Mario Miegge: Memorie del “lavoro politico”
DIBATTITO SULLA STORIA DEI RAPPORTI TRA CAPITALE E LAVORO
Il seguente testo è stato pubblicato in “Inchiesta” 174, 2011, pp.28-38
Delineando, alcuni anni or sono, la Parabola del lavoro, Pino Ferraris riepilogava i mutamenti strutturali che hanno drasticamente ridimensionato “il ruolo centrale della fabbrica […], della grande fabbrica che era stata da sempre il veicolo della solidarietà e della coalizione degli operai per il conflitto”.
Con la regolazione informatica dei cicli di produzione in tempo reale, la centralizzazione verticale del comando va di pari passo col decentramento orizzontale del lavoro, “periferico e non tutelato”.
“Ma credo che un fattore importante dello slittamento ai margini del lavoro sia dovuto (in Italia e in Europa) soprattutto alla rottura del rapporto tra lavoro e politica. Si sono esauriti quasi due secoli di socialismo politico, che, pur nelle sue diverse manifestazioni, si presentava come un progetto di trasformazione sociale radicato nella condizione del lavoro subordinato” (Ferraris, 2009, p. 5)
Alla luce della rottura tra lavoro e politica può essere rievocata una locuzione, di senso opposto, che ebbe corso tra i militanti degli anni 1960 e 1970 . Esposto – come ogni metafora – ad abusi retorici, il “lavoro politico” designava, nelle intenzioni degli attori, un agire di gruppo, collegato al movimento operaio e indirizzato alle pratiche di comunicazione, mobilitazione e decisione collettiva nei conflitti sociali e nell’esercizio del controllo dal basso. Ma perché quella attività prendeva il nome di lavoro?
La congiunzione delle due parole segnala, da un lato, l’ascesa moderna del “lavoro” nel linguaggio abituale e nei traslati filosofici (per esempio nello hegeliano “lavoro della Storia”), dall’altro i mutamenti della prassi e dei modelli della “politica”. Nella Rivoluzione dei santi (pubblicata nella temperie movimentata degli anni ’60) Michael Walzer osserva che, inaugurando “the modern politics”, i puritani inglesi del ‘600 sono stati i primi a concepire la politica come un lavoro (“a kind of work”, Walzer, 1965, pp. 2 e 218), affidato agli uomini comuni e palesemente contrapposto alla privilegiata “arte di governo” dei Principi e dei Nobili. E quella trasformazione giunge a compimento quando la classe operaia irrompe nell’agone politico.
Il progetto socialista andrà tuttavia incontro a nuove divaricazioni tra i vertici e la base. Organizzate nei partiti, le “avanguardie del proletariato” assumono ruoli , tendenzialmente professionali, di direzione e guida. Le lotte economiche e la loro gestione sindacale (sovente bollate di “tradunionismo”) sono subordinate alle strategie politiche, nelle opposte versioni del riformismo e della “via parlamentare al socialismo”, da una parte, della conquista rivoluzionaria del potere dall’altra. Ma, nella costruzione del socialismo di Stato, la dittatura del Partito distruggerà gli istituti della democrazia operaia.
Dopo gli eventi del 1956 (dal XX congresso del PCUS all’invasione dell’Ungheria), in Italia fu riaperta, per iniziativa della sinistra socialista, la discussione sul “controllo operaio”. Nel 1958 Mondo operaio pubblicò le Sette tesi redatte da Lucio Libertini e Raniero Panzieri, condirettore della rivista ufficiale del PSI. Riproponendo la questione del passaggio al socialismo, gli autori scrivevano tra l’altro:
“gli istituti del potere proletario devono formarsi non già dopo il salto rivoluzionario, ma nel corso di tutta la lotta del movimento operaio per il potere. Questi istituti debbono sorgere nella sfera economica, laddove è la fonte reale del potere” (Panzieri, 2006, p.301).
In dissenso riguardo alla scelta governativa del PSI, Panzieri rinunziò agli incarichi di partito e si trasferì a Torino, dove fondò e diresse (fino alla morte prematura nel 1964) i Quaderni rossi, pubblicati dall’Istituto Rodolfo Morandi. Il primo numero (settembre 1961), prodotto In collaborazione con i sindacalisti della Camera del Lavoro di Torino, indagava la forte ripresa di conflittualità nelle aree industriali del Piemonte, ponendo in evidenza il carattere politico delle nuove lotte operaie. In quel quadro, Panzieri e Il gruppo torinese dei Quaderni rossi assegnarono un ruolo centrale alla inchiesta operaia, progettata – per l’appunto – come “lavoro politico” (v. sotto, §§ 1-2)
All’incirca dieci anni dopo, a partire dall’”autunno caldo” del 1969, ebbe luogo in Italia una straordinaria avanzata del movimento operaio e della attività sindacale, trasformata nelle sue strutture di base. La creazione dei consigli di fabbrica aprì la via ad esperienze di controllo operaio sulla organizzazione del lavoro e sulle condizioni ambientali delle fabbriche. L’esercizio effettivo del controllo richiedeva stabilità e saldezza dei gruppi operativi ma anche un incremento di competenze specifiche. Di conseguenza, le prestazioni degli esperti (medici del lavoro, operatori sociali ecc.) furono riconfigurate nel lavoro di gruppo e nello scambio reciproco dei saperi empirici e scientifici. Ed inoltre, la conquista contrattuale di un monte-ore destinato alle attività di studio fu gestita dai consigli di fabbrica in collaborazione con i docenti della scuola pubblica e dell’Università. I progetti e l’impianto dei corsi delle “150 ore” produssero innovazioni nei contenuti e nelle forme dell’insegnamento e stimolarono il riesame critico dei ruoli istituzionali e dei rapporti tra cultura, politica e lavoro (§§ 3-4).
