Tommaso Furlan: Figli di un Buddha minore? Qualche chiarificazione sul Theravada
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Il Buddhismo non è più solo una suggestione dal sapore esotico, ma è entrato in vari modi nella nostra quotidianità: post sui social, video di monaci influencers spirituali, corsi di meditazione, immagini del Buddha, fraseologia ispirata allo Zen, libri, articoli e siti web che offrono con merito riflessioni semplici, esposizioni dottrinali, consigli di pratica, studi storico-filologici.
Questo non significa che si abbiano le idee chiare, anzi, sia il neofita, sia chi ha strumenti filosofici attrezzati rimane in una condizione ancora confusa e vaga, a volte persino distorta e parziale di fronte al vasto e articolato orizzonte del Buddhismo.
In tutti c’è la percezione di un cammino di serenità capace di riflessione profonda sulla mente e sulla Realtà, ma andando al di là di un approccio superficiale spesso inquinato da alcune interpretazioni ingenue o new age, ci si smarrisce persino fra le fonti affidabili proprio per l’ampiezza e l’articolazione dell’orizzonte, per le sue diverse sensibilità storico-geografiche, per la presenza di categorie logiche e metalogiche spiazzanti.
Nelle serate interculturali o di pratica che propongo mi vengono fatte domande bizzarre che testimoniano queste incertezze: qualcuno pensa che il Dalai Lama sia il papa dei buddhisti, che lo Zen abbia un’origine esclusivamente giapponese, altri sono convinti che l’ottuplice sentiero sia un ventaglio di comandamenti in stile biblico, che la moderna mindfulness esprima la meditazione buddhista nella sua interezza e che a sua volta la meditazione sia l’essenza del Buddhismo dimenticando la dimensione etica, qualcuno si illude che il richiamo all’assenza di dogmi e al cammino personale sia un supermercato del cuore che asseconda l’individualismo spirituale, altri pensano che Siddhartha Gautama Sakyamuni, il Buddha storico, sia un dio o al contrario sia un inguaribile nihilista.
Assai curiosamente il Buddhismo cinese e quello della scuola Theravada, oggi presente nello Sri Lanka e nel Sud-Est asiatico sono dimenticati o emarginati rispetto alle più famose e mediatiche esperienze tibetane e giapponesi o rispetto a una generica idea di Buddhismo sinonimo esclusivamente di benessere dove tutto si appiattisce.
Prima di fare un po’ di chiarezza desidero sottolineare che questo articolo non vuole minimamente riprendere divisioni storiche, proporre livelli di valore fra le varie scuole o dare sostanza conflittuale a diverse sensibilità, ma vuole essere un contributo affinché la pratica di ciascuno sia veramente liberatoria perché questo è il cuore del messaggio buddhista che ha valenza storica e metastorica.
Nella sua dimensione storica è chiaro come si sia inculturato in diverse esperienze spazio-temporali e nella sua dimensione meta-storica è altrettanto chiaro come sia un’espressione universale persino oltre la figura dell’uomo Siddhartha e della sua opera.
Tra le diverse sensibilità, anche chiamate scuole, ce n’è una tutt’ora viva e vitale che in Occidente, ma anche fra una parte degli stessi buddhisti, è stata sottovalutata e sottostimata: sto parlando del Theravada.
Parafrasando il titolo di un noto film sembra che questa scuola sia “figlia di un Buddha minore” perché presentata da sempre come un reperto archeologico (Theravada significa “scuola degli anziani”) quasi fosse un ramo secco, unico residuo di un passato che si è chiuso con quelle esperienze dottrinali dette del “piccolo veicolo” lo Hinayana.
Il termine “piccolo veicolo” sempre presente in manuali, articoli, libri, fa pensare a un’esperienza riduttiva, superata dalla nuova riflessione del Mahayana il “grande veicolo” a cui appartengono tutte le scuole che ci sono più familiari a iniziare dallo Zen e dalle altre scuole giapponesi come per esempio quella di tradizione Nichiren della Soka Gakkai, fino al Buddhismo tibetano che si caratterizza ulteriormente a sé con il nome Vajrayana (veicolo del diamante) per la sua componente esoterica (presente anche in Giappone e in Cina), energetica frammista a tradizioni autoctone.
Il Theravada con il suo nome sottolinea invece l’autorevolezza che si assegna agli anziani e a coloro che tengono come riferimento le esperienze primigenie ovvero le parole dirette del Buddha storico che il Mahayana considera uno dei Buddha ampliando l’orizzonte a una manifestazione ulteriore universale della Buddhità.
