorre, per noi occidentali, travalicare i nostri confini nazionali, culturali, linguistici per costruire un mondo nuovo che tenga conto delle differenze fra tutte e tutti. Un suo libro precedente era intitolato Tra Oriente e Occidente. Dalla singolarità alla comunità. Il suo ultimo libro, dedicato alla necessità di una nuova cultura dell’energia per generare una nuova umanità, ha come sottotitolo: Al di là di Oriente e Occidente. Si potrebbe dire che oggi non basta oltrepassare i propri confini e porsi “tra” la cultura orientale e quella occidentale, ma che si debba andare “al di là” di entrambe, nel senso di superarle, per realizzare la nostra umanità?
R. Si tratta anzitutto di non contrapporre l’una rispetto all’altra, ma di percepire la parte di umanità che ciascuna incarna e di cercare, in questo modo, di proseguire il divenire dell’umanità prima in noi stessi(e). “Al di là” significa, quindi, non trattenersi solo alle differenze fra le culture, non considerare queste differenze come assolute e immutabili, ma come la manifestazione di una tappa nell’evoluzione dell’umanità che dobbiamo accogliere, rispettare e di cui farci carico per andare oltre la tappa che abbiamo già raggiunta.
D. In questo libro, lei avanza alcune critiche al modo in cui lo yoga è insegnato e praticato in Occidente, soprattutto perché non è valorizzata la differenza dei sessi. Ad un certo punto, poi, dice che una pratica regolare dello yoga per le donne può risolvere alcuni problemi creati alla soggettività femminile dalla tradizione. A che cosa si riferisce?
R. È vero che troppo spesso lo yoga è insegnato come una tecnica da imparare per esercitare un mestiere, o è usato come terapia per curare qualche male, al meglio come pratica per migliorare la salute. Ovviamente tutto questo è valido. Ma togliere lo yoga dal suo contesto culturale pone problema e rischia di renderci schiavi di una pratica di cui non capiamo il senso. Lo yoga può allora trasformarci in robots molto performanti che contribuiscono ancora più a una cultura consumistica e alla distruzione del nostro pianeta e di valori legati alla natura, una cosa realmente opposta alla sua tradizione. La tradizione a cui appartiene lo yoga è molto rispettosa della vita naturale che essa si sforza di preservare e coltivare. Questo accade soprattutto attraverso una coltivazione del respiro che consente di conquistare una propria autonomia non solo al livello vitale ma anche al livello culturale e sociale. Questo può, quindi, aiutare le donne a emanciparsi da una tradizione che ha imposto a loro ruoli e valori estranei alla loro identità e a recuperare la loro energia per cercare di scoprire e elaborare una cultura maggiormente appropriata. Sfortunatamente lo yoga è spesso trasmesso come una pratica e una cultura neutre e se ci sono insegnamenti adatti per le donne incinte, si parla poco di differenza sessuata nel modo di praticare. In questa tradizione rispettosa della vita, il neutro ha acquistato un valore troppo privilegiato. Però ho sentito ricordare da Krishnamacharia – il maestro e fondatore della scuola in cui pratico – l’importanza della differenza tra i sessi.
D. Molte volte lei è tornata sul fatto che la differenza tra i sessi non deve essere intesa come un destino biologico, come una semplice appartenenza naturale, ma sia piuttosto una differenza nell’identità relazionale, cosa rivelata molto bene dal linguaggio. Qual è la differenza tra la donna e l’uomo nell’energia? Sono due energie differenti o cambia soltanto il modo di coltivarla?
R. La differenza fra identità relazionali è già, almeno in parte, legata alla biologia – termine che ha un significato più ampio di “anatomia” a proposito di cui si è parlato di “destino”. Per esempio, non si può negare che la differenza fra i sessi dipende da una differenziazione ormonale, che d’altronde è sottoposta a variazioni. Non si può neanche negare che la morfologia del corpo interviene nell’identità relazionale. Ovviamente questa identità non può limitarsi a un livello biologico ricevuto per nascita, deve essere coltivata. Secondo la coltivazione o non coltivazione della sua identità relazionale, l’energia di una donna cresce o rimane atrofizzata o paralizzata da una cultura che non le conviene. Non si nasce una donna compiuta, si deve anche divenire una donna grazie a una coltivazione dei propri potenziali, fra l’altro energetici. Non credo che questi potenziali siano neutri, sono sessuati. E questa sessuazione dell’energia è uno dei motivi dell’attrazione fra i sessi.
D. Si parla molto del corpo, anzitutto fra donne. Nel suo libro Una nuova cultura dell’energia, dà indicazioni per una coltivazione del corpo. Può sviluppare un po’ questo argomento?
R. Nella nostra tradizione si suppone che il corpo debba essere sottoposto alla mente, e l’educazione rispetto al corpo è soprattutto repressiva. La cosa è ovvia per quanto concerne l’energia. Al posto di coltivarla per renderla più relazionale, l’energia è accumulata attraverso la prestazione e la competizione per essere poi scaricata nello sport e una maniera realmente poco relazionale di fare l’amore. Infatti il corpo dovrebbe essere educato per diventare una mediazione fra di noi. E ciò richiede che l’energia vitale sia trasformata in un’energia al servizio dello scambio fra di noi.
