Anita e le altre: riflessioni sul Risorgimento
A proposito del libro di Isabella Fabbri e Patrizia Zani, Anita e le altre, Edizioni La linea, Bologna, 2011
Avvicinandosi la conclusione del Centocinquantenario dell’Unità d’Italia si può cominciare a discutere di bilanci. Credo non sia un esercizio superfluo o solo accademico: cosa si pensa del passato, per di più un passato così simbolico come la nascita di una nazione, è infatti sempre indice rivelatore di risvolti non evidenti del modo in cui si sta nel presente.
Senza avere condotto una perlustrazione sistematica di tutte le diffuse e partecipate occasioni celebrative, mi pare comunque che si confermi un dato prevedibile: che a prescindere da parecchie polemiche capziose, ma anche da qualche illuminante eccezione, ci si è per lo più limitati a riprendere e aggiornare la più tradizionale modalità rievocativa del Risorgimento. Quella, consolidatasi sotto i Savoia, specie in occasione del Cinquantenario, e mai profondamente rivista in età repubblicana (malgrado le versioni classiste che vi si sono sovrapposte) e che ha, ad esempio, una delle sue icone preferite nel quartetto fatto da Vittorio Emanuele, Cavour, Garibaldi e Mazzini. Un abbraccio generale e riconciliatore, dunque, tra personaggi che in vita si sono letteralmente voluti reciprocamente morti. Il loro ricongiungersi postumo pare in effetti la necessità inderogabile per una memoria condivisa degli italiani quanto alle loro origini comuni.
C’è però un prezzo subito evidente a questa indiscriminata glorificazione di tutti i protagonisti, nel bene e nel male, del Risorgimento: il fatto che l’indistinta apologia di tutti i suoi eroi condanna ogni rievocazione di questo periodo alla retorica più insulsa e noiosa. Come sorvolare infatti su dettagli quali quelli che Mazzini tramava per attentati clamorosi contro il re savoiardo o che questi arrivò prendere a cannonate lo stesso Garibaldi, come prescindere da tutte simili laceranti contraddizioni, senza innalzare il tema sulle sacre origini della patria tra le più elevate nuvole della vacuità? Come non arrivare così fare quel che lo psicanalista Lacan chiamava “discorsi senza parole”? Si sa che questa è la materia in cui eccellono i professionisti della politica e anche a volte anche quelli della storiografia. E anche quest’anno se ne è avuta più che una conferma.
Ad agevolare questo compito è intervenuta più che mai pesante una retorica eguale e contraria, e di più sdoppiata. Da Nord e da Sud si sono infatti levati i soliti piagnistei, da un lato, sull’avere dato troppo, dall’altro, di aver ricevuto troppo poco dalla benedetta o meglio maledetta Unità d’Italia. Il tutto alimentato da quel culto delle vittime e dei perdenti che, non solo in Italia, da qualche tempo trionfa, col benestare dei grandi vincenti di oggi. In un’epoca post-ideologica come l’attuale, i poteri forti si nascondono infatti dietro l’anonimato di riservatissimi consigli d’amministrazione, come quelli della Apple, ad esempio, che – notizia de «Il Sole 24 ore» – è dotata di una liquidità superiore nientemeno a quella degli Stati Uniti! Cosicché simili lobby, tanto discrete, quanto strapotenti signore della comunicazione globale, hanno tutto il vantaggio a far dubitare della legittimità di ogni conclamato vincente di altri tempi. Ecco allora che, da noi, leghisti settentrionali si sono ritrovati con i loro emuli meridionali a partecipare del tanto oggi accreditato ruolo delle vittime, cogliendo l’occasione di questo Centocinquantenario per rincarare l’accusa all’Unità nazionale di essere fonte più di torti, che di riscatto.
