Luce Irigaray: «Il mistero di Maria»
In occasione della pubblicazione del libro di Luce Irigaray «Il mistero di Maria» (Edizioni Paoline, 2010), riproponiamo l’intervista realizzata da Patrizia Melluso e pubblicata l’1 settembre 2010 su www.fuoricentroscampia.it
NOTA INTRODUTTIVA DI PATRIZIA MELLUSO
Luce Irigaray vive in Francia, a Parigi. È filosofa, psicoanalista e linguista. Ha fondato il pensiero della differenza sessuale, il suo lavoro ha influenzato i movimenti femministi dell’Europa continentale (Francia, Italia) e, da qualche tempo, anche il mondo anglosassone.
Le sue opere sono dedicate, in una prima fase, alla critica di una cultura a soggetto unico e alla definizione di mediazioni per la costruzione di un’identità femminile autonoma.
In questo percorso centrale è il ripensamento del linguaggio e lo svelamento del suo carattere falsamente neutro. A questo periodo appartiene (citiamo solo le opere principali, pubblicate in Italia) Speculum, l’altra donna, del 1975. Speculum segna la rottura con Lacan – e la conseguente perdita dell’incarico di insegnante presso l’università di Vincennes – ed è una critica radicale all’intera tradizione filosofica occidentale, da Platone a Hegel, a Freud.
Seguono Questo sesso che non è un sesso (1978), Etica della differenza sessuale (1985), Sessi e genalogie (1987), Parlare non è mai neutro (1991). La ricerca di un cammino per la convivenza a due, tra uomini e donne, è il tema di Io tu noi. Per una cultura della differenza (1992), Amo a te (1993), Essere due (1994), La democrazia comincia a due (1994).
Negli ultimi anni, Irigaray ha sempre di più approfondito il tema di come convivere, rispettando le differenze, nei nostri tempi multiculturali a partire dall’assunto che proprio la differenza sessuale sia il paradigma di tutte le differenze. Oltre i propri confini (2007), La via dell’amore (2008) e Condividere il mondo (2009) sono le opere in cui questo tema viene maggiormente approfondito.
Il mistero di Maria è l’ultima sua produzione. È un piccolo libro che rivoluziona il modo di pensare la figura della madre di Gesù nella tradizione cristiana. Il silenzio di Maria, la verginità e il respiro, il suo essere ponte tra passato presente e futuro e tra diverse tradizioni culturali e spirituali sono gli elementi di questa riflessione su Maria che, indipendentemente dalla dimensione religiosa, apre la possibilità di una dimensione spirituale autonoma per le donne. Un piccolo libro che, dice Irigaray, può portare aiuto a molte donne nel loro percorso.
INTERVISTA A LUCE IRIGARAY
D. Il suo libro, il Mistero di Maria, si apre con la constatazione che nella tradizione cristiana questa figura è stata tenuta ai margini, soprattutto dalla teologia, mentre nel popolo dei fedeli è molto importante. Per quale motivo?
R. Ho scritto che la figura di Maria non è certo centrale per la teologia e nei rituali cristiani mentre lo è per il fervore popolare e per gli artisti, che restano fedeli a Maria anche quando abbandonano i testi e i culti più ufficiali. Penso che il discorso teologico si è allontanato dal mistero cristiano relativo all’incarnazione divina e si è dimenticato del ruolo decisivo di una donna per questo avvento. La logica che ispira la teologia cristiana è diventata sempre più una logica metafisica al maschile che si è sviluppata a scapito dell’importanza della carne, anzitutto di una carne femminile, per la nostra redenzione.
D. Le teologhe femministe, prima di altri, hanno riletto, anche filologicamente, il racconto della Genesi: la creazione di Dio è contemporaneamente creazione dell’uomo e della donna e non, come tradizionalmente si crede, creazione della donna dalla costola dell’uomo. Non basta questa lettura a ribaltare la visione di una sottomissione/svalutazione dell’identità femminile rispetto a quella maschile? Perché è importante, per dare valore all’identità femminile, ripensare la figura di Maria?
