“Donne altre, altre donne”, incontro a Bologna (2). Conversazione con le relatrici
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Di “Donne altre, altre donne”, tavola rotonda sul tema della violenza e degli stereotipi di genere in Asia e Africa mediterranea svoltasi a Bologna il 23 marzo nell’ambito della rassegna dedicata dall’Alma Mater all’International Women’s Month, Inchiestaonline ha dato notizia nell’intervista apparsa il 30 marzo con le promotrici dell’iniziativa Nahid Norozi, Ines Peta, Paola Scrolavezza, Valeria Zanier, docenti del Dipartimento di Lingue, Letterature e Culture Moderne.
Da tale dialogo è emersa l’esigenza di promuovere – e di divulgare nel dibattito pubblico – una riflessione condivisa articolata e plurale, tesa a sottrarsi agli stereotipi invalsi, criticamente consapevole della complessità dei contesti storico-sociali considerati, e capace di costruire una prospettiva transculturale e trasversale, che oltrepassi gli schematismi e le semplificazioni correnti.
Con quest’intento, ho chiesto alle relatrici dell’incontro di sintetizzare per le nostre lettrici e i nostri lettori i temi essenziali dei loro interventi, che pongono, da angolature differenti, al centro del dibattito la questione delle donne culturalmente ‘altre’. Esse rivendicano in modi e in contesti diversi dignità, diritti, e libertà dal sistema patriarcale: ma qual è in effetti la loro realtà, ossia la realtà della condizione femminile al di fuori del nostro ecosistema culturale? In che modo la violenza sistemica di stampo patriarcale si ripropone in paesi e culture che percepiamo come ‘lontane’?
Ecco come mi hanno risposto, in riferimento alle aree dei paesi islamici, della Cina, del Giappone, Sara Borrillo (Università di Roma Tor Vergata), Sara D’Attoma (Università Ca’ Foscari di Venezia) , Giulia Dugar (Università di Bologna), i cui rispettivi contributi si intitolavano “Oltre il binomio “violenza di genere e islam”: una lettura femminista e decoloniale”, “Violenza di genere in ambito familiare: il caso della Cina”, “Donne a lavoro: la violenza latente della discriminazione di genere nel mercato del lavoro in Giappone”.
Sara Borrillo:
“Il rapporto tra violenza di genere e islam viene troppo spesso considerato come connaturato, a causa della diffusa interpretazione dell’islam come credo intrinsecamente violento nei confronti delle donne. E ciò tanto in ambito islamico quanto in ambito occidentale. Qui ciò avviene in particolar modo dopo l’11 settembre 2011, in continuità con il periodo coloniale: la narrativa salvifica nei confronti delle donne “orientali” ha rappresentato un argomento pivot per interventi militari volti a ridefinire equilibri geopolitici in Medio Oriente più che a promuovere effettivamente un miglioramento della condizione femminile nell’area.
In alternativa ad un simile approccio, sovente di stampo orientalista, il mio intervento ha inteso presentare alcune tracce del dibattito interno alle società a maggioranza musulmana sul rapporto tra Islam e diritti delle donne, privilegiando voci di quelle teologhe, intellettuali e attiviste femministe che rivendicano autorità ad interpretare il Corano e le altre fonti del diritti islamico al fine di riformare il diritto di famiglia e le norme sociali più discriminatorie nei confronti delle donne e delle minoranze sessuali, dimostrando l’incompatibilità tra violenza di genere e fede islamica e la compatibilità tra i valori coranici di solidarietà e giustizia con il principio di uguaglianza di genere.
Questa disamina ha permesso di osservare l’eterogeneità dell’attivismo femminile e femminista in ambito islamico, e in particolare in Medio Oriente e Nord Africa, dove – in chiave post e decoloniale – sono molteplici i discorsi e le pratiche d’azione d’azione dal basso per un miglioramento della condizione femminile”.