Ed ecco allora, contro il diffuso serpeggiare di simili denuncie, l’ergersi ovunque di tricolori, il ritorno di discorsi patri che da tempo suonavano vuoti e che solo le polemiche secessioniste hanno riempito di un effimero siero ringiovanente. Quanto è bastato comunque a far passare sotto silenzio un Centenario ben più crudamente celebrato: quello del 1911 e delle infamie compiute a suo tempo in Libia, inaspettatamente riattualizzate proprio in quest’anno. Con la triplice aggravante di trattare come carta straccia accordi di non aggressione appena presi con questo stesso paese, di compiere il peggiore oltraggio, da quando esiste, alla stessa carta costituzionale del 1946 e infine di contrariare addirittura i propri stessi interessi geopolitici.
Ma come si diceva più sopra, non sono comunque mancate eccezioni illuminanti a questo torvo panorama di rievocazioni risorgimentali. Una è stato sicuramente il film di Martone Noi credevamo, al quale ho già dedicato una recensione, che mi permetto di segnalare Risorgimento e passione politica (in www.storicamente.org). Un’altra è rappresentata da questo libro di Isabella Fabbri e Patrizia Zani, Anita e le altre, Edizioni La Linea, Bologna, 2011.
Cosa accomuna questi due lavori così distanti per forma e contenuto? Non è fuori luogo una metafora: quella della montagna, del topolino e del parto. Ecco ciò che si può ricavare guardando questo film e leggendo questo libro: che l’unità d’Italia, quale si è realizzata, assomiglia a un topolino uscito dalla montagna del Risorgimento; un topolino bastardo e aggressivo uscito da una gigantesca montagna fatta da mezzo secolo di passioni, corpi organizzati e intelligenza profusi in abbondanza per fare dell’Italia un’idea politica realizzabile.
La monarchia Savoia che estende il suo dominio militarista su quasi tutta la penisola ha infatti ben poco a che fare con quegli ideali repubblicani e democratici che dal 1796 fino al 1849 mossero tutti patrioti italiani. E ricorda ben più quelle inclinazioni repressive che neanche il regime napoleonico aveva disdegnato e che dopo il congresso di Vienna divennero notoriamente sistematiche. Il fatto è che dopo l’apoteosi rappresentata dalla breve, ma intensissima esperienza della Repubblica Romana, del patriottismo repubblicano e democratico non sopravvivono che dei reduci, politicamente stanchi e affaticati. E a ridestarli per l’impresa dei Mille è solo una complessa ragnatela fatta dei controversi rapporti tra le Società che ancora organizzano i patrioti, Garibaldi, il re e Cavour. Quest’ultimo pare allora diventare il vero regista e come tale è solitamente celebrato (come avviene ad esempio nel comunque appassionante libro L’invenzione dell’Italia Unita, 1855-64 di Roberto Martucci), a conferma che astuzia, intrighi e diplomazia possono sempre più dell’entusiasmo politico. Ma senza la sua esplosione nella Roma del ’48/49 e senza il suo ridestarsi nel ’60/61 tra i Mille, nessun “tessitore” per quanto “fine” avrebbe avuto nulla ordire.
Quanto Garibaldi, oltre che Mazzini, simboleggi un’idea politica del tutto incompatibile con quella della altre due icone della più tradizionale galleria nazionale è dimostrato fuori ogni dubbio dalle cannonate che, appena neonato, l’esercito italiano, riserva ad Aspromonte all’ultimo significativo sussulto patriottico per un’Italia, se non repubblicana, almeno una e indivisa. Che fosse la Calabria ad essere scelta come punto di partenza di questo tentativo dei garibaldini, la dice lunga su quanto questi ultimi non si sentissero affatto politicamente estranei a quel Meridione, che invece il militarismo savoiardo tratterà come terra integralmente nemica, scatenandovi una guerra civile con punte di ferocia inaudita.
Ecco dunque come si è esaurita sul nascere quella straordinaria risorsa che avrebbe potuto essere un’Italia politicamente unita da Nord a Sud. La retorica risorgimentale che nega questo incredibile spreco, che accredita i Savoia di averla comunque realizzata questa unità, salvo qualche dettaglio e qualche difetto, rende un pessimo servizio al nostro paese. Diseduca, infatti, alla ricerca storica e ai ripensamenti necessari per ritrovare senso al far politica in Italia, a partire da quando questo far politica è davvero esistito.