Questo come vedremo non significa un minus o un plus, ma una articolazione e complessità di prospettive che si intrecciano.
Noi non percepiamo a pieno la portata del Theravada e il suo cammino moderno anche perché in Italia questa scuola è assente dal nostro immaginario buddhista. Forse molti hanno visto nel Sud-est asiatico le file dei monaci vestiti di arancione o zafferano che chiedono con la ciotola l’offerta del cibo e forse li hanno collegati a piccole o grandi comunità che cominciano a essere presenti sul nostro territorio a iniziare da quella storica e importante del monastero Santacittarama nel Lazio.
Negli ultimi anni, senza che molti se ne siano resi conto, il Theravada, in certe sue espressioni riformate, iniza a essere pubblicato anche in Italia grazie a case editrici illuminate e a siti internet degni di lode e considerazione. Sono gli insegnamenti di monaci come Buddhadasa, Ajahn Chah, Ajahn Sumedho, Thanissaro Bhikkhu fino al nostro compianto Corrado Pensa. Nessuno di loro espone un sistema dottrinale sistematizzato perché non è questo lo scopo, ma indicano una Via di cura della sofferenza, di pratica, di prospettva diversa sulla felicità, sulla Realtà e su se stessi, sempre con mezzi abili, funzionali a chi legge e deve fare il proprio cammino come è stato nella intenzione di Siddhartha.
Inoltre possiamo notare una interessante diffusione di pratiche meditative come il Vipassana con una radice Theravada che in molti validi centri come a “Pian dei ciliegi” propongono ritiri di meditazione e insegnamenti in presenza con monaci e laici discepoli del Theravada.
La mia insistenza nel segnalare questa appartenenza non è la volontà di apporre un’etichetta di merito che sottolinea una divisione, ma ripeto, è rispettare la loro storia, radice, valore oltre il misconoscimento che in Italia da sempre è stato perpetrato per trascuratezza, ricordando però che il Dharma è sempre uno solo, bisognoso di diversi mezzi abili, di trasmissione, studio, esempio.
Le cose stanno cambiando anche grazie alla meritoria e fondamentale opera dell’UBI (Unione Buddhista Italiana) con gli approfondimenti nei suoi siti di riferimento e le sue pubblicazioni anche di autori come Bhikkhu Analayo che con sapienza filologica, riprende le fonti del Theravada ovvero quel Buddhismo antico che fa riferimento diretto al Buddha storico e al Canone Pali.
Per una volta sono proprio gli studiosi italiani, a parte qualche rara eccezione, a essere indietro, la riflessione sul Theravada all’interno dei convegni sul Buddhismo è minoritaria o assente, non ci sono riferimenti universitari e in quei corsi che si occupano di Asia o Buddhismo è altrettanto minoritaria o assente, mentre inziamo a vedere anche senza consapevolezza del lettore e dell’uditore, un contributo sempre più presente dei monaci, dei loro insegnamenti e delle pubblicazioni che li riguardano.
In tutte le vicende umane che veicolano un messaggio spirituale di grande ampiezza e profondità l’incardinarsi nel tempo e nelle culture produce trasformazioni e sistematizzazioni per renderne possibile comprensione e pratica. Dopo la prima temperie a volte eccessiva come un fiume in piena che deborda, c’è la necessità di rendere utile l’acqua per la irrigazione e di impedire che gli argini si rompano, ma spesso il messaggio originario viene invece standardizzato o se ne tradisce lo spirito con una secolarizzazione eccessiva o con una deformazione dottrinale.
Il Buddhismo non ne è stato esente però la sua forza intrinseca perché il Dhamma (Dharma in sanscrito) non è solo il corpus pur straordinario dei suoi insegnamenti diretti, ma è la stessa legge naturale che intrama la Realtà e si intrama di essa, Siddhartha ha messo in moto la ruota nella dimensione storica che ha svelato il suo fondamento meta-storico e universale senza che questo si allontanasse da nessuno, anzi aprendosi a una comprensione esperienziale finalizzata alla trasformazione della nostra condizione e alla liberazione possibile dalla sofferenza. Bisogna fermarsi perché può essere pericoloso arrampicarsi con le parole su questi sentieri che vanno invece sperimentati senza ingabbiarli in definizioni.
Vediamo pertanto come si è aperta questa Via tornando a circa 2500 anni fa nel Nord dell’India quando un uomo Siddhartha Gautama, principe degli Shakya a ventinove anni, già marito e padre, decise di lasciare tutto per rispondere a un richiamo spirituale e per darsi ragione della sofferenza, come punto partenza e non come orizzonte ultimo, svelando una possibile liberazione dalla essa un risveglio fino a una dimensione nirvanica oltre l’identità.
