Lidia Campagnano: Perchè leggere il libro “Irriverenti e libere. Femminismi nel nuovo millennio”

| 4 Aprile 2014 | Comments (0)

 

 

 

Diffondiamo da Comune-info.net questo invito alla lettura di Lidia Campagnano del libro di Barbara Bonomi Romagnoli: Irriverenti e libere. Femminismi nel nuovo millennio (Editori Internazionali Riuniti, Roma)

 

Nei giorni in cui questo libro era in bozze, Ornella Vanoni pubblicizzava un suo tour dal titolo Un filo di trucco, un filo di tacco e aggiungeva: forse anche un filo di perle. Era lo stile raccomandato da certe madri alle figlie negli anni del boom economico, è stata l’icona fatta a pezzi dal Sessantotto e poi dal femminismo. Che l’abbigliamento non sia mai solo questione di abbigliamento lo si è capito da tempo, o da sempre. Quello stile era una collocazione sociale precisa, un ruolo sessuale rigido e un richiamo erotico che negava se stesso mentre invitava ogni eventuale partner a farsi marito o a sparire. Ma oggi raccomandano qualcosa, le madri, alle figlie che escono? E se sì, che cosa?

La risposta richiederebbe una seria inchiesta, ma è dubbio che le madri abbiano, oggi, molto da dire sull’argomento, sullo stile, sul femminile raccomandabile: o forse le madri sufficientemente buone sono anche incerte. E con ciò si afferma già quanto sia problematico, se non inutile, ricostruire ideali genealogie femministe (meno che mai a partire da quelle propriamente familiari). Potremmo scoprire che non esiste nessuna genealogia, o che la genealogia è un retaggio culturale perduto e forse per questo, a volte, enfatizzato. Meglio guardare, lasciarsi stupire, farsi colpire dal disordine, dalla contraddittorietà, dallo spezzatino culturale che alimenta le parole e gli atti delle donne raccontate da Barbara Bonomi Romagnoli con affettuosa partecipazione e pochi giudizi. Perché quel disordine, quello spezzatino forse parla di una sopravvivenza-resistenza come controcanto all’epoca minacciata dal pensiero unico – ammesso che ancora si possa parlare di pensiero.

E se, da un lato, le loro parole spiegano e indicano l’enormità di un dissesto sociale, morale, politico, dall’altro incarnano la tenacia con la quale una parte di umanità, sempre, insiste nel volersi cercare, nel volersi plasmare, nel voler scegliere lo stile di vita in libertà, pensandolo, contro venti e maree. Una parte dell’umanità che da qualche decennio è soprattutto composta di donne.

Il cui continuo mettersi in movimento ci avverte che la questione delle relazioni sessuali e sentimentali, la questione dei rapporti tra gli uomini e le donne, la questione della vita personale e interpersonale come ambito di scelte e di valori socialmente e politicamente importanti, non si è mai più richiusa. Questione cruciale, dato che tratta nientemeno che della convivenza umana dalle sue radici, e però questione abbandonata o sciattamente e marginalmente trattata dalla politica, con esiti, voluti o meno, inquietanti: le religioni riprendono spazi, diciamo così, di potere temporale riempiendo il vuoto con la propria legge morale, mentre il senso comune pare indulgere a una posizione bene esemplificata da un recente spot pubblicitario nel quale una donna si chiede fuggevolmente che cosa ci sia nell’Universo, ma subito ci comunica che le grandi domande oggi sono mutate, e piuttosto vale la pena di chiedersi perché pagare quando si preleva denaro col bancomat.