R. Le teologhe che cita si fermano al racconto della Genesi, un racconto che tocca soltanto alla tappa della creazione del mondo e del peccato dell’umanità rispetto alla divinità. Molte altre teologhe si sono interessate al tempo della redenzione, che corrisponde all’epoca del cristianesimo in cui viviamo ancora. Si sono interessate alle donne della Bibbia, alle mistiche e, perfino, anche se troppo poco e in un modo troppo critico, alla figura di Maria che inaugura l’era cristiana. La cosa più innovativa del mio lavoro è che propongo un’interpretazione realmente inconsueta di questa figura, anzitutto della verginità di Maria. La lego a una verginità del respiro che consente a Maria un’autonomia spirituale, un “legame al divino indipendentemente dal suo popolo, dalla sua genealogia, dall’uomo con cui è fidanzata, e perfino dal suo futuro bambino”.
D. Abbiamo sempre pensato, noi femministe, che la verginità di Maria avesse la funzione di evitare che la generazione del divino (l’incarnazione) avesse qualcosa a che fare con il corpo e con la sessualità. Infatti, le religioni occidentali hanno sempre svalutato il corpo e la sessualità, a differenza delle religioni orientali che le considerano “vie” per giungere alla spiritualità. Sul piano simbolico, perché è da rivalutare la verginità di Maria?
R. Non so a che cosa si riferisce il suo “noi femministe” che sembra in contrasto con la mia posizione nel Mistero di Maria. L’interpretazione della verginità di Maria a cui allude è quella della teologia più tradizionale che separa corpo e spirito, come lo fa generalmente la filosofia occidentale. Per me, l’incarnazione divina significa la riconciliazione tra corpo e spirito, fra corpo e parola. La verginità del respiro di Maria, del soffio di Maria, è ciò che permette questo avvenimento. Maria è quella che ridà il suo senso alla parola grazie a un’alleanza con una carne animata da un soffio non soltanto vitale ma spirituale. Una pratica quotidiana dello Yoga e l’avvicinamento a questa tradizione mi ha condotta a percepire in questo modo la verginità di Maria. La mia interpretazione mi pare più appropriata all’incarnazione del divino nell’umanità e affida alla donna un compito spirituale attivo nella nostra redenzione.
D. Lei stessa, ricapitolando le tappe del suo lavoro, ne ha individuate tre: prima la critica di una cultura a soggetto unico, la seconda, la definizione di mediazioni per la costruzione di un’identità femminile autonoma, la terza, la ricerca di un cammino per la convivenza a due, tra uomini e donne. Negli ultimi anni, infine, i suoi libri hanno sempre di più approfondito il tema di come convivere, rispettando le differenze, nei nostri tempi multiculturali. A quale di queste tre tappe la lettura del Mistero di Maria è più funzionale?
R. Si rapporta alle quattro tappe a cui lei si riferisce. Insisto sul fatto che la redenzione dell’umanità non può essere il compito dell’uomo solo né di una genealogia solo al maschile. Indico la via che una donna può prendere verso la conquista della propria autonomia, specialmente di un’autonomia spirituale. Spiego come una cultura del respiro permette alla donna di condividere con l’altro genere senza rinunciare a se stessa e insisto sul fatto che il ruolo di Maria non si limita ad essere madre di un figlio ma consiste anzitutto nell’essere una donna fedele a se stessa e che si cura della propria divinizzazione. Infine, spiego come una figura quale quella di Maria rappresenta o prefigura quella di una “donna capace di essere un ponte fra passato, presente e futuro, e un ponte fra tutte le culture del mondo grazie alla sua verginità spirituale, cioè alla salvaguardia di un respiro e di un soffio viventi, irriducibili a qualunque persona e qualunque cosa.”
D. Nel suo libro, la similitudine tra Maria e la dea indiana Parvati apre la strada ad una critica di relativismo culturale. Non teme che il mondo cristiano le possa rimproverare questa impostazione?