Il milieu culturale nel quale viveva non era alieno a queste scelte e riflessioni, abbondava di guru che si dedicavano a pratiche ascetiche e meditative persino estreme per le quali anche Siddhartha è passato intuendo però che non sarebbero state quelle a indicare una via.
La mitologia sulla sua persona è stata tanta persino in una forma che ne ha messo in dubbio l’esistenza storica, ma gli effetti tangibili del suo insegnamento, necessariamente ascrivibili a un soggetto e non a una mera sensibilità collettiva, ne confermano l’esistenza a iniziare dalla fondazione del Sangha, la comunità monastica e dalla rapida espansione del suo potente messaggio di liberazione che si è rivelato essere un percorso umano da condividere.
Allontanatosi dalla mortificazione del corpo e della vita per abbracciare la “Via di mezzo” il suo sentiero è globale perché coinvolge tutti gli aspetti dell’esistenza: corpo, mente, intenzioni, azioni, livelli di comprensione di sé e della Realtà.
Un risultato che con le nostre categorie definiremmo filosofico, psicologico, antropologico, sociologico e soprattutto soteriologico. La peculiarità sta nel fatto che non si tratta di una speculazione teorica, né di un vago irrazionalismo, non si tratta di una rivelazione divina né di una gnosi, ma di una razionalità esperienziale, di un percorso soggettivo che chiede impegno e responsabilità: da un lato ci sono indicazioni precise, lasciate alla attualizzazione e sperimentazione personale proprio per verificarne la loro efficacia, dall’altro si invita a un obiettivo che supera se stessi partendo dalla considerazione e cura della sofferenza senza mai fuggire dalle “cose come sono” per raggiungere una felicità oltre le nostre categorie di felicità, approdando a una dimensione nirvanica che eccede il livello dell’esperienza consuetudinaria di corpo-mente-realtà.
Siddhartha è da annoverare tra le grandi figure che hanno cambiato l’umanità. Secondo tradizione, successivamente al suo risveglio avvenuto dopo sei anni di ricerca, offrì il primo discorso al Parco delle Gazzelle (o dei Cervi o Daini) a Sarnath vicino a Varanasi (Benares) spiegando a cinque discepoli le quattro Nobili Verità: l’esistenza è caratterizzata da dukkha che è sofferenza, insoddisfazione, precarietà, fragilità esistenziale; la sofferenza ha una radice che è in noi e che non capiamo fra brama, attaccamento, avversione, ignoranza della Realtà impermanente e interdipendente; la sofferenza può cessare perché per tutto c’è inizio e fine, la felicità è possibile; questa liberazione è un cammino che supera anche la nostra ristretta idea di felicità e indica la cura in otto passaggi che sono armonici e non in una scala di importanza: saggezza fra intenzione e comprensione, etica fra parola, azione e modi di vivere, coltivazione della mente-corpo fra concentrazione, consapevolezza, sforzo.
Il Buddha che vuol dire appunto Risvegliato, passò i successivi quarantacinque anni (morendo pare a causa di una intossicazione) a divulgare il suo messaggio con spostamenti continui, insegnamenti che confortavano le persone, che entusiasmavano discepoli sempre più numerosi, offrendo riflessioni di grande profondità, indicazioni di pratica, norme etiche, analisi della mente e della Realtà e poi fondando un ordine monastico con precetti ben più rigidi poiché quella condizione sarebbe diventata quella privilegiata per raggiungere il risveglio.
Non si doveva trattare di un ordine che avrebbe monopolizzato riti e conoscenze, Siddhartha voleva allontanarsi dalla figura dei bramini, si sarebbe trattato di un ordine di persone (all’inizio solo maschi) desiderose di impegnarsi sulla via della liberazione e per poterlo fare avrebbero dovuto non solo avere una cura specifica della pratica meditativa anche con lunghi ritiri nella foresta, ma avrebbero dovuto essere soprattutto un esempio di condotta irreprensibile, avrebbero dovuto vivere una vita frugale, senza toccare il denaro, dipendendo dalla carità, in castità e con numerosi altri precetti da seguire.
Proprio questo rigore fu oggetto di molte discussioni e trasformazioni e assieme alla gestione della mole di insegnamenti da ricordare, impegnò tutto il Sangha alla morte del Buddha.