Quella stagione di intensa rielaborazione politica delle forme della attività sociale, sindacale e professionale, fu di breve durata. Ma vale forse la pena di riparlarne nella presente oscurità dei tempi.
E, per non ridurre il discorso alla laudatio temporis acti , si può infine rivolgere attenzione alle figure, oggi possibili, di un lavoro nuovamente dotato di senso e capacità progettuale, rialzato nelle competenze e politicamente orientato: un lavoro, insomma, idoneo a fronteggiare la crisi economica, la disgregazione del tessuto sociale e la devastazione dell’ambiente vitale (§ 5).
1. La politica ricollocata nella fabbrica
Con l‘ironia gioiosa che gli era abituale, Vittorio Foa ha scritto nella sua autobiografia:
“In quel periodo [negli anni fra il 1959 e il 1963] ho scritto molto e sempre su quel tema, il potenziale politico delle lotte operaie, il loro contenuto intrinseco di socialismo, di un socialismo “dal basso”. […] Ricordo, fra l’altro, un mio articolo del 1961 che apriva il primo numero dei “Quaderni rossi” di Raniero Panzieri. Adesso non mi sento di rileggerlo perché penso a come deve essere “datato” cioè invecchiato” (Foa, 1992, p. 273).
Intitolato Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, il primo numero dei QR non è però un manifesto ideologico. E’ costituito, principalmente, dai resoconti di un gran numero di vertenze aziendali del 1960, nei vari comparti dell’economia piemontese, redatti da giovani militanti (in parte iscritti alla locale Federazione del PSI) e da alcuni dirigenti dei sindacati torinesi della CGIL (della quale Foa era vice-segretario nazionale). Alla introduzione di Foa fa seguito una ampia e articolata Cronaca delle lotte ai cotonifici Valle di Susa di Giovanni Mottura. Nel terzo articolo (Sull’uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo) Raniero Panzieri riprende in esame la Quarta sezione del Primo libro del Capitale e ripropone, alla fine, il tema del “controllo operaio in una prospettiva rivoluzionaria” ( Panzieri, 1961, pp. 53-72).
“La lotta nella fabbrica è già un inizio di discorso politico”, scrive Foa nelle prime pagine (1961, p.10). Nei testi del Quaderno l’elemento “politico” si manifesta, da una parte, negli obiettivi di lotta che affrontano l’organizzazione del lavoro e il potere di decisione nella fabbrica e, dall’altra, nelle modalità di conduzione del conflitto.
1.1. Riguardo alla questione del potere, Foa fa questa premessa :
“Nella grande fabbrica, quando nasce la coscienza di classe, l’operaio avverte con esattezza la potenza organizzativa e tecnica del capitalista, sa che è lì che si decidono le cose, impara che il potere di decisione del padrone sul suo lavoro è anche potere di decisione sulla sua vita e quella dei suoi compagni.”
Vittorio Rieser (che aveva allora ventidue anni e, come Mottura, era studente di filosofia nell’Università di Torino) chiarisce l’uso del termine “politico”:
“Esso va riferito, mi sembra, alla relazione tra le lotte e i rapporti di potere nella fabbrica. Si può proporre quindi una definizione provvisoria del termine. Possiamo parlare di “contenuto politico” delle lotte nella misura in cui la modificazione dei rapporti di potere nella fabbrica non è vista solo come strumento temporaneo (lo sciopero come prova di forza saltuaria, a fini salariali), ma è vista essa stessa come obiettivo permanente e principale delle lotte” (Rieser, 1961, p. 83).
Panzieri a sua volta valuta i contenuti delle recenti lotte sindacali :
“Le “nuove” rivendicazioni operaie, che caratterizzano le lotte sindacali (prese in esame in questo stesso Quaderno) non recano immediatamente un contenuto politico rivoluzionario né implicano uno sviluppo automatico in questo senso. Tuttavia […] esse contengono delle indicazioni di sviluppo, che riguardano la lotta operaia nel suo insieme e nel suo valore politico. […] Contrattazione dei tempi e dei ritmi di lavoro, degli organici, del rapporto salario-produttività, ecc., tendono evidentemente a contrastare il capitale all’interno stesso del meccanismo di accumulazione […]. La linea tendenziale oggettivamente rilevabile come valida ipotesi-guida è nel rafforzamento e nella espansione della esigenza gestionale. Poiché l’esigenza gestionale si pone non come esigenza meramente di partecipazione “conoscitiva” ma investe il rapporto concreto razionalizzazione-gerarchia-potere” (Panzieri, 1961, p. 70).
E conclude:
“Il controllo operaio, dunque, deve essere visto come preparazione di situazioni di “dualismo di potere” in rapporto alla conquista politica totale” (p. 71).
1.2. Rispetto alle Tesi sul controllo operaio del 1958, le indagini del primo Quaderno rosso forniscono due rilevanti acquisizioni, tratte dall’esperienza diretta dei conflitti. La prima, come si è detto, riguarda gli obiettivi delle lotte sindacali, che dalle vertenze salariali si estendono a tutti gli aspetti del rapporto di lavoro nel quadro delle trasformazioni tecnico-produttive: negoziabili contrattualmente quelle rivendicazioni pongono comunque in questione il potere decisionale dell’impresa.
La seconda acquisizione riguarda le novità nella organizzazione della lotta sindacale, in controtendenza rispetto ad una gestione esterna, di tipo professionale, per non dire “burocratico”. E’ significativo che questo dato sia posto in evidenza non soltanto dai giovani attivisti del gruppo di Panzieri, ma anche dai dirigenti sindacali.
