Cristina Biondi: 2. Nuovo dizionario delle parole italiane. “Intolleranza” e dintorni
Dal «Nuovo dizionario delle parole italiane»
INTOLLERANZA
C’è chi ritiene la tolleranza un atteggiamento insufficiente per fronteggiare le gravi emergenze sociali che ci è dato di vivere: tolleriamo il nostro prossimo quando, avvertendo diversità più o meno profonde, lo riteniamo in errore, ma lieve, accettabile, o prevediamo che il suo errore, retaggio di una cultura inferiore, sia emendabile con la buona volontà, che ha modo di esprimersi grazie alla nostra tolleranza. Non stiamo quindi parlando di offrire una calorosa accoglienza, ma chi ha suocere o fratelli sa come tollerare i propri parenti sia già un atteggiamento che richiede eroismo e sacrificio di sé, figuriamoci se è il caso di tollerare gli altri, i “foresti”. Potremo però fare un esame di coscienza che ci induca a scendere dal piedestallo della nostra posizione di vantaggio, innegabile agli occhi dei patiti del calcio, dal momento che noi la partita ce la giochiamo in casa.
Si spera che le donne, meno coinvolte nelle tifoserie e relative prodezze, memori dei soprusi subiti da madri, nonne e bisnonne a causa di una supposta inferiorità del genere femminile, affrontino le emergenze rinunciando a disquisire su concetti astratti come tolleranza, accoglienza, difesa del territorio per mettersi a cucinare per tutti. Purtroppo la coscienza spesso è sabotata dall’inconscio, che s’incarica di tenerci ancorate alle nostre fragilità, producendo tutta una seria di disturbi che inibiscono la capacità di agire, soprattutto se si tratta di mettersi ai fornelli. L’intolleranza inconscia si manifesta infatti con un sintomo eloquente: sempre più donne si dichiarano intolleranti al glutine, al lattosio, al glutammato di sodio, all’olio di palma, alla curcuma, al curry senza pareri medici che avvallino le loro diagnosi. Non di solo pane vive l’uomo, la donna poi rinuncia anche a quello per darsi alla polenta, immemore che il cibo simbolo della nostra cultura fosse sconosciuto alle genti venete prima della scoperta dalle Americhe.
OBBLIGHI E DOVERI
Un tempo la vita era zavorrata da numerosi doveri che ci obbligavano nei confronti di Dio, della Patria e della Famiglia.
Oggi l’ateismo è un atteggiamento non solo tollerato, ma ritenuto del tutto legittimo: Dio è giovane e ci concede tutto il tempo di esplorare, sperimentare, andare a fare i guardiani di porci e mangiare carrube. La Chiesa invece è così vecchia da considerare con cortese indifferenza le scoperte scientifiche, le elucubrazioni e le teorie non in linea con la retta dottrina. Peccato che la libertà di opinione venga utilizzata dai contemporanei soprattutto per pensare, scrivere e proclamare cavolate che circolano senza alcun controllo in rete.
Oggi prepararsi a difendere la patria è facoltativo, non è più necessario fare carte false per evitare il servizio militare, il rancio non è più dichiarato “ottimo e abbondante” e, a dirla tutta, finalmente non siamo più tenuti a magnificare le potenzialità belliche del nostro esercito.
Oggi il matrimonio si basa sull’amore e non su solide premesse, quindi è volatile, soggetto alle turbolenze del cuore. Dura quel che dura, al realismo politico si affianca il realismo sentimentale, entrambi suggeriscono di non dar troppo peso alle promesse preelettorali e prematrimoniali.
Dio, Patria e Famiglia sono concordi nel ritenere che l’educazione sia indispensabile per far crescere uomini di fede, patrioti e mariti e padri. La scuola dell’obbligo è ancora obbligatoria, peccato che sia diventato facoltativo e scarsamente incentivato imparare a leggere, scrivere e far di conto.
Svincolati a qualsiasi età dagli obblighi religiosi, liberati da persone mature dai vincoli matrimoniali, da giovani adulti dal servizio militare, da ragazzini dall’obbligo allo studio, andando a ritroso, oggi si cerca di liberare gli infanti dagli obblighi vaccinali. I vaccini hanno sostituito come imposizione salvifica il battesimo dei lattanti e la medicina si è affermata come religione di stato, l’unica autorità che si ponga a baluardo contro l’eresia di genitori increduli, che dubitano dell’esistenza di entità reali, anche se non immediatamente percepibili, quali il tetano e la difterite.
TERRORISMO.