Per questo quasi subito mentre erano ancora in vita i suoi principali discepoli fu convocato un primo concilio che tradizionalmente si dice essersi celebrato nel 483 a.C. nel quale si recitò a loro cura tutto il Dhamma decidendo anche la sua successiva trasmissione mnemonica e orale per valorizzarne la immedesimazione.
Successivamente, a distanza di quasi un secolo l’uno dall’altro, ci furono altri concili che fissarono un canone. Inzialmente si decise di continuare a tramandare a voce i sermoni (detti sutta ovvero sutra in sanscrito) in Pali perché questa lingua, solo parlata e priva di alfabeto, fece da collante condiviso rispetto ai dialetti del Nord-Est dell’India lungo il Gange dove si era mosso Siddhartha. L’insegnamento tramandato costituì il cosiddetto canone Pali il Tipitaka composto di tre sezioni (pitaka o ceste, canestri): Vinayapitaka ovvero la cesta delle regole monastiche, Suttapitaka ovvero la cesta dei discorsi, Abhidhammapitaka che è un manuale di raffinate riflessioni e analisi psicologiche e filosofiche sulla mente e sulla Realtà. Nel tempo si aggiunsero dei commentari che divennero parte integrante del canone, il più famoso di essi è il Visuddhimagga di Buddhagosha.
Sto necessariamente semplificando a fini espositivi eventi storici molto più complessi e articolati, infatti l’esito dei concili fu la certificazione delle divisioni in diverse scuole su base dottrinale e sulla regola resa più o meno austera. Se ne contarono a un certo punto ben diciotto, ma una linea si distinse per l’intenzione di una fedele adesione agli insegnamenti originari e per un rigore persino maggiore di regole monastiche: fu quella che oggi conosciamo come Theravada, che si originò negli anni dei concili dal Buddhismo dei Nikaya, dalla dottrina Vibhajyavada (dottrina dell’analisi) e da una divisione della scuola Sthaviravada.
Scendere troppo nei dettagli storici in questa sede rischia di essere fuorviante, ma è importante raccontare come per sua forza propulsiva e senza nessun intento confessionale o di conversioni forzate il Dhamma camminò con le sue gambe a Est e a Nord e oggi anche a Ovest.
Nel secolo III sec. a. C. il grande imperatore indiano Ashoka, pur facendo convivere altre realtà, diede un grande appoggio al Buddhismo e alla sua diffusione proprio nella versione Theravada. Il peregrinare dei monaci, a iniziare da suo figlio Mahinda, arrivò in Sri Lanka. Qui, non senza i contrasti tipici delle comunità umane si creò una enclave particolare che permane tutt’ora.
Lo Sri Lanka si fece custode della dottrina originaria, i suoi monaci furono i veri divulgatori del Dhamma che diffusero anche nel Sud-Est asiatico, furono portate alcune reliquie del Buddha che fu cremato, ma fu recuperato un dente conservato oggi a Kandy e fu realizzata una “rigemmazione” di una parte dell’albero della Bodhi sotto cui il Buddha ebbe il risveglio, nacque un nuovo albero tutt’ora presente ad Anuradhapura. Sono luoghi sacri attorno a quali esistono grandi templi che personalmente ho visitato e frequentato.
Questo ruolo di custodia rende anche le università e altri centri dello Sri Lanka un caposaldo per lo studio del Buddhismo antico e per la scuola Theravada. La trasmissione testuale avvenuta da sempre nello Sri Lanka portò per la prima volta a una trascrizione del Canone Pali che essendo senza alfabeto venne realizzata con la grafia locale. Da allora il Canone fu trascritto nei vari alfabeti delle comunità scriventi e oggi abbiamo anche il Canone nell’alfabeto occidentale, lo potete trovare tutto in italiano tradotto dalle altre lingue nel sito: canonepali.net.
Le scritture nel Buddhismo non hanno un valore di intangibile rivelazione, ma indicano la direzione, i metodi, le regola per la cura delle afflizioni mentali e l’analisi della mente, per la imprescindibile dimensione etica con chiari consigli e precetti, per le pratiche necessarie al risveglio nirvanico che resta l’orizzonte ultimo. Sono l’eredità delle parole del Buddha anche se ovviamente molte sono state le interpolazioni, ma nel Buddhismo pur permanendo un riferimento e un confronto scritturistico, non c’è un’ossessione perché quello che conta è la presenza di una ruota quella del Dhamma che è sempre in movimento. La Via di mezzo va percorsa e non adorata staticamente, il canone è un aiuto, un mezzo abile e non un fine attorno al quale erigere mura insuperabili.