La qualificazione politica delle lotte operaie – prosegue Rieser nel suo intervento – non dipende soltanto dal tipo di rivendicazione ma altrettanto dalle “forme di decisione e di partecipazione operaia che emergono dalla lotta stessa”. E menziona a questo proposito il caso dei Cotonifici Valle di Susa:
Nella lotta, conclusasi vittoriosamente […] gli operai hanno sviluppato forme di decisione e di partecipazione unitaria (assemblee di fabbrica), che ora dovrebbero svilupparsi ulteriormente e costituire, attraverso gruppi di reparto, un’organizzazione operaia permanente nella fabbrica. La connessione fra rivendicazioni, lotta e forme di decisione permette in questo caso di parlare non arbitrariamente di contenuto politico (p. 84).
Emilio Pugno, segretario della FIOM di Torino, dichiara a sua volta:
un fatto estremamente importante sono state le assemblee operaie nei giorni di sciopero. […] Si trattava di fare acquisire ai lavoratori la coscienza del significato della loro lotta. Si trattava […] di spiegare, durante la lotta, che lo sciopero non era un punto di arrivo, qualche cosa che i lavoratori avrebbero ricordato “volentieri”, ma un episodio soltanto di una lotta permanente (pp. 111-112).
Gianni Alasia, segretario socialista della Camera del Lavoro, afferma che, per essere un vero agente di democrazia, il sindacato dev’essere concepito e gestito
non come “agente contrattuale” al quale si assegna una funzione di vertice, ma come organizzazione di lotta che rifugge da ogni concezione paternalistica nello sviluppo dell’azione (p. 150).
Ma Alasia rileva anche i limiti della prassi assembleare:
“La forma dell’assemblea è stata assai costante ed in alcuni casi con un carattere di periodica consultazione. Ma a questo livello del lavoro v’è da chiedersi quali limiti può presentare l’assemblea: essa indubbiamente realizza la consultazione democratica; ma la consultazione sovente non è ancora elaborazione diretta e diretta assunzione di responsabilità. Essa, cioè, esprime un rapporto di consenso (o di dissenso, come s’è verificato) sulle proposte e sui giudizi del sindacato. Ma fra il consenso e la diretta assunzione di responsabilità v’è ancora molta differenza”.
E segnala a questo proposito la nuova presenza operativa dei delegati di reparto:
“Ci pare assai importante il passo in avanti – per citare un esempio – compiuto all’Aspera-Frigo, ove nel corso della lotta ha preso forma il Comitato dei delegati di reparto. Non, cioè, una generica elezione di un gruppo più o meno fiduciario o di delega, ma la scelta specifica di quei lavoratori che naturalmente, per la loro collocazione produttiva e per soggettive capacità, intrattengono un democratico rapporto col reparto o gruppo di operai. Esce così una forma di responsabilizzazione non più genericamente espressa dall’assemblea, ma una designazione che s’accompagna al controllo, alla verifica, ad un rapporto ed una circolazione sempre presenti. Ciò valorizza la stessa assemblea operaia, porta avanti con maggiore coerenza le sue decisioni, supera il carattere di genericità e di anonimato che si riscontrano nelle manifestazioni plenarie” (p. 156)
Ho dato spazio a queste citazioni perché, all’inizio degli anni 1960, esse anticipano la svolta organizzativa e strategica della attività sindacale che avverrà alla fine del decennio e darà vita ed effettivi poteri di controllo ai Consigli dei delegati di fabbrica.
Purtroppo la produttiva interazione tra il gruppo dei Quaderni rossi e i sindacalisti si interruppe precocemente per dissensi e incomprensioni riguardo alla “linea politica” (v. a questo proposito V.Foa, C. Ginzburg, 2003, pp.54-58; M. Miegge, 2006, pp. 186-190) .
2. Il lavoro dell’inchiesta
“L’inchiesta operaia accompagna, per così dire, tutto il percorso dei Quaderni rossi”(Rieser, 2006, p. 233). Il QR 5 (Intervento socialista nella lotta operaia, aprile 1965) raccoglie i testi del seminario tenuto a Torino nel settembre del 1964, nel quale i temi della politica in fabbrica sono direttamente collegati alla costruzione del metodo di inchiesta ed alla riflessione sul sapere sociologico.
Nel suo ultimo intervento pubblico (poche settimane prima della morte) Panzieri mette in guardia contro i pregiudizi anti-sociologici:
ho l’impressione che alcuni compagni portino ancora, verso la sociologia e l’uso di strumenti sociologici, diffidenze che a me non sembrano giustificate, che a me sembrano essenzialmente motivate da residui di una falsa coscienza, cioè dai residui di una visione dogmatica del marxismo (Panzieri, 1965, p. 68).
Ma, a differenza delle scienze sociali egemoni (eredi della “economia politica”) , dal punto di vista del marxismo “la società capitalistica è fondamentalmente una società dicotomica” e questa dicotomia determina la distinzione dei livelli dell’ indagine – del capitale e della classe operaia – ed i rapporti tra l’indagine e l’azione politica.
La dicotomia sociale […] comporta un livello d’indagine scientifica molto alto, sia per quel che riguarda il capitale, sia per quel che riguarda l’elemento conflittuale e potenzialmente antagonistico che è la classe operaia (p. 73).
Il lavoro della inchiesta operaia è indispensabile proprio per il fatto che l’antagonismo è potenziale: non è meccanicamente deducibile dalla analisi dello sviluppo capitalistico e non è neppure un dato invariabile, insediato nella “coscienza di classe”.
“Il metodo dell’inchiesta cioè è il metodo che dovrebbe permettere di sfuggire ad ogni forma di visione mistica del movimento operaio, che dovrebbe assicurare sempre un’osservazione scientifica del grado di consapevolezza che ha la classe operaia, e dovrebbe essere quindi anche la via per portare questa consapevolezza a gradi più alti. Da questo punto di vista c’è una continuità ben precisa tra il momento dell’osservazione sociologica, condotta con criteri seri e rigorosi, e l’azione politica: l’indagine sociologica è una specie di mediazione, se si fa a meno della quale si rischia di cadere in una visione o pessimistica o ottimistica, comunque assolutamente gratuita, di quello che è il grado di antagonismo e di coscienza di classe da parte della classe operaia” (p. 73).
