Massimo Canella: Appunti sulla “primavera iraniana”
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Appunti sulla “primavera iraniana”
Intervento, come rappresentante di Amnesty International, a un incontro sull’Iran promosso a Mestre il 12 marzo 2023 dall’associazione Giuristi Democratici Venezia “Emanuele Battain”
Come prima cosa devo dire di essere contento di trovarmi a discorrere con alcuni di voi, con cui in un passato direi remoto abbiamo condiviso un’esperienza di militanza in Amnesty International. Svuotando cassetti di recente ho trovato a casa un po’ di materiale che Amnesty pubblicava all’epoca – e vi ho trovato lo stesso spirito e lo stesso scrupolo che tutti gli riconoscono ancora: di diverso c’è un ampliamento del raggio d’azione in conseguenza di un approfondimento delle tematiche sui diritti fondamentali, che ha portato all’attenzione anche sulle violazioni dei diritti in campo ambientale, nei flussi migratori, rispetto ai diritti delle donne e delle minoranze sessuali e culturali. La cosa non mi sembra abbia alterato, forse ha anche aumentato in alcuni, una percezione di imparzialità e di affidabilità. Come sapete, nata dall’intuizione di un avvocato, Amnesty è nata per la difesa dei casi singoli di violazione, e pur nella consapevolezza dei problemi generali continua a farlo, spesso con buoni risultati: anche stasera abbiamo portato appelli da sottoscrivere per perorare le cause di donne dell’Azerbaigian iraniano perseguitate a vario titolo dal regime, e ci auguriamo, per favore direbbe il papa, che chi non lo avesse ancora fatto le sottoscriva prima di andarsene.
Accostarmi all’argomento Iran mi ha suscitato delle domande che vorrei condividere. La quantità e l’importanza delle violazioni dei diritti sanciti dalla Carta di San Francisco è sotto gli occhi di tutti, come sotto gli occhi di tutti è l’eroismo delle donne e degli uomini che continuano a non lasciarsi intimidire da una repressione feroce. Al di là dei casi singoli, possiamo essere ottimisti sugli esiti immediati del processo? La cosa si connette, da un lato, con lo stato generale dei diritti umani nel mondo. Non vi sarà sfuggita la notizia dell’accordo – quadro che sotto l’ala della Cina Iran e Arabia Saudita hanno stipulato qualche settimana fa dopo decenni di guerra globale combattuta a bassa intensità, per lo meno per loro. Si tratta di potenze diverse, che trovano un elemento di coesione nella fondamentale estraneità, al di là di qualche forma, non al capitalismo vigente ma alla cultura dei diritti umani, che vengono presentati come un prodotto non universalizzabile della civiltà occidentale, e su questa base sono anche disposte a riorganizzare in modo inedito le loro relazioni politiche ed economiche, rafforzandosi a vicenda. Turba anche la notizia dell’utilizzo alla cinese di tecnologie d’avanguardia per il controllo personale, a cominciare da quello sul velo delle donne: un connubio di arretratezza e sviluppo di impronta tipicamente totalitaria.
Da un altro lato per capire cosa può attenderci bisogna guardare anche all’effettiva realtà sociale dell’Iran: fra validissimi ceti colti e moderni e un paese profondo con usanze arcaiche e molta ingenuità religiosa c’erano e in parte credo ancora ci siano grandi differenze, e bisogna capire come e quanto rapidamente esse vadano evolvendo sotto la spinta della modernità. Noi assistiamo a film belli e profondi, interloquiamo con persone raffinate ed originali e conosciamo l’esistenza di strati della popolazione con elevati livelli di istruzione moderna, e contemporaneamente custodi ancora entusiastici di una grande tradizione letteraria. Ma fra il marzo 2020 e il marzo 2021 sono stati celebrati 31.379 matrimoni con bambine fra i dieci e i quattordici anni: ovviamente non per obbligo, ma per volontà delle famiglie. E quando ci fu il decennio di guerra con l’Iraq di Saddam negli anni Ottanta, il regime si salvò per il sacrificio, certamente anche patriottico, di centinaia di migliaia di volontari non addestrati, spesso dei ragazzini, a ognuno dei quali veniva offerta una chiave di plastica per l’accesso al paradiso: attori professionisti venivano inviati nottetempo negli accampamenti su cavalli bianchi, svegliando le reclute e facendosi passare per il Dodicesimo Imam che li benediceva; chi riusciva a tornare al paese lo raccontava, alzando la temperatura dell’entusiasmo religioso e patriottico. E’ chiaro che il cambiamento sociale e politico tanto più potrà procedere quanto più tutta la società, e non solo le sue élite urbane, si secolarizzerà, magari in forme un po’ democristiane, con pazienza: ho notato che anche nelle 238 pagine della traduzione italiana della progressista “Rivincita Sciita” di Vali Nasr, John Hopkins University, delle donne si parli solo a p. 183, a proposito della città santa di Qom, dove si dice “Vi sono persino seminari femminili”. Quel che non riusciamo a valutare adesso è l’estensione e la forza eversiva della rivolta delle donne, che per natura mette in causa tutte le sfaccettature delle culture politiche maschili preesistenti; tenendo conto del fatto che il loro protagonismo si spiega anche in quanto come donne risentono di un’oppressione sociale molto minore di quelle della penisola arabica: studiano, vanno al lavoro, guidano le macchine – e per questo possiedono la capacità culturale e la forza sociale di rifiutare i tabù assurdi che ancora le costringono.