Il terrorista nasce con la rivoluzione francese: prima crimini, stragi e stermini erano compiuti da barbari, assassini, fanatici e soldati che, per quanto spargessero terrore e morte, non venivano definiti terroristi. L’omicidio è stato fin dalla notte dei tempi un fine perseguito per se stesso, lo scopo per eccellenza di ogni gesto violento e anche ove ci fosse l’intenzione di fare dei supplizi dei casi esemplari, un tempo non veniva enfatizzato quel terrore che oggi colpisce chi non chiede nulla di meglio che perseverare in una vita tranquilla. Per gli antichi il terrore era un fatto accidentale e, il più delle volte, privato.
Insomma il terrorista rivela i risvolti inquietanti e oscuri dei principi di libertée, égalité e fraternité.
È la fratellanza che andrebbe indagata con attenzione restituendole tutta l’ambiguità che le è connaturata, essendo il destino di Caino non meno universalmente condiviso di quello di Edipo.
Il terrore quindi sembra essere generato dall’improvviso rivelarsi di una verità rimossa: siamo tutti fratelli, quindi non si deve mai abbassare la guardia, mai pensare che in un’atmosfera di festa, in una sala da ballo, in una spiaggia non possa scatenarsi la furia omicida di fratelli che, riconoscendosi un destino tragico, vogliono associarci alla loro morte.
Non credo che i terroristi amino definirsi tali, non condividono con noi né la nostra ottica, né il nostro vocabolario e a volte nemmeno la nostra lingua. Nella poesia La scoperta dell’America di Pascarella suscita ilarità la definizione che il primo nativo incontrato dai compagni di Colombo dà di sé:
Se fermorno, se fecero coraggio…
– a quell’omo! Je fecero, chi séte?
– e, fece, chi ho da esse?
So un servvaggio.
Che un assassino “ha da esse” un terrorista, che magari si dichiari tale parlando in dialetto romanesco, fa parte dei nostri (occidentali) modi di vedere le cose, infatti tutta la mitologia che deriva da accadimenti storici fin troppo reali fa parte dei nostri schemi.
Va notato che, se lui è il terrorista, noi tutti siamo i terrorizzati e di questo nostro panico, di questa nostra perdita di controllo sulla realtà nessuno si sogna di farcene una colpa.
Proviamo a immaginarci in un altro contesto: siamo in guerra, piovono bombe da tutte le parti, si spara a chiunque: soldati, donne e bambini. Possiamo noi, i civili, gli inermi, noi che non abbiamo avuto né l’onere né l’onore di prendere decisioni irrevocabili, possiamo noi abbandonarci a un cieco terrore? Direi proprio di no. (si veda alla voce «Guerra e pace»)
GUERRA E PACE
“Polemos è il padre di tutte le cose” diceva Eraclito. Il “padre di tutte le cose” in lingua latina diventa di genere neutro (bellum), per poi diventare femminile in italiano: la “guerra”. Volendo dare a Cesare quel che è di Cesare, bisogna ammettere che c’è qualcosa che non va.
Se pensate che il genere femminile ingentilisca il concetto di conflitto armato vi sbagliate, restando a un livello puramente linguistico si può notare che ciò che vi è di più maschile – la prima parte anatomica che riceve attenzione per dare un nome come Antonio, Pietro o Giacomo alla creatura appena venuta al mondo – è in lingua italiana di genere maschile, mentre in dialetto siciliano è di genere femminile. Evito ogni commento.
“Pace” è un sostantivo femminile sia in greco che in latino ed è un bene che almeno lei non abbia cambiato proditoriamente genere, anche se non è prudente magnificarne troppo il concetto.
In guerra vi è l’obbligo di uccidere i propri nemici, di distruggere qualsiasi cosa di cui essi possano giovarsi, cercando di ristabilire una pace vantaggiosa che nei tempi antichi poteva comportare l’eliminazione totale dei prigionieri e la distruzione dei loro insediamenti o l’appropriazione dei loro beni e la riduzione in schiavitù di uomini, donne e bambini. Ovviamente era possibile attuare una via di mezzo tra le due soluzioni. Al giorno d’oggi si perseguono criteri più buonisti nello stipulare quelli che vengono definiti accordi di pace, intervenendo nella trattativa più interlocutori che ostacolano le soluzioni semplici e definitive. Quindi ogni sforzo è volto all’eliminazione totale degli avversari, delle loro donne e dei loro bambini nel corso del conflitto stesso, dal momento che dopo, da vincitori, non si ha la stessa libertà d’azione che si godeva ai tempi andati.