L’ inchiesta operaia coincide con il “lavoro politico” (come vien detto da Panzieri stesso e negli altri interventi del QR 5) perché essa si configura necessariamente come “conricerca”.
Quel termine compare inizialmente in un contributo critico che era stato richiesto a Franco Momigliano riguardo al primo numero della rivista :
La “ricerca” è dal gruppo dei QR concepita come “con ricerca”, cioè come ricerca che trova il suo elemento di verifica e validità nella sua stessa capacità di determinare un processo di partecipazione.
Le esperienze ed indagini condotte nel corso delle lotte operaie sono indirizzate
a realizzare una particolare situazione, in virtù della quale: a) l’operaio diventa protagonista non
solo della lotta, ma anche della ricerca, all’interno dell’azienda, sulla propria condizione nei rapporti con il processo interno di produzione; b) il ricercatore sociale non si concepisce, nel momento della sua indagine, solo come un osservatore obiettivo esterno, ma come un protagonista attivo e direttamente impegnato nella lotta operaia. […] La ricerca viene così concepita come un elemento di sollecitazione di un processo nuovo di iniziativa e di partecipazione dal basso alla formazione decisionale dell’organizzazione sindacale (Momigliano,1962, p. 100).
E in un breve appunto ritrovato da Stefano Merli, Panzieri aveva scritto che “conricerca e controllo operaio sono in funzione reciproca” (2006, p. 340).
3. Rielaborazione dei saperi e diritto allo studio nella stagione sindacale degli anni ’70.
In una lunga intervista del 1980 su Il sindacato dei consigli Bruno Trentin (che era a quel tempo Segretario generale della CGIL, dopo aver diretto la FIOM dal 1962 al 1978) fa la seguente considerazione:
tutta la materia rivendicativa sulla organizzazione del lavoro, che già matura in quegli anni [a partire dall’inizio del decennio 1960] presupponeva dei centri di elaborazione collettiva delle rivendicazioni e di gestione collettiva delle conquiste che non trovavano spazio negli strumenti sindacali allora esistenti e disponibili (Trentin, 1980, p. 17).
La svolta avvenne con la creazione dei delegati di linea e di reparto, che costituirono i nuovi consigli di fabbrica:
“I primi delegati traggono la loro origine da accordi sindacali per gestire, con nuove forme di partecipazione collettiva, il controllo delle condizioni di lavoro. I primi accordi sui delegati nascono per controllare i sistemi di cottimo e i tempi alle linee di montaggio. […] L’obiettivo dei delegati di linea sarà, poi, al centro della battaglia sindacale alla Fiat nel ’69. Anche in questo caso essi erano stati concepiti quali strumenti di una politica rivendicativa la quale aveva bisogno, per la sua stessa gestione, di nuove forme di partecipazione, di democrazia interna” (pp. 19-20).
Intervento su tutto l’arco delle condizioni di lavoro nella fabbrica ed innovazione, a questo fine, delle strutture di base dell’organizzazione operaia sono per l’appunto le questioni che ho segnalato nelle pagine precedenti.
Sono convinto che, pur con una efficacia di non lunga durata, il “sindacato dei consigli” abbia posto in atto modalità specifiche di controllo operaio. Nelle Sette tesi di Panzieri e Libertini del 1958 il controllo operaio era ancora soltanto un sensato assioma politico. Ma fu poi intravisto in statu nascendi nelle lotte del 1960 documentate e analizzate nel primo Quaderno rosso.
Le differenze sono peraltro evidenti. Infatti, le forme di controllo operaio degli anni ’70 si collocavano interamente sul piano della prassi sindacale e non erano più proiettate in una “prospettiva rivoluzionaria” e neppure in un disegno esplicito di “dualismo di potere”. Ma è anche vero che, a quel tempo, la nuova forza propulsiva dei sindacati italiani nell’insieme della società fu vista con diffidenza dai titolari della politica istituzionale. I partiti (anche della sinistra) avvertivano un rischio di sorpasso da parte delle organizzazioni sindacali e posero freno ai processi di unificazione che avevano avuto inizio nella Federazione dei lavoratori metalmeccanici (FLM).
Senza riaprire una controversia, oggi purtroppo del tutto anacronistica, mi limiterò a indicare alcune conseguenze della nuova strategia sindacale, che riguardano la rielaborazione “politica” dei saperi e dei ruoli professionali: le pratiche di “conricerca” da un lato, i rapporti tra lavoro e studio dall’altro.
3.1. In un documento della FLM di Reggio Emilia si legge:
Nelle lotte degli ultimi anni la classe operaia ha messo in discussione l’attuale organizzazione del lavoro, ha deciso di cominciare a cambiarla, ha sempre più scoperto quindi che su questa strada impadronirsi del sapere è un elemento decisivo per crescere (AA.VV., 1973, p. 3).
Le domande riguardo alle prestazioni degli “esperti” si precisarono in primo luogo nel campo della medicina del lavoro, nel quale erano più solide le pretese di oggettività e neutralità del sapere scientifico. In un articolo su La difesa della salute dalle fabbriche al territorio il medico del lavoro torinese Ivar Oddone prospetta “un linguaggio ‘universale’ sull’ambiente di lavoro”:
l’aggettivo ‘universale’ sta a indicare la capacità di questo linguaggio […] di rendere possibile la comunicazione da parte dei tecnici nei confronti della classe operaia e delle scoperte scientifiche dei gruppi omogenei tra di loro e ai tecnici. Questa comunicazione (socializzazione) non ha senso se vista in termini tradizionali di semplice informazione, ma acquista un senso se vista ai fini della trasformazione dell’ambiente di lavoro a misura della classe operaia (Oddone, 1972, p. 27).