Parliamo di secolarizzazione, perché tutta la storia della repubblica islamica si iscrive nella vicenda sciita, nel cui ambito ha rappresentato a modo suo una rottura rivoluzionaria. Dico due parole, necessariamente scolastiche e sommarie. Come molti sanno, l’Islam è diviso fin dal VII secolo da un grande scisma fra una maggioranza sunnita in genere dominante, priva di gerarchie ecclesiastiche e nei secoli sostenitrice di califfi e sultani, e una minoranza sciita, discriminata per secoli e a volte considerata pagana, che coltiva una sua visione messianica, di sacrificio e della persecutorietà del potere, e fa riferimento a un clero a modo suo gerarchico, pur senza un’autorità religiosa suprema; fra l’altro, ognuna delle confessioni ha elaborato una sua giurisprudenza, che in quella cultura tende a diventare fonte normativa per lo Stato. Non dobbiamo applicare i nostri criteri territoriali: in quelle società le relazioni si sviluppavano e in parte sviluppano senza confini all’interno delle comunità tribali e delle affinità religiose, ed erano i notabili di queste entità intermedie che mediavano col potere di re, sultani, califfi o dittatori le libertà e molte delle risorse per i loro clienti. (L’arcivescovo armeno-cattolico di Istanbul Levon Zekiyan, già direttore del Collegio Armeno di Venezia, raccontava che nella Siria del tiranno Assad, almeno prima della guerra civile, esisteva un consiglio delle diciotto comunita religiose o etnico-religiose riconosciute, comprese quelle cristiane, i cui leader avevano il passaporto diplomatico e il riconoscimento della rappresentanza degli interessi della loro gente: modello che ovviamente preferiva a quello dell’imposizione a tutti della legge islamica, auspicato da molti rivoltosi.) Il contrasto religioso finisce pertanto col coincidere col conflitto di potere di comunità di cui spesso il minimo che si possa dire è che non si vogliono bene, che attraversa facilmente i confini e anche le culture nazionali. Fra i paesi musulmani il solo Iran è prevalentemente sciita almeno dal XVI secolo, quando una dinastia di quella confessione prese il potere. In tempi moderni anche fra gli sciiti si sviluppò una importante élite intellettuale, a volte laicista; e peraltro anche la dinastia regnante dei Pahlevi dimostrava tendenze occidentalizzanti. L’occidentalizzazione sul modello turco era incompatibile con un mondo governato dalla legge religiosa e recava con sé valori sociali non integrabili. Il mondo tradizionale sciita da un lato cercò di condizionare la monarchia con il suo appoggio, e dall’altro venne investito a sua volta dai mutamenti sociali (soprattutto l’inurbamento) e dal nuovo clima culturale. Nello sradicamento territoriale il riferimento delle masse popolari, anche dal punto di vista assistenziale, divenne ancor più il clero, che trovò in alcuni esponenti convergenze con l’antiamericanismo e il populismo delle sinistre e addirittura con le dottrine marxiste. Prevalse però, quando fu il momento, la dottrina di Khomeini della “tutela dei giureconsulti”: Dio avrebbe comandato un governo islamico, e solo gli ulema più autorevoli, che conoscevano le complicatezze della religione, potevano e dovevano attuarlo direttamente. Le masse popolari sciite sostennero i loro punti di orientamento esistenziale e di assistenza materiale – e poi furono imbrigliate come tutti dal controllo severissimo di un regime che si è dimostrato presto molto corrotto, sostenuto da spregiudicate milizie ufficiali e non ufficiali anche di tipo paramafioso, programmaticamente oscurantista, dominato in un primo tempo da un leader ipercarismatico ambiguamente denominato a volte come Vice del Dodicesimo Imam; sempre