In questo spirito infatti successivamente ai primi periodi con lo sviluppo della pratica, della riflessione e dell’incontro con altre culture, si formarono un canone di tradizione cinese e uno tibetano che incorporarono una parte di quello Pali e vi aggiunsero una serie di nuovi sutra scritti in sanscrito (lingua antica e dotta dell’India) frutto di un cammino del Dharma perché verso il I sec. a.C. si affacciò sempre in India una nuova sensibilità che pose l’accento su una considerazione della vacuità e del ruolo del Bodhisattva.
“La forma è vuota e il vuoto è forma”, recita il famoso “Sutra del cuore”, il risveglio è possibile qui e ora, c’è una interconnessione fra Samsara e Nirvana, il Grande Veicolo, il Mahayana si autodefinì tale considerando la Buddhità una qualità umana e il percorso non solo realizzabile da un Arhat, figura che a qualcuno sembra un vestito di taglia troppo stretta rispetto all’ampiezza della figura del Bodhisattva e al suo voto di salvare tutti gli esseri senzienti.
Questa nuova espressione del Dhamma si diffuse verso Nord dando vita al Buddhismo che conosciamo fra Tibet, Cina, Corea, Giappone e parte del Vietnam.
E’ la cosiddetta linea del Nord che ebbe un passaggio fondamentale in Cina, spesso minimizzato nella sua reale enorme importanza storica e dottrinale a testimonianza della misconosciuta spiritualità cinese già autoctona.
Ci fu fatta un’opera di traduzione che impegnò non poco passando da lingue alfabetiche a una lingua ideografica. In Cina il Buddhismo si immerse in una immanenza prima sconosciuta. Interessante un doppio parallelo con il cristianesimo: come il messaggio evangelico di matrice ebraica si è inculturato nella cultura ellenistica attraverso l’opera di san Paolo che utilizzò categorie e lingua greca così i primi traduttori in cinese utilizzarono categorie del taoismo per rendere al meglio il messaggio buddhista. Inoltre come in Palestina il cristianesimo progressivamente sparì lasciando i suoi luoghi sacri meta di pellegrinaggio, così accadde anche per il Buddhismo in India che fu travolto dalle invasioni islamiche e dalle religioni autoctone di matrice induista lasciando quelli che tutt’ora sono i luoghi sacri della vita del Buddha e Lumbini, Bodhgaya, Sarnath, Kusinagar e altrove.
Il Tibet ha fatto quasi storia a sé sposando la sensibilità Mahayana, ma fondendola con la matrice autoctona del Bon e del Tantra che rimane riservata agli iniziati con buona pace di tutti gli occidentali che se ne sono avvicinati anche sull’onda di mitologie fra Shambala e Shangri-la fra le strane interpretazioni della Teosofia e quelle del nazismo esoterico, fino ai moderni ridicoli travisamenti sessuali, senza dimenticare i preziosi studi e viaggi del nostro grande professor Tucci.
In Occidente è arrivato un Buddhismo quasi esclusivamente Mahayana di matrice tibetana e giapponese che per decenni ha avuto una sovraesposizione mediatica, letteraria, di studi di divulgazione dotta e popolare, passando per la cultura di massa post ’68, per le contaminazioni esotiche degli anni ’70 e per l’interesse di alcuni vip fino alla consacrazione della imponente figura del Dalai Lama e di quella di alcuni autori giapponesi di successo e di divulgatori occidentali che a loro si sono ispirati.
Come avrete capito la linea del Buddhismo del Sud conosciuta fra gli studiosi anglosassoni anche per ragioni coloniali, che in Italia è arrivata da poco, è quella del Theravada da sempre presente oltre che nel già citato Sri Lanka, in Birmania, Cambogia, Laos, Thailandia e parte del Vietnam.
In queste nazioni, che da noi hanno poca visibilità, ha contribuito a plasmare la società, la cultura, l’arte, le abitudini, le tradizioni, ne ha scandito l’evoluzione con sfaccettature sia positive che negative.
Fra quella gente i monaci sono tutt’ora rispettati e tutelati in modo specifico, il loro ruolo rimane centrale, indicano la Via come insegnanti e testimoni, il sostegno e la generosità nei loro confronti assegna meriti karmici.
Dal canto loro i monaci si sono sempre occupati dell’istruzione, dell’assistenza spirituale, della cura dei templi che sono luoghi di accoglienza, di ritualità, di pratica e spiritualità, ma anche di superstizione e molti monaci hanno approfittato del proprio ruolo soprattutto quando le sfumature della loro regola si sono smagliate.