R. Se avessi temuto la critica, non avrei mai scritto nulla, e, per primo, non Speculum. Aprire un cammino nuovo verso la verità espone sempre alla critica, al rigetto, alla condanna. Quanti pensatori o profeti sono stati uccisi, corporalmente o spiritualmente, per aver rivelato una parte di verità ancora velata? Il lavoro di un pensatore non è di ripetere in modo un po’ cieco cose già sapute, piuttosto è di aprire la strada verso un futuro ancora da scoprire, da compiere, da condividere. Per quanto concerne la mia interpretazione della figura di Maria, penso che, anche se nuova, essa sia più fedele alla tradizione cristiana di un’interpretazione che misconosce il ruolo decisivo per l’umanità dell’incarnazione divina e l’importanza della donna in questo avvento. Un altro punto: costruire ponti fra le tradizioni è uno dei compiti dei nostri tempi. Lo dobbiamo fare per proseguire il nostro divenire spirituale invece di farci la guerra in nome di Dio. I miei suggerimenti sono tutt’altro che un relativismo perché cercano piuttosto di scoprire dimensioni universali dell’aspirazione religiosa per l’umanità.
D. Lei sostiene che il silenzio di Maria, che la Chiesa interpreta come sottomissione alla parola, maschile, quella di Dio, in realtà è ciò che “ci può lasciare libere di inventare un futuro a modo nostro.” Ce lo può spiegare?
R. Nel piccolo libro Il mistero di Maria c’è un capitolo sul silenzio. Tento di chiarirvi il valore differente del silenzio secondo le culture. Se la nostra tradizione occidentale più valorizza la parola, non è il caso per certe tradizioni orientali. Un Budda, per esempio, cerca di avvicinarsi al silenzio e non di acquistare parole. Il silenzio di Maria testimonia la sua appartenenza a una tradizione meno patriarcale della nostra, in cui la parola non ha ancora soppiantato la vita, in particolare quella della carne. Il silenzio di Maria “può significare un mezzo di preservare l’intimità con sé” di non perdersi in parole “segnatamente in un discorso che non è il proprio”. Il silenzio di Maria evoca per me il ritoccare delle due labbra che assicura alla donna una percezione di sé, un tornare o un dimorare in sé per preservare sia un essere presente sia la possibilità di un futuro non ancora accaduto, un futuro che avverrà al di là delle cose già apparse o dette. Senza il silenzio di Maria, la venuta al mondo, alla luce, di un nuovo legame tra corpo e parola, fra umanità e divinità, non sarebbe stata possibile. Più in generale, le nostre parole non possono realmente esprimere un senso che è nostro senza essere radicate in un silenzio, che non è privazione di parole ma percezione indicibile della vita, della carne, e perfino del desiderio e dell’amore da dove nascono le parole.
D. La Chiesa cattolica continua a rifiutare l’idea del sacerdozio per le donne. Secondo lei, che cosa cambierebbe nel modo di essere della Chiesa se le donne potessero essere sacerdoti? Oltre al suo significato simbolico, una apertura del genere cambierebbe realmente il modo di essere della Chiesa cattolica?
R. Perché privilegiare un sacerdozio al maschile rispetto a un sacerdozio al femminile? Troppo spesso le donne vogliono appropriarsi di valori maschili, perfino dei valori più patriarcali, invece di promuovere i valori femminili che la nostra tradizione ha svalutati. Il sacerdozio delle donne è forse di un’altra natura. Verginizzare il suo respiro per potere condividere con l’altro nell’amore e nella maternità senza rinunciare al proprio cammino verso il divino non sarebbe un sacerdozio? Un sacerdozio che è di prima importanza per la divinizzazione dell’umanità, anche se questo compito rimane più intimo e invisibile? Non sarebbe intimo e invisibile l’avvento del divino stesso? Perché invidiare il sacerdozio più sociale dell’uomo allorché il cammino delle donne verso il divino è più interiore, più sottile, più profetico anche, tale che può prefigurare la possibilità di tempi nuovi in cui il toccare, l’invisibile, il mistero, la condivisione amorosa potrebbero superare la supremazia del vedere, del visibile, della mente e della necessità del sacrificio che ne risulta come via per tornare a un essere più globale?
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