più dittatoriale anche all’interno del suo mondo confessionale, in cui è ammessa una certa dialettica elettorale controllata fra le diverse tendenze (ma attualmente due ex candidati di tendenze aperturiste sono da anni agli arresti domiciliari); non insensibile, però, alle esigenze assistenziali ed economiche della società di cultura tradizionale, compresa la borghesia dei bazar. Il 1988 segno l’inizio di una vicenda drammatica che dura da quarant’anni, che vedrà da un lato l’Iran alimentare l’entusiasmo della riscossa degli sciiti di ogni paese, cercando di non inasprire i contrasti coi sunniti in nome dell’antimperialismo, e dall’altro le potenze conservatrici come l’Arabia cercare di attizzare in ogni modo questi contrasti, anche facendo degli sciiti un obiettivo per le forze terroristiche che gravitano bene o male nella loro orbita. Nell’Iraq a maggioranza sciita per converso gli sciiti, dopo l’occupazione americana, han sostenuto per opportunità il criterio democratico della maggioranza e della rappresentanza, ispirandosi spesso alla religiosità quietista dell’ayatollah al Sistani e del centro religioso di Najaf, e son divenuti a lungo il principale bersaglio dello Stato islamico e delle altre formazioni sunnite estremiste, mantenendo con le autorità iraniane un rapporto controverso e differenziato a seconda dei gruppi.
Una difficoltà di fondo in prospettiva credo esista anche al livello delle nazionalità. Riconosciuti sulla carta, i diritti dei molti milioni di azeri, arabi, baluci, curdi all’espressione della propria cultura non risultano rispettati, e il persiano resta l’unica lingua di insegnamento nelle scuole. Fra l’altro, tranne gli azeri, queste popolazioni sono per lo più di obbedienza sunnita; i curdi saranno poi senz’altro non indifferenti rispetto al loro riscatto nazionale in Iraq, dove godono ora di una amplissima autonomia. Sintomatico può essere il fatto che sproporzionatamente elevata risulta fra le minoranze l’incidenza di condanne alla pena capitale per il reato tipicamente arbitrario e inafferrabile di “inimicizia contro Dio”. Se i seguaci delle religioni del Libro, ebrei e cristiani, non sono perseguitati in quanto tali, peggiore sorte capita a chi è considerato pagano: ne sanno qualcosa particolarmente i baha’i, di cui ricordo esuli civilissimi dalle nostre parti già all’inizio degli anni Ottanta.
Un aspetto che colpisce particolarmente, nel quadro impressionante di torture, maltrattamenti e degrado carcerario che caratterizza peraltro anche molti altri paesi, è la persistenza, in un codice penale non privo di finezze giuridiche, di arcaismi che sopravvivono per la convinzione che quanto sta scritto in alcuni testi dell’alto medio evo siano necessariamente norme valide ora e in eterno. Sono pene previste e legalmente inflitte, fra l’altro, la fustigazione, l’accecamento, l’amputazione, la crocifissione e la lapidazione. Per noi appartengono a un passato molto remoto; per gli iraniani, rappresentano la forzata cristallizzazione nel passato imposta da un potere retrivo.
Concludo questa divagazione non tanto ottimistica cercando di trarne la morale, che poi si può riassumere in motti che tutti conosciamo. Gli ideali, i principi, lo slancio morale non devono obnubilare o sostituire romanticamente la capacità di analisi dei fatti, anche se possono ben essere, guidati dalla ragione, spinta per l’azione e motore del cambiamento. E’ sempre possibile cercare di lasciare il mondo, bello o brutto che sia, migliore di come lo abbiamo trovato. Per far questo, guarda un po’, servono sia il pessimismo dell’intelligenza, sia l’ottimismo della volontà.
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