Domanda per Eraclito: Se “polemos è il padre di tutte le cose”, chi è la mamma? La pace? L’atomica?
WAR: UN’ALTRA LINGUA, UN’ALTRA COSA
A Washington c’è un monumento agghiacciante: il Korean war veterans memorial. È sufficiente vederlo in rete per restarne impressionati. Le statue dei soldati, collocate su un prato rigoglioso, sembrano avanzare, il corpo avvolto da lunghi mantelli, d’inverno la neve copre le loro spalle e il loro elmetto. Chi le ha viste in quell’ampia area della città dedicata alla memoria, verde e cimiteriale al tempo stesso, non le dimenticherà mai. Rappresentano creature spettrali, i non-morti, suscitano un orrore indicibile, cancellano ogni speranza, annullano ogni possibilità che la violenza trovi una via di riscatto. Non sono tanto un monumento celebrativo quanto un’istigazione al suicidio e chi dubita di questa affermazione, chi vede in queste gelide presenze un simbolo dell’eroismo e del coraggio, rifletta su un dato incontestabile: la prima causa di morte dei sodati americani impegnati negli ultimi teatri di guerra è per l’appunto il suicidio, che come forse succede dopo l’esposizione all’uranio impoverito, dimostra che war non ha una fine e può uccidere anche decenni dopo il ritorno a casa.
TRASPARENZA E VISIBILITA’
Nessuno è un eroe per il proprio cameriere. Nessuno rimane credibile se parla troppo. Nessuno dovrebbe sventolare la Bibbia se è un pubblico peccatore. Oggi un’eccessiva visibilità, il protagonismo, il gusto per l’ostentazione impediscono ai nostri politici di giocarsi una carta che in passato ha salvato numerosi personaggi impresentabili: l’ipocrisia, che metteva in ombra quello che poteva nuocere all’immagine pubblica, proteggendo tanto la vita privata quanto le proprietà private sotto l’ombrello della discrezione. La trasparenza è spesso imbarazzante, la nudità raramente giova a chi ha superato i cinquant’anni. Chi, dopo essersi fatto da sé, cede in età senile alla tentazione di rifarsi da capo a piedi continua ad amare le luci dei riflettori, ritenendole più benevole dello specchio di casa, che rischia invece di avere la stessa funzione del ritratto di Dorian Gray.
La trasparenza, invocata come prova di onestà, non fa parte della nostra cultura: mentre nei paesi nordici le finestre non hanno tende e chiunque può dare un’occhiata indiscreta in case di onesti e timorati protestanti che vogliono dimostrare di non aver nulla da nascondere, in Italia siamo abituati a schermare i nostri interni. Il sole del sud danneggerebbe tessuti e mobilio e le persiane rendono evidente che le finestre sono fatte per spiare e non per essere spiati. È difficile conciliare due esigenze contrastanti: a chi vuole osservare giova la trasparenza, a chi non vuol essere osservato giova la privacy, che, traducendosi in italiano come “vita privata” contrasta con la vocazione pubblica dei personaggi politici.
SOCIAL POCO SOCIEVOLI
La televisione ha posto un abisso tra chi guarda e chi è guardato e il nostro concetto di onestà non prevede più che ci si trovi faccia a faccia. Invece i “social” sembrano permettere un vero contatto, spesso un dialogo serrato, ma è evidente che le esternazioni non seguono le più elementari regole del rispetto e della buona educazione e siamo sconcertati di fronte agli eccessi, alla perdita di ogni freno inibitore. La tragedia, che è la forma di espressione degli eccessi più seria e controllata, prevede nel suo svolgimento un’unità di tempo e di luogo. Invece si twitta ovunque, con riprese e rimandi, fulminei a volte, ma l’unità dell’azione è andata a farsi benedire. Se vogliamo dare un senso al farneticare di mille voci dissonanti dobbiamo chiederci: chi parla in una dimensione atemporale, che ignora la successione del prima e del dopo, chi, per sua natura, non conosce il limite?
È l’Es, creatura dell’Inconscio, che funziona così, e il compito di tutti dovrebbe essere quello di riportarlo al proprio interno, censurarlo, porlo sotto il primato dell’Io e, perché no, anche di quel SuperIo ingiustamente accusato di avere una funzione persecutoria e limitante la libera espressione (Limitiamo! Limitiamo!).