Non così intendono ridursi le donne in movimento del nuovo secolo che invece sembrano aver raccolto l’eredità di una pretesa, quella di cambiare nientemeno che la vita di tutte e tutti “a partire da sé”. Non certo nel senso della creazione della “donna nuova” o dell’“uomo nuovo”, come recitava la tradizione rivoluzionaria che ha sempre voluto adeguare, o almeno armonizzare, la singola o il singolo a un nuovo orizzonte collettivo di valori. Nemmeno i gruppi più contrassegnati da un rifiuto globale del sistema socioeconomico do­minante sono orientati in questo senso. Al contrario: c’è una parola che ricorre un po’ ovunque, ed è la parola desiderio, come a dire che niente, nemmeno la più severa percezione del disastro neoliberista può indurre a metter da parte la libera sperimentazione di sé, o del proprio gruppo amicale-politico, in stili, comportamenti, linguaggi alternativi, critici, beffardi, massimamente diversificati. La libertà è l’arma che respinge l’eventuale imposizione di vecchi e nuovi ruoli sociali e di icone dell’adattamento personale. Ma è anche un tentativo di strappare una qualche possibilità di progettarsi in un mondo che sembra chiedere soltanto infinita flessibilità e infinita precarietà. Un mondo che ha fatto il deserto dove abitavano diritti, cioè umane certezze.

E qui si intravede, tra le brume di una perdita di memoria collettiva crescente nella nostra società, il tratto di corso storico che sembra aver molto contribuito alla fisionomia di queste generazioni femminili. Molte di queste donne hanno vissuto all’interno di gruppi di protesta e di lotta, come si suol dire, misti: contro le guerre, contro il razzismo e lo sfruttamento delle persone immigrate, contro la globalizzazione liberista. E per la verità ne hanno costituito la parte più attiva. Hanno dunque patito anche le sconfitte, e i traumi, uno dei quali per più versi irreparabile: a Genova nel luglio del 2001, quando le forze dell’ordine si scatenarono in un interminabile orrore sui cui esiti, specie sui ragazzini e le ragazzine di allora, non si mediterà mai abbastanza. In ogni caso hanno visto – e lo dicono – la decadenza di una parte politica, la sinistra, i cui valori fondativi di eguaglianza e giustizia sociale, promozione umana e culturale, sono stati profondamente sentiti, rielaborati e fatti propri.

È lecito interrogarsi sulle conseguenze di questo vissuto nelle scelte politiche e personali, e, per la verità, non solo per quanto riguarda le donne in questione: è lecito, ma non è facile. Perché non esistono spazi pubblici sufficienti né stimoli, provocazioni, domande collettive sufficientemente durature da incoraggiare questa riflessione che è politica, nel senso che pretende di proiettare davvero l’esperienza personale e singolare su un orizzonte molto vasto, tanto passato quanto futuro. Come si vedrà leggendo le pagine che seguono, qualche tentativo in questo senso lo si fa, e lo si fa prevalentemente tra donne o per loro iniziativa. Ma tutto ciò che si tenta è frutto di aggregati piccoli e volatili, la quantità di “scioglimenti”, alla fine di un’impresa a volte anche notevole, come una grande manifestazione, o dopo una performance culturalmente rilevante e innovativa, non si contano. E portano tutti il segno della prudenza: mai (o quasi mai) contare su un associarsi politico permanente, più capace di accumulazione, stratificazione e diffusione. Anche un’assemblea è rischiosa in questo senso.

Per ora. Perché stiamo parlando di un quadro in continuo mutamento ed è difficile resistere alla tentazione di evocare gli scavi della famosa vecchia talpa, traducendola nell’immagine di una miriade di giovani talpe. Le quali a volte inforcano gli occhiali e si dedicano alla documentazione di ciò che fanno, di ciò che avviene, di ciò che passa sull’orizzonte. Così che le esperienze non vadano perdute, che servano da bagaglio, leggero quanto si voglia, per transitare in un’epoca più promettente. Ed è il caso di questo libro e del suo messaggio pronunciato con voce gentile, questo messaggio: che occorre rispetto per capire la realtà, che il rispetto è una qualità culturale fondamentale per la ricerca, che il rispetto oggi è rivoluzionario.

Il libro Irriverenti e libere. Femminismi nel nuovo millennio (Editori Internazionali Riuniti) è arrivato nelle librerie in questi primi giorni di aprile. Il 16 aprile sarà presentato in un incontro promosso alla Casa Internazionale delle Donne di Roma (via della Lungara 19, ore 18,30).

 

Barbara Bonomi Romagnoli, giornalista e apicoltrice, si interessa da molti anni di studi di genere e femminismi e collabora con Comune-info (questa la sua adesione a Ribellarsi facendo: Insieme a milioni di api)

 

Category: Donne, lavoro, femminismi, Libri e librerie

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