Sara D’Attoma:
“La violenza di genere perpetrata all’interno dell’ambito familiare è una problematica di rilevanza globale, nonché di assoluta e preminente attualità. Non a caso le statistiche sulle violenze domestiche commesse durante la recente emergenza sanitaria parlano di un fenomeno preoccupante diffuso in tutti i Paesi e presente a ogni livello sociale. In Cina i tradizionali valori patriarcali e confuciani sui quali la famiglia fondava le proprie relazioni reputavano le violenze intrafamiliari – in particolare nei confronti delle donne – una componente accettata e del tutto integrata nel normale svolgimento dei rapporti tra persone appartenenti allo stesso lignaggio. All’inizio del Novecento con il crollo dell’ultima dinastia sia il Partito Nazionalista sia il Partito Comunista cinese si adoperarono per la liberazione della donna dalle oppressioni del passato sancendo anche la parità tra i sessi. Negli anni Cinquanta Mao vietò molte delle pratiche invalse nel periodo feudale che avevano oppresso le donne e che sarebbero state d’intralcio alla costruzione della società socialista. Nonostante ciò, questa iniziativa è stata letta anche nell’ottica del cosiddetto socialismo patriarcale che, nella realtà, sacrificava gli obiettivi di uguaglianza di genere in cambio di sostegno politico, tollerando alcune pratiche tradizionali. Gli anni Ottanta, con l’ascesa di Deng, sono segnati dall’avvio della politica della pianificazione familiare che incise pesantemente sul corpo delle donne. Il vaso di Pandora è stato scoperchiato solo a partire dalla IVa Conferenza mondiale sulle donne tenutasi a Pechino nel 1995, dando avvio al dibattito sul tema della violenza di genere e portando la Cina a redigere annualmente dei report sulla condizione femminile. L’inclusione della fattispecie della “violenza domestica” in una legge nazionale risale invece al 2001 e la prima normativa ad hoc al 2016, quest’ultima mira soprattutto a responsabilizzare la società civile e tende a mettere in secondo piano i meri strumenti giuridici a favore della creazione di una rete di prevenzione. A sette anni dalla promulgazione della legge sembra che la sua efficacia nel contenere gli abusi tra le mura domestiche non stia funzionando correttamente, soprattutto in alcune aree del Paese. Essa rappresenta solo un punto di partenza dal quale sviluppare un modello più strutturato ed efficace per affrontare un fenomeno così grave.”
Giulia Dugar:
“Nonostante si situi in un’area geografica lontana, il Paese del Sol Levante è vicino ai contesti occidentali se paragonato in termini di forme di governo, società e tenore di vita. In particolare, il Giappone si trova afflitto dalle medesime preoccupazioni che in questi anni allarmano molti paesi industrializzati: bassi tassi di fecondità, una popolazione sempre più anziana, i conseguenti squilibri del mercato del lavoro e la crescente pressione sul sistema pensionistico nazionale. In questo quadro seppur diffuso ma poco rassicurante, la donna assume un ruolo vitale per la sua duplice e di recente acquisita valenza: madre di famiglia, quindi propulsore di rinnovamento demografico, e lavoratrice, figura quanto mai essenziale per rispondere alle nuove esigenze di un mercato del lavoro che richiede personale sempre più flessibile.
Tuttavia, in entrambi gli ambiti, quello famigliare e lavorativo, il Giappone relega la donna in uno stato di subalternità rispetto alla controparte maschile. Da una parte, l’istituzione famigliare nipponica, così per come è strutturata sia a livello sociale che giuridico, offre alla moglie e alla madre scarso potere decisionale ed economico all’interno della sua rete relazionale. Dall’altra, nonostante i crescenti tassi di occupazione della popolazione femminile, il mondo del lavoro vede le donne principalmente impiegate in posizioni corrispondenti a bassi livelli salariali e a limitate opportunità di carriera. Si innesta ed alimenta così un circolo vizioso che getta le basi per una forma di discriminazione latente che, a sua volta, mina opportunità ed ambizioni di realizzazione personale di chi ne è soggetto.”
Category: Donne, lavoro, femminismi