Infatti sono tenuti a rispettare precetti chiari e numerosi, che li obbligano a non usare il denaro, a vivere in castità e di carità, sia il cibo che il vestiario e altri oggetti per la pulizia sono esclusivamente donati. Si possono vedere appena fuori dai templi o in alcune aree di essi dei piccoli negozi con pacchi preconfezionati di varie misure contenenti abiti monastici che sono molto semplici, spazzolino da denti, dentifricio, sapone e altre cose di prima necessità. Possono essere comprati dai visitatori e lasciati lì come dono che verrà consegnato.
Il monaco si rende dipendente anche per il cibo proprio per dimostrare forme di rinuncia e rispetto totali. In Thailandia i maschi fanno esperienza di monachesimo anche per un breve periodo e se si è ricevuta una ordinazione da Bhikkhu si può sempre uscire dalla quella condizione monastica senza traumi apparenti.
In Birmania si è incoraggiata la meditazione per i laici e la connessione con i doveri etici e quelli del cittadino.
Nella popolazioni del Sud-Est asiatico si percepisce una mitezza e si vede un sorriso sicuramente ispirati in vari modi dal buddhismo.
Tutto questo entra in rotta di collisione con la dimensione umana di coloro che a tutte le latitudini approfittano del ruolo sacro per prendere potere, per godere di privilegi o per diventare nei confronti degli altri rigidi e dogmatici mantenendo indulgenza verso se stessi fino a tristi episodi di falsificazione di ordinazioni monastiche, di nazionalismo anche in forme razziste, di emarginazione femminile, di corruzione.
Tutte le esperienze monastiche anche di altre scuole Mahayana si sono in parte corrotte con secolarizzazione e con scelte lassiste, per cui all’inzio del ventesimo secolo sono emerse nel Buddhismo molte correnti di riforma che nel Theravada hanno trovato forza nel messaggio originario, nella fedeltà ritrovata alla figura esemplare di Siddhartha. La sua vita peregrinante di villaggio in villaggio, spesso nella foresta anche per lunghi ritiri meditativi ha ispirato il movimenti di riforma del Theravada dei “Monaci della foresta” che si richiama a ritorno non solo dottrinale, ma anche fisico con i monasteri allocati nella giungla Thailandese.
I loro fondatori sono Ajahn Sao Kantasilo Mahathera, Ajahn Mun Bhuridatta e poi Ajahn Thate Ajahn Maha Bua e Ajahn Chan che anche grazie al suo discepolo americano Ajahn Sumedho è arrivato a portare il Dhamma anche in Occidente dove oggi ci sono già numerosi monasteri soprattutto in Inghilterra e uno anche in Italia ovvero il già citato Santacittarama.
Un’altra esperienza di ritorno all’antico inteso come essenzialità pura, come dimensione sempre attuale perché aderente a un messaggio potente e universale, è quella di Ajahn Buddhadasa ispiratore di molte altre esperienze di rinnovamento.
Le ritroviamo in quello che potremmo chiamare Theravada moderno che ha toccato diversi ambiti da illustrare brevemente.
C’è un nuovo piano dottrinale di confronto reciproco con la altre tradizioni buddhiste, interessante anche lo sviluppo che propone il grande maestro Mahayana Tich Nath Han di alcune pratiche Theravada.
C’è un dialogo con la cultura scientifico-filosofica occidentale e con i suoi metodi filologici per approcciare le scritture.
C’è un movimento di centri e insegnamenti di meditazione Vipassana e Mindfulness ispirato dai maestri birmani Mahasi Sayadaw e U Ba Khin con il suo discepolo S.N. Goenka.
C’è un coinvolgimento nel sociale con un impegno ambientalista, una attenzione ai senza casta emarginati in India, un movimento socialista buddhista, uno thailandese contro la pena di morte, uno per i diritti umani (rivoluzione zafferano dei monaci birmani, uno per i diritti delle donne capitolo significativo perché alcune restrizioni fin dall’inizio come al solito si sono evidenziate verso le Bhikkuni (le monache)
Il versante rigorista del Theravada nel senso peggiore del termine sinonimo di chiusura dove l’antico è solamente il vecchio, il dogmatico, si è espresso anche con ritorno a certa mitologia sterile, a forme di nazionalismo fino ad alcune tristi esperienze birmane con alcuni monaci violentemente islamofobi com Ashin Wirathu.
C’è specificare un aspetto, non a giustificazione, ma come dato storico: molte forme di reazione sono state causate dai cambiamenti apportati al buddhismo per colpa dei regimi coloniali. Questi hanno emarginato la figura del monaco relegandolo alle cerimonie e alla cura dei templi affidando molte le scuole ai missionari e questo ha causato molte forme di contrapposizione.