Nel 1973 Francesco Ciafaloni presenta le attività di dibattito, ricerca e intervento in corso nella FLM di Torino, ed in particolare nello stabilimento FIAT di Mirafiori, riguardo alla nocività della organizzazione e dell’ambiente di lavoro.
Si tratta di un terreno di lotta e contrattazione ancora in larga misura inesplorato e nel quale le rivendicazioni erano indirizzate prevalentemente alla monetizzazione dei rischi. Adesso invece
gli operai giovani sono stufi di logorarsi la vita in dieci anni come i padri. Ma mentre si è tutti d’accordo che la diminuzione o l’eliminazione della nocività è un obiettivo in sé valido […] il discorso si complica appena si passa a chiarire cosa significa ridurre o abolire la nocività o migliorare l’ambiente.
Pertanto si deve stabilire un metro per valutare il cambiamento .
Questo metro non può che essere elaborato a partire dalla condizione di lavoro degli operai,dal gruppo operaio omogeneo […]. Occorre quindi che ci sia la collaborazione degli operai, delle organizzazioni [sindacali], di ricercatori che siano ragionevolmente al corrente delle esperienze in corso in questo campo, delle possibili ipotesi di mutamento e diano il loro contributo nell’impostare la discussione.
Per aprire e gestire vertenze specifiche ed efficaci i consigli di fabbrica ed i ricercatori devono dunque attivare le seguenti pratiche di gruppo:
elaborare un linguaggio aderente alla percezione operaia della propria condizione di lavoro;
rilevare i mutamenti tecnici e organizzativi in corso […];
aprire un dibattito su possibili tendenze alternative nell’organizzazione del lavoro.
Ed infine si dovranno “trarre le conseguenze dei risultati della ricerca per quel che riguarda la scuola e in generale la formazione operaia” (Ciafaloni, 1973, p.5).
A questo punto entrano in campo le nuove forme di diritto allo studio.
3.2. Nel Contratto nazionale di lavoro (CNL) del 1973 la FLM ottenne per tutti gli addetti delle aziende metalmeccaniche un pacchetto di 150 ore retribuite, destinate ad attività di studio, disponibili nel triennio contrattuale e cumulabili in un solo anno per i corsi di formazione. Nei CCNL del 1976 quella conquista sindacale fu estesa a tutte le categorie dell’industria e dei servizi (ed ampliata a 250 ore nel contratto dei metalmeccanici).
Quali erano le novità normative ed operative ?
In primo luogo, le “150 ore” non erano una estensione delle agevolazioni concesse a titolo individuale (e in misura variabile e assai ristretta) ai lavoratori-studenti, bensì un diritto acquisito da tutti i lavoratori, che doveva essere gestito dagli organismi sindacali di base.
In secondo luogo, non erano destinate a corsi di addestramento professionale (aziendali o extra-aziendali), previsti e regolati in altre parti del CNL, ma alla formazione culturale di base. Come è detto dal sindacalista Antonio Lettieri:
si tratta di una conquista da usare politicamente per l’appropriazione collettiva da parte dei lavoratori di strumenti di conoscenza, di intervento e di controllo tanto sul processo produttivo interno alla fabbrica, come sul rapporto fabbrica-società (AA.VV., 1973, p. 78).
Subito dopo la firma del contratto la FLM stabilì le linee direttive della utilizzazione del monte-ore: “da una parte la gestione collettiva delle 150 ore da parte dei consigli di fabbrica; dall’altra, l’uso delle 150 ore nell’ambito della scuola pubblica” (ivi, p. 79) .
A fronte delle forti disuguaglianze culturali, ancora sussistenti a quel tempo tra i lavoratori dell’industria, la scelta prioritaria fu quella del recupero dell’obbligo scolastico. I corsi progettati a questo scopo (ed istituiti nel 1974 dal Ministero della Pubblica Istruzione) presentavano due rilevanti differenze rispetto a quelli già esistenti nelle scuole serali: la durata non era triennale ma annuale (12 ore settimanali per un periodo di sette mesi) e i programmi di studio erano progettati in cooperazione tra gli insegnanti e i delegati dei consigli di fabbrica e delle organizzazioni di categoria. I contenuti delle materie istituzionali (linguistiche, storiche e scientifiche) e i procedimenti della didattica furono rielaborati e diedero spazio alla storia del movimento operaio, alle attività ed ai rapporti di lavoro, alla ricostruzione dei percorsi biografici dei partecipanti.
In tal modo prendeva corpo un intervento decisamente innovativo nella compagine della scuola pubblica, già enunciato nei primi documenti programmatici della FLM:
le 150 ore, a differenza dei corsi serali frequentati dai lavoratori-studenti, possono inventare dei programmi e dei contenuti di studio del tutto nuovi rispetto agli attuali programmi scolastici e porsi quindi come esempio alternativo (AA.VV., 1973, p. 61).
Nel 1974 i corsi istituiti nella scuola media statale furono 900, nel 1975 salirono a 2100. Nei primi quindici anni dei corsi quasi un milione di lavoratori metalmeccanici e delle altre categorie conseguirono i titoli finali della scuola dell’obbligo.
Furono inoltre organizzati corsi e laboratori nelle Università, su temi specifici di tecnologia ed economia, sociologia e storia, salute e medicina del lavoro. Bruno Manghi, che fu tra i più attivi promotori ed organizzatori delle “150 ore”, scriveva a questo proposito:
l’ingresso nell’università dei lavoratori non porta con sé l’esistenza di conoscenze già pronte e sistemate da parte dell’organizzazione. E non si tratta di difficoltà di traduzione di un linguaggio che pure si è verificato e rimane comunque un problema didattico. Il problema vero e più ambizioso è quello di produrre conoscenze nuove espresse dalle lotte sviluppatesi in questi anni, ma che non siamo in grado di sistematizzare (AA.VV., 1975, p.11).
