“Donne altre, altre donne”, dibattito a Bologna. Conversazione con le promotrici
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Benché la grande e perenne questione dell’emancipazione femminile si ponga, in diverse modalità e declinazioni, ad ogni latitudine, spesso la percezione che se ne ha da noi, nella cultura diffusa e sui media, tende in sostanza a privilegiare in proposito, esplicitamente o implicitamente, una prospettiva schematica che finisce per offrirne una rappresentazione riduttiva. E’ per cercare di suggerire una riflessione problematica e articolata su questa tematica, sottratta a una visione “occidentalocentrica” e orientata a una prospettiva transculturale, che ha avuto luogo a Bologna il 23 marzo, presso la Sala Biagi del Quartiere Santo Stefano, nell’ambito della rassegna dedicata all’International Women’s Month dall’Alma Mater, la tavola rotonda Donne altre, altre donne, dedicata al tema della violenza e degli stereotipi di genere in Asia e Africa mediterranea, con un focus privilegiato su quattro aree: Cina, paesi arabi, Giappone, Iran. Vi hanno partecipato Sara D’Attoma (Università Ca’ Foscari di Venezia), Sara Borrillo (Università di Roma Tor Vergata), Giulia Dugar (Università di Bologna), Minoo Mirshahvalad (Fondazione per le Scienze Religiose di Palermo).
Al centro del dibattito, il tema delle donne culturalmente ‘altre’, che rivendicano in modi e in contesti diversi dignità, diritti, e libertà dal sistema patriarcale. Ma qual è in effetti la loro realtà, ossia la realtà della condizione femminile al di fuori del nostro ecosistema culturale? In che modo la violenza sistemica di stampo patriarcale si ripropone in paesi e culture che percepiamo come ‘lontane’?
Ho chiesto di parlarne alle docenti del Dipartimento di Lingue, Letterature e Culture Moderne promotrici dell’iniziativa: Nahid Norozi (Lingua e cultura persiana), Ines Peta (Lingua e Letteratura araba), Paola Scrolavezza (Lingue e Letterature del Giappone e della Corea), Valeria Zanier (Lingua e Linguistica cinese).
Paola: L’intento di questa nostra iniziativa è di alta divulgazione. Si tratta di coinvolgere gli studenti, e più in generale il pubblico cittadino, in una riflessione critica che si sottragga a una prospettiva orientalistica ed essenzializzante: questa infatti è generalmente predominante quando si parla di donne, mentre invece andrebbe sistematicamente decostruita. Lo ha mostrato questo dibattito, nel corso del quale sono emerse linee di ricerca su cui lavorare e dialogare, specie in materia di famiglia, diritto e lavoro. Il pubblico ha assunto significativamente un ruolo attivo, e ha mostrato di recepire tali sollecitazioni, rivelando con le sue domande di saper cogliere, contro le semplificazioni correnti, la complessità e la pluralità delle situazioni concrete che sono in gioco in quest’ambito. In particolare, è emersa l’esigenza di una contestualizzazione storico-sociale della violenza fisica e simbolica sul corpo delle donne, nell’ambito della quale la complessità dei contesti lascia tuttavia emergere uno spazio dove fili afferenti a tessuti culturali diversi possono intrecciarsi e stimolare riflessioni trasversali.
Ines: Nel caso della persianistica e dell’arabistica, la visione predominante “orientalistica” e stereotipata riguarda in particolar modo l’Islam, religione maggioritaria sia nei paesi arabi che in Iran, e percepita come intrinsecamente oppressiva nei confronti delle donne. Più in generale, nel senso comune si propone una serie di equivalenze semplicistiche, ad esempio Islam=violenza=terrorismo. Non si tratta di offrire una rappresentazione irenica e idealizzata della realtà, ma di trovare un equilibrio critico nel configurare la trattazione del dibattito sulla violenza di genere in tali società, uscendo dalla schematicità delle contrapposizioni semplicistiche.