Fra le direzioni del riformismo e dell’irrigidimento vi anche quella che forse è l’espressione maggioritaria ovvero la forma popolare che si esprime in riti, in attività al tempio gestite dai monaci come anche cerimonie di rifugio e precetti, momenti quotidiani di poya (giorni di luna piena che hanno un paritcolare significato) e upsosatha (una sorta di giorno sacro che settimanalmente chiede rigore nel rispetto dei precetti) e altre attività religiose come benedizioni, canti, cerimonie funebri, ma anche insegnamenti e pratica per laici.
Una dimensione più rituale e fideistica che è un portato più antropologico che buddhista poiché caratterizza tutte le espressioni religiose popolari anche se spesso queste degenerano spesso in superstizioni, una dimensione che comunque se produce un effetto etico va rispettata.
Il Mahayana non è estraneo a questa corrente popolare, chi ama le statistiche sociologiche può leggere che nel Buddhismo asiatico l’adesione più numerosa è alla scuola della Terra Pura che non ho ancora citato perché ci è lontana salvo riconoscerla nelle molte immagini e gigantesche statue del Buddha che vediamo in Cina e Giappone. Si tratta di una esperienza di Buddhismo che “accorcia e semplifica” con una proposta incentrata su un Buddha “trascendente” Amitabha (o Amida) che trova nel Buddha storico la sua emanazione. Vive in una Terra Pura paradisiaca, ispira contemplazione e devozione attraverso la recitazione di mantra e prendendo impegni etico-formali di vita in una forma che richiama quelle dimensioni fideistiche tipicamente umane ricorrenti anche in altre religioni.
In conclusione però dobbiamo affrontare la domanda che sarà nella testa di molti di voi: che differenza reale c’è fra Theravada e Mahayana al di là delle contingenze storiche che si sono irrigidite in storie di uomini lontane dal messaggio di risveglio del Buddha?
I particolarismi sono espressione di ogni esperienza collettiva umana di fronte a un messaggio spesso più grande delle singole collettività che lo vivono e diffondono, quel messaggio che è universale finisce per inculturarsi in uno spazio-tempo, ma nella sua universalità si pone come un orizzonte.
Sicuramente l’orizzonte del Dhamma è unico, l’orizzonte della Realtà è unico, forse sono diversi i livelli di comprensione e partecipazione.
Se l’orizzonte è coperto da sofferenza, da difficoltà umana, da afflizioni mentali, il Theravada invita ad affrontarle per eliminarle progressivamente grazie a sforzo, disciplina, responsabilità, etica, studio, pratica, esempio, esperienza personale guidati dalle parole stesse di Siddhartha.
Il Mahayana pensa che quelle difficoltà e afflizioni siano inestirpabili nel continuo riprodursi delle condizioni che le perpetuano e si concentra direttamente sull’orizzonte che si rivela vuoto perché ogni cosa è interdipendente e vuota di consistenza propria a iniziare da quelle afflizioni e da noi stessi che ne facciamo da supporto, un orizzonte che abbraccia e che intreccia Samsara e Nirvana invitando a vivere qui e ora.
Non che questo invito sia assente nel Theravada ed è per questo che ci si accorge che quell’orizzonte è unico e in esso ognuno fa la sua parte, ma è pericoloso proseguire in questi discorsi perché quello che conta è la pratica, è il cammino personale che si è stimolati a percorrere, sicuri che il Dhamma, vera guida, è unico come la Realtà nei suoi livelli senza ipotizzarne di noumenici e inattingibili, sicuri anche che tutto non può essere raggiunto senza un minimo di sforzo, partecipazione e responsabilità.
Personalmente ho incontrato, conosciuto e sperimentato gli insegnamenti dei monaci thailandesi della foresta, ne ho apprezzato la coerenza e l’esempio etico, ho verificato che molti dei grandi maestri occidentali come Jack Kornfield hanno avuto vissuto momenti cardine della propria formazione proprio presso di loro nella foresta.
Questa trasmissione del Dhamma ha il pregio, come altre, di essere fatta propria producendo effetti di benessere spirituale e psicologico anche da chi non fa scelte buddhiste radicali, ma fra i loro focus c’è un’attenzione specifica all’etica e alla responsabilità.