A distanza di trenta e più anni, quella esperienza, impegnativa e per molti aspetti esaltante, permane nel ricordo di chi vi prese parte.
C’era, allora, un sindacato presente nel territorio, una disponibilità a intercettare le energie positive, dovunque fossero […], che è oggi inimmaginabile […]. La risposta importante fu degli insegnanti, di quelli innamorati di Don Milani, dei protagonisti delle battaglie per la nuova scuola dell’obbligo (nata solo un decennio prima, nel 1962), del sindacalismo confederale della scuola, anch’esso sorto da poco sulle ceneri di vecchie corporazioni (Farinelli, 2009).
3.3. L’ascesa del sindacato dei consigli aveva dato vita e forza progettuale ai corsi delle 150 ore e ne aveva assicurato l’organizzazione e l’espansione. Ma alla fine degli anni ’70 l’attività dei consigli di fabbrica fu posta in crescente difficoltà dal cambiamento congiunturale che favorì la controffensiva padronale in fabbrica.
Già nel 1980 Bruno Trentin dichiarava a questo proposito:
negli ultimi tre anni, di fronte all’aggravarsi della crisi economica e sociale, ai processi di ristrutturazione e di trasformazione tecnologica […], di fronte ai processi di decentramento produttivo, il movimento sindacale nel suo insieme ha allentato il suo impegno sui temi dell’organizzazione del lavoro, ripiegando in molti casi sulla difensiva (Trentin, 1980, p. 41).
Ma i consigli di delegati erano sorti per l’appunto nella lotta “per mutare le condizioni di lavoro e per trasformare sia pure gradualmente l’organizzazione del lavoro e della produzione”. Pertanto
se c’è stato – come c’è stato – un ripiegamento del sindacato su questo fronte […], era inevitabile a che il consiglio di fabbrica ne risentisse gli effetti, sino a vivere in certi casi una vera e propria crisi di identità (ivi).
Questo ripiegamento segnò anche la vicenda delle “150 ore”. Saturata in larga misura la domanda di completamento dell’obbligo scolastico da parte dei lavoratori dell’industria, il reclutamento dei corsi si aprì ad altri utenti (casalinghe, immigrati ecc.). Ma quella riconversione – socialmente e politicamente lungimirante – non trovava più appoggio in una strategia complessiva del movimento operaio e delle sue rappresentanze istituzionali. Allentati i rapporti tra la scuola e i consigli dei delegati e tra lavoro e studio, la carica innovativa delle “150 ore” si andò esaurendo. A guisa di epitaffio, Fiorella Farinelli ha scritto nel 2009:
La partita fu archiviata. I corsi lasciati alla scuola e ai suoi sindacati. E in fabbrica, per tutti gli anni novanta, lo spreco di milioni di ore di congedo non usate. Una vera perdita, lo smarrimento […] di quel sapere per contare, di quell’autonomia rispetto alle convenienze aziendali (Farinelli, 2009).
4. Variazioni del “lavoro politico”
Al termine di un resoconto accompagnato da molte citazioni è opportuno mettere a punto alcuni elementi, in parte riassuntivi del percorso e in parte aggiuntivi, riguardo alle relazioni tra “lavoro” e “politica”.
4.1. Le esperienze ed elaborazioni dei decenni ’60 e ’70 che ho cercato di ricostruire erano segnate da una veduta alta della politica. A distanza di molti anni essa mi appare non priva di affinità con la collocazione della politica al rango superiore della attività umana (quello della action) rivendicata da Hannah Arendt nel 1958 in The Human Condition. A quel tempo i suoi scritti non facevano parte del bagaglio culturale dei militanti italiani ed è d’altra parte evidente che a lei la metafora del “lavoro politico” sarebbe apparsa incongrua e fuorviante!
Ma questa idea alta della politica – intesa come prassi di comunicazione e mobilitazione nel conflitto dei poteri e delle classi, in vista della emancipazione dei lavoratori – si contrapponeva esplicitamente agli assetti vigenti, alla divaricazione tra i vertici e la base del movimento operaio e dei partiti della sinistra.
La politica “dal basso” iniziò a riprendere forma, sul piano teorico, nelle discussioni sul controllo operaio alla fine degli anni ’50 e poi, sperimentalmente, nel riconoscimento del carattere direttamente politico delle lotte di fabbrica del 1960. “Lavoro politico” era dunque l’azione rivolta a documentare, portare a consapevolezza e incentivare quella intrinseca politicità. Nel primo numero dei Quaderni rossi (1961) tale proposito era condiviso dai dirigenti sindacali torinesi – che dopo un decennio di dure sconfitte vedevano riaprirsi gli spazi di organizzazione e iniziativa nei luoghi di lavoro – e dai discepoli di Panzieri. E qui va ridetto che, pur continuando a parlare di un “intervento socialista nelle lotte operaie”, il gruppo torinese dei QR fu abbastanza attento a non ricadere nelle trappole del leninismo e della Terza Internazionale, in cui il lavoro politico si identificava con l’azione della “avanguardia del proletariato” – il Partito. E pertanto l’”intervento socialista” fu delimitato nel progetto della inchiesta operaia, nel quale il paradigma dell’”intellettuale organico”, portatore della teoria rivoluzionaria, era messo in mora e sostituito dai procedimenti specifici di una indagine sociologica calibrata sulla dicotomia sociale e gestita in forme di “conricerca”.