Nahid: In questa prospettiva, il nostro ruolo dovrebbe essere quello di proporre all’attenzione informazioni circostanziate e fonti attendibili e obbiettive, uscendo da talune semplificazioni mediatiche. Senza dubbio lo slogan delle donne iraniane, “Donna Vita Libertà”, è una bellissima e pregnante parola d’ordine – paragonata da alcuni alla potenza espressiva del vecchio slogan della rivoluzione francese “Liberté Egalité Fraternité” in cui riconoscersi in questo XXI secolo. Tuttavia, sarebbe opportuno considerare con attenzione anche gli atteggiamenti verso le tradizioni religiose plurisecolari, senza appiattirli univocamente sulle loro formulazioni oscurantiste – come troppo spesso si fa nei media occidentali. Giova ricordare ad esempio che, in Iran, all’epoca della monarchia costituzionale (1925-1979), le donne avevano ottenuto una serie di diritti come il suffragio universale e altre forme di emancipazione, ma avevano anche l’obbligo di non indossare il velo. Questo obbligo impediva alle famiglie tradizionali, in particolare delle zone rurali densamente popolate, di mandare le loro figlie alle scuole superiori, nel timore che venissero molestate e il loro “onore” infangato. Cosa che aveva fortemente condizionato la libertà di scelta riguardo la scolarizzazione di una fetta importante della popolazione femminile. Paradossalmente dal 1979 ad oggi, ossia nell’epoca della Repubblica Islamica pur nella sua forma oppressiva e limitante dei diritti delle donne, l’obbligo di indossare il velo ha permesso una più fluida partecipazione delle donne alla vita pubblica, in particolare nell’ambito delle professioni e dell’istruzione. Basti pensare che negli ultimi due decenni oltre la metà degli studenti universitari in Iran sono donne, mentre durante la monarchia laica e persino anticlericale dei Pahlavi la percentuale si aggirava intorno al 30%.
In una prospettiva più generale, in occasione della tavola rotonda Donne altre, altre donne, s’è avuta la sensazione che donne di diverse estrazioni antropologico-culturali della vasta area orientale, pur con la loro diversità e alterità, in fin dei conti tanto altre non siano, in quanto spesso si riconoscono tutte nel desiderio di libertà e nel comune pur variegato linguaggio di dolore e di privazione. Come diceva un poeta persiano, Ahmad Shāmlu (1925-2000), molto amato dalle donne in Iran: Io sono il dolore comune, urlami!
Valeria: Anch’io condivido l’esigenza di liberarsi dall’orientalismo e dall’esotismo, che si ravvisano invariabilmente nella percezione corrente anche in riferimento alla Cina e che producono invariabilmente delle semplificazioni e delle distorsioni nella percezione di questo universo culturale. In particolare, per quanto riguarda l’ambito cinese, desidero sottolineare che gli stereotipi più frequenti in Occidente accreditano una rappresentazione univoca e monolitica di quanto gli addetti ai lavori identificano come sinosfera, ovvero un insieme di persone di cultura/etnia/lingua cinese che vivono in vari contesti geografici e sistemi statuali. Tale rappresentazione appiattita esalta il carattere minaccioso che la Cina continentale rappresenta in termini economici e geopolitici per l’Occidente tralasciando però l’aspetto umano. Con l’evento Donne Altre, Altre Donne è stato possibile far emergere la realtà frastagliata e complessa delle donne cinesi, intese come individui singoli, con i loro casi particolari di vittime di violenza familiare, ma anche di resistenza alle forme di controllo e prevaricazione nei confronti dei loro corpi.
Infine, da questo confronto, sono emersi temi comuni che possiamo utilizzare per promuovere una ricerca trasversale in futuro: ad esempio, il ruolo della famiglia come depositaria della tradizione e spesso delle norme più restrittive nei confronti della donna, anche in confronto a religione o governo. Per sottrarsi alle semplificazioni e all’appiattimento dettato da logiche politiche lontane da un’esigenza di realtà, è fondamentale che la ricerca accademica possa indirizzarsi verso una contestualizzazione storica delle diverse forme e modalità che l’aggressività verso le donne assume e seguire questa linea per individuare un dialogo fruttuoso a livello di comunità.
Category: Donne, lavoro, femminismi