OPININE PUBBLICA: CAPRA E CAVOLI, MA SOPRATTUTTO CAVOLI
L’opinione pubblica è ondivaga e, anche se manipolata ed esposta a mille seduzioni, ha ancora un suo peso, il problema quindi è quello di salvare capra e cavoli, cercando di dire tutto e il contrario di tutto, promettendo molto e mantenendo poco. È bene ricorrere alle strategie pubblicitarie, ma gli spettatori televisivi sono abituati a un minimo di coerenza: il Mulino Bianco è un luogo mitico, ma proprio nella misura in cui appartiene alla fiaba, deve restare bianco, così come Cappuccetto resterà rosso anche nei secoli a venire. Ci si affeziona alle bugie come alle favole, ma la regola che vale per entrambe è che devono essere raccontate sempre allo stesso modo, usando sempre le stesse, identiche parole. Bugie e favole aiutano i bambini ad accettare l’infanzia, entrambe sono indispensabili alla crescita, le prime nascondendo verità il cui peso non è ancora sopportabile, le seconde insegnano le regole della prudenza e incanalano la paura in racconti immaginari, che alla fine vengono svelati come tali. Ogni genitore deve saper tacere molte cose e far indossare i panni della fiaba a molte altre, al politico si chiede la stessa cosa: è un bene che menta e occulti, se ha la statura per farlo. Oggi si sente la mancanza di statisti, personalità in grado di guidare ed educare gli uomini, i nostri governanti invece dicono le bugie con la supponenza di adolescenti che siano riusciti a entrare nella stanza dei bottoni.
VENEZIA E LA POLITICA
Noi veneziani abbiamo a lungo custodito il senso vero e più profondo della politica, avendo vissuto in una città-stato, che aveva il vantaggio di non avere Sparta a soli 231 km di distanza. Un tempo abbiamo eletto un sindaco filosofo, ma dal momento che nessuno è profeta in patria, non abbiamo saputo trarne tutto il vantaggio che la fortuna ci aveva offerto. Il nostro destino dipende anche dalla circostanza che un popolo di navigatori e mercanti sia divenuto un popolo di commercianti e affittacamere, mentre la Via della Seta è interamente in mano ai Cinesi, che hanno comprato tutto, compreso il porto del Pireo. In parte è vero che ci ha rovinato Napoleone, ma è ancora da stabilire chi ci ha imposto il Mose, ecomostro nemmeno tanto marino, dal momento che si arrugginisce a vista d’occhio. Si dice che abbia addirittura peggiorato la situazione, favorendo l’acqua alta, ma Venezia è la sposa del mare, il maggior pericolo non le viene dall’Adriatico, ma da quel ponte che la unisce alla terraferma. Inaugurato nel 1846, permette un’invasione pacifica ma costante. Periodicamente viene indetto un referendum per separare Venezia da Mestre, dove si stanno costruendo enormi dormitori per turisti, ma a poco servirebbe avere due amministrazioni, se non si distrugge il ponte e non si fanno colare a picco le grandi navi. Noi Veneziani sappiamo che la partita è perduta, non ci resta che vendere il vendibile.
Il generale Cambronne, eroe di Waterloo, saprebbe definire con incisività la nostra situazione, anche se è un peccato che sia passato alla storia per una sola parola, quando è molto più bella la sua dichiarazione: “La guardia muore, ma non si arrende”.
Chissà chi ha firmato la nostra resa, molto prima che venisse progettato il Mose.
INTERCETTAZIONI
Verba volant, scripta manent. Mai come oggi le parole sono volate, volano da un cellulare a un altro, da un continente a un altro. Chi fa volare le parole è convinto di potersele rimangiare in qualsiasi momento, dichiarando di non aver mai detto quello che ha detto. Non tutti hanno recepito il fatto che le intercettazioni telefoniche si prestano a venir trascritte, concorrendo a dar vita a un particolare tipo di testo, chiamato per l’appunto verbale. Il verbale poi rimane agli atti, come se le parole dette-e-non-dette fossero destinate a generare azioni e reazioni del tutto imprevedibili. L’intercettazione è una nuova forma di persecuzione, viola regole valide fin dalla notte dei tempi, quando il principio “mater semper certa est, pater numquam” permetteva di negare ciò che oggi è divenuto innegabile. Non sorprende che ci sia solidarietà per i padri di parole venute al mondo in alcove clandestine, bisogna “negare, negare sempre” perché, ove l’evidenza impedisce di far affidamento sulla credulità altrui, viene in soccorso, potente e virile, quel senso di omertà che consente di distinguere gli uomini d’onore dai quaquaraquà.
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