Quel progetto non ebbe allora attuazione e sviluppo. Ma indicava anche , in una certa misura, un tracciato alternativo riguardo al ruolo politico del “lavoro intellettuale”, che poteva estendersi nel più ampio campo delle prestazioni solitamente inquadrate nei modelli e strutture delle attività professionali – come di fatto è avvenuto più tardi, negli anni ’70.
4.2. La lunga ondata dei sommovimenti studenteschi – che ha avuto inizio nella Università californiana di Berkeley nel 1964 ed è culminata nel Sessantotto europeo – ha investito le forme istituzionali del sapere, delle scienze e delle tecniche, denunciandone la struttura autoritaria e la funzionalità al dominio di classe. Oltre alla destructio ha però prodotto lo slogan della “politique dans la vie quotidienne”. Col passare del tempo i protagonisti del Sessantotto si ritrovarono ad operare nell’ambito della vita professionale. Ma molti di loro si impegnarono a rielaborare la propria attività quotidiana in direzione di assetti e scambi sociali più egualitari e democratici.
Negli anni ’70 questi propositi trovarono non soltanto stimoli e sollecitazioni ma anche precise aree di esercizio per l’appunto (come abbiamo già detto) nella interazione con il movimento operaio incardinato nei consigli di fabbrica.
Il quadro corporativo delle professioni venne ribaltato nelle nuove associazioni di Magistratura democratica, Medicina democratica, nei gruppi di insegnanti attivi nei corsi delle “150 ore” e in altre sperimentazioni di riforma della scuola.
I risultati furono rilevanti. La legislazione del lavoro e la sua giurisprudenza fecero molti passi in avanti. La medicina di base si orientò maggiormente alla prevenzione ed al confronto con il disagio sociale. Nel comparto della “igiene mentale” vennero demolite le istituzioni più repressive (i manicomi); le pratiche di assistenza e cura furono decentrate nel territorio e si aprirono nuovi spazi di responsabilità e autonomia professionale agli operatori subordinati (infermieri, assistenti sociali ecc.), in contesti di gestione collegiale, sovente agevolate dalla riorganizzazione sindacale.
Ma, come era avvenuto nell’industria, anche nel settore dei servizi pubblici (e in particolare nell’ingigantito apparato sanitario) i rapporti di forza si invertirono negli ultimi decenni del secolo. La “razionalizzazione” di tipo aziendalistico ridusse o soppresse le iniziative di autogestione. Le istanze di una professionalità socialmente attiva furono soverchiate da imperativi di efficienza, burocraticamente imposti agli addetti ma per lo più inattuati nella realtà del “servizio”.
5. La nuova frontiera del “lavoro produttivo”
5.1. Per restituire un senso al lavoro – ed anche un senso politico – non si può eludere la questione della produzione. In termini alquanto generici e senza pretese di rigore scientifico, la possiamo articolare su due livelli: come si lavora e che cosa il lavoro produce.
Negli anni successivi al 1969 l’iniziativa dei sindacati dell’industria si è sviluppata sul primo livello, aggredendo e contrattando le modalità di erogazione del lavoro salariato (mansioni, tempi, rischi ambientali ecc.). Ma neppure nella fase più alta della attività dei consigli di fabbrica era progettabile e proponibile un intervento al livello del “cosa si produce”, interamente governato dalle scelte aziendali, nel quadro di una economia di mercato vieppiù emancipata da ogni vincolo pubblico di programmazione e controllo.
La scissione tra il “come” e il “cosa” si produce non è invece altrettanto radicale nel settore dei servizi pubblici. Qui infatti la produzione dovrebbe corrispondere (per lo meno in linea di principio) a interessi collettivi e modelli di benessere sociale, definiti istituzionalmente dalle politiche nazionali. E pertanto la qualità delle prestazioni è commisurata a fini e criteri di valore, che agevolano anche la percezione che gli operatori hanno di se stessi, del proprio ruolo e della soddisfazione professionale. Ma questa più alta qualità del lavoro si deteriora rapidamente nella crisi del Welfare State (attualmente in corso in tutti i paesi d’Europa che lo avevano costruito dopo la seconda guerra mondiale), nello smantellamento delle strutture pubbliche a favore di quelle private, nel dominio del produttivismo mercantile e dei giochi irrazionali del capitale finanziario.
5.2. Già nel 1972 i ricercatori del MIT associati al Club di Roma, diretto da Aurelio Peccei, avevano enunciato “i limiti dello sviluppo” ed i rischi di un modo di produzione e consumo inconsapevole del proprio impatto ambientale ed incapace di previsioni a lungo termine. Ma soltanto al volgere del secolo si è progressivamente diffusa ed imposta – in gran parte della comunità scientifica, nei prontuari delle Nazioni Unite e di altre organizzazioni internazionali ed anche nella quotidiana divulgazione mediatica – l’evidenza del carattere distruttivo del sistema economico trionfante a livello planetario e celebrato, per più di due decenni, dall’ideologia neo-liberale. E questa percezione è rafforzata dalla cadenza ravvicinata delle catastrofi dell’industria energetica (negli impianti petroliferi del Golfo del Messico nel 2010, in quelli nucleari di Fukushima nel 2011).
I fattori di crisi si addensano sulle nuove generazioni: già duramente colpite nel presente dalla recessione economica, dal ristagno occupazionale e dal dilagamento dell’impiego precario, nel futuro che si approssima sono esposte a tutte le conseguenze della devastazione dell’ambiente vitale.
In uno scenario alquanto oscuro sono ormai innumerevoli ed autorevoli le sollecitazioni ad una “svolta ecologica” dell’economia. Senza far ricorso ad una documentazione che non può essere raccolta nelle ultime righe del nostro testo, evocherò soltanto un aspetto di quella svolta. Il mutamento improrogabile del modo di produzione esige infatti una radicale riconfigurazione dei concetti e delle pratiche del lavoro.