Non penso che tutti coloro che si avvicinano al Buddha hanno come scopo immediato il Nirvana, piuttosto sono motivati dal disagio, dalla mancanza di senso, dalla ricerca di calma e serenità, dalla curiosità per la meditazione. Ho visto che in molti trovano risposte subito efficaci proprio grazie ai metodi e agli insegnamenti dei monaci della foresta che propongono pratiche che valorizzano anche la meditazione Samatha per calmare e stabilizzare la mente, farne spazio di agio e chiarezza oltre a quella Vipassana che scende in profondità. Si basano come tutto il Theravada sullo schema delle quattro nobili verità. Fanno appello a facoltà spirituali e virtù che nella nostra cultura e quotidianità stiamo soffocando come la pazienza, lo sforzo, la responsabilità, la generosità, la gentilezza, la pazienza, l’energia, la fiducia. Analizzano la mente in modo chiaro e capillare, individuando gli stati mentali salutari e quelli non salutari indicandone la coltivazione e la gestione, hanno particolare cura della intenzione prima ancora che dell’azione e si radicano nell’ordinario, nel quotidiano indicando prima di tutto il valore di questo spazio “normale” a chi si sente smarrito di fronte al mondo o nella necessità di essere sempre performante. Quello che conta principalmente è essere presenti consapevoli alle “cose come sono”.
Molti di voi che hanno dimestichezza con il Buddhismo avranno ritrovato insegnamenti ben conosciuti e allora perché insistere sulle divisioni di scuola? Osservazione corretta, non è necessario insistere se non per un suo valore storico e per dare pari dignità a tutti coloro che indicano e camminano in una via di liberazione.
Di sicuro nessuna esperienza spirituale né culturale può mantenersi monolitica dopo il suo inizio, la contaminazione e il cammino odierno del Buddhismo riceve nuovi stimoli e provocazioni verso Ovest.
Non si può certo parlare arbitrariamente e genericamente di Oriente e Occidente, ma si potrebbe aprire a una coraggiosa dimensione interculturale o per lo meno aprirsi a un suo metodo.
Oggi qualcuno all’interno del Buddhismo parla anche di Buddhayana sgravandosi di tante divisioni più storiche che sostanziali, divisioni generate dagli uomini e non dalla natura del Dhamma.
Proprio il contatto con l’Occidente offre al Buddhismo un’ulteriore piattaforma di sviluppo e nel contempo propone a noi possibilità e prospettive che non abbiamo mai frequentato e percorso prima.
I muri non solo fisici che si stanno alzando nel mondo saranno un limite ?
Forse, ma solo in termini di diffidenza e ignoranza che karmicamente si riverserà su chi li sta alzando, la storia ci insegna che come un fiume carsico le idee, i messaggi di liberazione, i grandi spiriti ci passano attraverso.
I Mahatma, i Buddha, gli Arhat, i Bodhisattva, i Santi non saranno mai oscurati perché la Verità, la luna e il sole non possono essere oscurati.
Il Buddhismo nella sua “verità” ha una caratteristica: è come una zattera quando hai passato il fiume non trascinarla nella foresta, ma se non devi fare del Buddha e delle sue parole un idolo non devi nemmeno mettere te stesso sull’altare perché questa è la più grande illusione.
Interessante per questo l’invito di Ajahn Sumedho a “vivere meno sul personale”, sembra una contraddizione, ma significa proprio non pensare di essere al centro di tutto, sperimentare e capire di non essere una individualità così solida e permanente che proprio per questo inganna se stessa. Buon cammino a tutti.
Voglio dedicare questo articolo a mio padre che è mancato da poco, ma è vivo nella Realtà più grande di noi e voglio dedicarlo alle popolazioni della Birmania e Thailandia che mentre scrivo stanno affrontando le conseguenze di un devastante terremoto.
Per approfondire con letture recuperate i nomi dei monaci e insegnanti che ho citato nell’articolo e cercatene le pubblicazioni; inoltre consiglio di visitare i siti web: buddhismnow.com – santacittarama.org – gategate.it
Tommaso Furlan da anni è studioso di buddhismo, pensiero classico cinese, filosofia della mente, spiritualità interculturale. Con la pratica personale, con numerosi viaggi in Oriente e a contatto con maestri e monaci, ha sviluppato conoscenze e competenze nella meditazione, nelle arti del Dao, nelle medicine tradizionali. Insegna, tiene corsi, conferenze e seminari per aziende, enti pubblici e singole persone anche nella forma del coaching sportivo. Si è laureato all’Università di Padova prima in giurisprudenza con la ex Presidente del Senato prof.sa M.E. A. Casellati e poi in filosofia con i proff. G. Pasqualotto e A. Crisma.
Per contatti e approfondimenti : www.tommasofootball.it www.preferiscolorizzonte.it
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Category: Culture e Religioni