A questo scopo, le nostre percezioni sensibili dovrebbero essere coltivate piuttosto che abolite da un discorso generico astratto o una morale disincarnata. Dovremmo imparare a guardare un altro essere vivente non per ridurlo a un oggetto ma per contemplarlo, anche nella sua invisibilità. Un simile gesto trasforma i nostri istinti di dominazione o di possessione in un’energia relazionale spirituale.
La cosa è vera per tutti i sensi, in particolare per il tatto che, nella nostra cultura, serve più ad appropriarci dell’altro che a manifestare il nostro amore e condividerlo. Coltivare le nostre percezioni sensibili è un modo di educare l’immediatezza del desiderio verso un’energia amorosa che si nutre nella condivisione con l’altro invece di scaricarci.
D. Nel suo libro c’è una parte dedicata al confronto tra il primo insegnamento dello yoga, che è “non nuocere”, e il comandamento dell’amore, fondamentale nella tradizione cristiana. La differenza tra il non nuocere e l’amare è una differenza tra una “via negativa” e una “via positiva”?
R. Io non userei questi termini. In realtà, “non nuocere” è un gesto positivo che si sforza di tenere conto dell’altro, talvolta più di “amare”. Se amare si riduce a un atteggiamento solo istintivo o immediato non tiene conto dell’altro. E’ lo stesso se corrisponde a un semplice comandamento religioso. Noi, Occidentali, pensiamo spesso che amare basti senza chiederci se il nostro amore non nuoce all’altro perché non rispetta la sua differenza: di sesso, di generazione, di tradizione. Prima di poter realmente amare, dobbiamo interrogarci sull’altro in quanto altro e educare i nostri sentimenti con questo scopo. Viviamo in una tradizione che privilegia l’amore ma difettiamo ancora di una cultura appropriata per potere amare. Uno dei punti cruciali del mio lavoro è aprire delle vie per rendere possibile l’amore nel rispetto della(e) differenza(e). Una simile coltivazione dell’amore è indispensabile nella nostra epoca in cui non possiamo fermarci ad essere figli(e) di una stessa famiglia naturale o culturale. Ci confrontiamo oggi con persone che non condividono né la nostra razza, né i nostri valori: amarle necessita più che mai il non nuocere. Non nuocere dovrebbe anche contribuire a una coltivazione del desiderio in vista di riuscire a condividerne l’energia e, così, accrescerla invece di scaricarla.
D. Lei scrive che la cultura dell’Oriente privilegia il silenzio mentre la cultura dell’Occidente privilegia la parola. Come unire queste due tradizioni?
R. Per un Buddha, la fine del cammino è giungere al silenzio, per un Hegel invece si tratta di raccogliere in sé la totalità dei discorsi. La nostra tradizione religiosa favorisce anche la parola a scapito del silenzio. Dobbiamo cercare di unire in noi stessi(e) le qualità delle due tradizioni. Spesso quando alludo al valore del silenzio, le donne mi obiettano che sono state costrette a tacere per secoli. Ovviamente non alludo a questa sorta di silenzio, ma al silenzio che corrisponde al raccogliersi per ritrovare se stessi(e) e anche scoprire il senso da dare alle parole, quelle che ascoltiamo e quelle che diciamo. Un simile silenzio non equivale a una privazione di parola ma a una maniera di custodire la propria integrità. E’ anche necessario per incontrare l’altro differente da noi. E’ il primo gesto di ospitalità che offriamo all’altro per accoglierlo nella sua differenza.
D. Lei dice nel suo libro che ci preoccupiamo per il futuro della terra e l’esaurimento delle risorse naturali trascurando la risorsa naturale principale per gli umani, cioè l’energia. Può spiegare che cosa intende?
R. Dico che oggi “molti discorsi politici ed economici alludono all’esaurimento delle risorse naturali. Purtroppo non si parla quasi mai delle riserve naturali dell’essere umano stesso. Sarebbe auspicabile preoccuparsi prima di queste – soprattutto per quanto riguarda l’ambiente, l’alimentazione e la differenza fra i sessi -, al fine di costruire un futuro possibile per l’umanità, un futuro che sia insieme più attento alla dignità umana, più giusto, più pacifico e più felice.” (Una nuova cultura dell’energia, p. 113) Infatti, l’uomo occidentale ha cercato di emanciparsi dal mondo materno attraverso una dominazione della natura. Non ha coltivato la sua energia naturale né quella legata alla sua relazione con l’altra, la donna, e prima la sua madre. Si è cosi privato di un’importante fonte di energia. Il risultato è che questa energia perturba l’ordine stabilito a causa di istinti e passioni non educati, ma anche che le nostre riserve di energia vitale si stanno esaurendo. La specie umana è tanto in pericolo quanto il pianeta e altre specie viventi!
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