Un esempio, tra molti altri, ci è offerto dal disfacimento fisico del nostro territorio. Il continuo susseguirsi di eventi disastrosi (frane, inondazioni, incendi) è causato, per un verso, dal disordine edilizio e dalla scriteriata “cementificazione” e, per un altro, dall’abbandono delle aree montane e collinari, nelle quali per secoli il lavoro quotidiano ed esperto dei contadini ha garantito la regolazione delle acque e la preservazione dei terreni e dei boschi.
Ora, la tutela del territorio può essere assicurata soltanto localmente e grazie ad una presenza di lavoro cooperativo, dotato di nuove competenze professionali e organizzato in forme stanziali, per mezzo di una agricoltura “sostenibile”, o in forme stagionali e “pendolari”, agevolate in Italia dalla vicinanza tra i centri urbani e le catene alpine e appenniniche. E qui prendono consistenza i progetti di un “lavoro plurale” (Beck, 2000, pp. 86 sgg.) articolato in diversi tempi e luoghi di vita attiva.
La “svolta ecologica” procede, in ogni caso, nella direzione del decentramento produttivo ed associativo. Il risparmio energetico e l‘attivazione delle fonti rinnovabili, la gestione delle risorse alimentari e quella dei rifiuti, implicano da un lato l’incremento (già in atto) di imprese di tipo artigianale tecnicamente qualificate e, dall’altro, un nuovo ruolo delle “economie domestiche”, collegate, le une e le altre, in reti di consulenza, progettazione e scambio operativo.
Tra i molti contributi recenti, particolarmente limpide mi appaiono le considerazioni proposte da Guido Viale in una serie di articoli pubblicati su Il manifesto nel 2010 e 2011, dai quali traggo – in via di conclusione – alcuni passi.
A proposito dell’incidente “apocalittico” di Fukushima viene detto:
Dobbiamo imparare ad attraversare e a vivere dentro un panorama devastato […]. Volenti o nolenti saremo obbligati a cambiare il nostro modo di pensare e dovremo studiare come riorganizzare le nostre vite in termini di maggiore sobrietà; e in modo che non dipendano più dai grandi impianti […], dai grandi capitali, dalle grandi corporations che li controllano e dalle organizzazioni statali che ne sono controllate.
Di conseguenza
dobbiamo adoperarci per mettere a punto strumenti di autogoverno a livello territoriale, in un raggio di azione che sia alla portata di ciascuno, in modo da avvicinare le risorse fisiche alle sedi della loro trasformazione e queste ai mercati del loro consumo e alle vie del loro recupero: perché solo di lì si può partire per costruire delle reti sufficientemente ampie e flessibili che siano in grado di far fronte ad una improvvisa crisi energetica, alle molte facce della crisi ambientale […], al disfacimento del tessuto economico e alla crisi occupazionale che si aggrava di giorno in giorno (Viale, 2011).
E in un precedente articolo era stato definito il ruolo centrale del lavoro nella svolta della green economy. Di fronte ad una regressione ottocentesca delle “relazioni industriali”, intenta a demolire le assise della contrattazione collettiva e della rappresentanza dei lavoratori, sul fronte sindacale la FIOM incomincia a parlare del lavoro come “bene comune”.
Ora, affermare che il lavoro è un bene comune è una proposizione che riguarda certamente, e in primo luogo, la salvaguardia della dignità del lavoro e dei diritti che una società deve garantire ai lavoratori; ma significa anche, e soprattutto, che le modalità in cui il lavoro viene impiegato, le finalità di questo impiego e, conseguentemente, il prodotto stesso (bene o servizio) di quel lavoro sono questioni che possono, e dovrebbero, veder coinvolti innanzi tutto i lavoratori stessi; ma anche tutta la comunità che insiste sul territorio con cui quel lavoro si intreccia.
Insomma, “è il lavoro, comunque, la vera frontiera della conversione ambientale dell’apparato produttivo e dei modelli di consumo” (Viale, 2010).
Siamo partiti dalla diagnosi di Pino Ferraris riguardo alla scissione tra lavoro e politica, determinata dalla caduta del ruolo centrale della fabbrica come “veicolo della solidarietà e della coalizione degli operai per il conflitto”, ma anche (vorrei aggiungere) come referente privilegiato e sovente propulsivo di più vaste iniziative di riforma democratica nella società italiana degli anni 1970.
Venuta meno da lungo tempo, quella “centralità della fabbrica” può essere rimpiazzata adesso dalla “centralità del territorio”? Quest’ultima non è affatto un paradigma ideologico o una proiezione utopistica. Nel territorio infatti si concentrano e si rendono pienamente visibili tutti gli aspetti della crisi ambientale; ma anche le possibilità di risposte effettuali, in termini di controllo e interventi decentrati, affidati alle amministrazioni locali e a nuove associazioni di produttori e consumatori. Nell’universo cieco delle merci può incominciare ad insinuarsi un “lavoro produttivo” finalmente responsabile e progettuale in vista del futuro, indirizzato innanzi tutto alla difesa ed al governo dei “beni comuni” (terra ed aria, acqua e “fuoco” energetico). E questo è forse il significato – non più metaforico – che possiamo assegnare oggi al “lavoro politico”.
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AA.VV. (2011), Le 150 ore per il diritto allo studio, a cura di Francesco Lauria, Edizioni del Lavoro.
NB: A causa del divario dei tempi di stampa, nella rievocazione dell’esperienza delle “150 ore” non ho potuto avvalermi (e me ne rammarico) dei contributi raccolti in questo volume, che sarà in circolazione alla fine del 2011. Gli autori sono in larga misura quelli stessi che ho menzionato e citato in base ai documenti degli anni 1970 (m.m.).
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