Merito grande di Anita e le altre sta proprio nel farci ricordare qualcosa che in fondo non si è mai saputo e che giace nelle miniere sempre poco perlustrate degli archivi del Risorgimento: che questa lunga e ricca stagione del fare e del pensare politica, in modo disinteressato ed appassionato, è stata anche una stagione al femminile.
Per spiegare meglio cosa ciò significhi può tornare utile una citazione psicanalitica, della psicanalisi in versione lacaniana: la relativamente famosa formula secondo la quale “la donna non esiste”, nel senso che non esiste come esiste l’uomo, e in quanto esistono solo “le donne, una ad una”, cioè singolarmente. Ebbene non è questa, della singolarità originaria, anche la condizione di ogni “patria” la quale non esiste se non come “una” patria, al singolare? Tutto al contrario, ad esempio, del “comunismo”, la cui formulazione moderna è del tutto coeva del patriottismo italiano, come attestano tra l’altro, tutte le dispute tra Marx e Mazzini, entrambi accomunati per un certo tempo anche dall’esilio londinese. Il “comunismo” è infatti parola d’origine decisamente al maschile, subito internazionale, originariamente universale, che ammette singolarità e pluralità solo come applicazioni rivoluzionarie contingenti, da far confluire il più presto possibile nell’unico destino storico dell’abolizione mondiale delle catene proletarie.
Ecco le donne di cui Fabbri e Zani ci parlano, non da storiche, ma in presa diretta, in un’identificazione letteraria pressoché confessata, sono donne intimamente, essenzialmente patriottiche, militanti di una causa fatta di prossimità, avvicinamenti, intensità, profondità, più che delle comunque necessarie distinzioni, separazioni e sfide a distanze e differenze. In effetti, per chi ama queste cose, leggendo delle otto donne di Anita e le altre, vien subito da compararle a rivoluzionarie comuniste come Rosa Luxemburg o Clara Zetkin. Ma la differenza salta agli occhi e non solo per contesto storico. Laddove queste ultime si fanno valere rielaborando in proprio un’idea politica data e assunta come universale, le patriote italiane invece fanno tutto con quel c’è, uomini, fatti, istituzioni, sempre tentando di alimentarvi dal di dentro un nuovo senso, ad un tempo, più pregnante e più aperto a quel chiunque che allora si chiamava popolo. Spesso, nel caso di Anita, di Ernichetta Di Lorenzo e Guiditta Sellerio Sidoli, pensano e agiscono per lo più all’ombra di un “grande uomo”. In altri casi, quelli di Bianca Milesi Mojon, di Giorgina Craufurd Saffi e Jessie White Mario, pensano e agiscono all’ombra di più “grandi uomini”. Ma leggendo attentamente il libro si può ben comprendere come senza l’opera di queste donne, gli stessi Garibaldi, Mazzini, Pisacane e Saffi non avrebbero mai potuto rilucere come protagonisti del Risorgimento. Altri casi ancora, quelli di Carolina Pepoli Tatini e della quanto mai stupefacente Cristina Trivulzio di Belgoioso, che si fanno largo tra grandi uomini e sono esse stesse protagoniste di eventi patriottici maggiori, ci fanno capire quanto tutta la ricchezza intellettuale, politica, passionale, di questa stagione, più che mai positivamente “romantica” debba al femminile. E ci fanno capire anche quanto ancora ci sia da scoprire dell’enigma di questo pezzo di storia italiana che oggi, grazie alla vivida ricostruzione di Fabbri e Zani, pare davvero venire da un altro pianeta.
Dal che la morale di tutta la favola potrebbe anche essere che sì “un altro mondo è possibile”, visto che per un po’ almeno, altro, lo è già stato, e ciò soprattutto grazie a queste “altre” donne.
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