Pier Cesare Bori: Le ultime ore del vescovo Romero (1980)
Enrico Peyeretti ci ha inviato questo articolo ritrovato di Pier Cesare Bori scritto su La Repubblica del 26 giugno 1980. In relazione agli scritti di e su Pier Cesare Bori rinviamo in questa rivista on line alla rubrica “Pier Cesare Bori e la rivista Inchiesta” . Sul vescovo Oscar Romero beatificato il 23 maggio 2015 rinviamo alla rubrica “Culture e religioni” e in particolare al testo del 21 maggio 2015 (Vito Mancuso: Oscar Romero e il lungo silenzio del Vaticano).
Le ultime due omelie di monsignor Oscar Romero, l’arcivescovo di San salvador ucciso il 24 marzo scorso, sono state appena pubblicate in traduzione italiana (Il Regno, documenti, 11 giugno 198o). Non so se il ” laico” lettore che ha scritto il 20 maggio 1980 a Repubblica (“Romero è morto per il medioevo… Romero era un reazionario”) avrà voglia di procurarsi questo testo. Non se neanche per vero se sia per tutti una lettura facile, gradevole. Io però l’ho trovata di straordinario interesse. Nonostante la distanza, malgrado i vari passaggi (dall’orale allo scritto alla traduzione) rimane qualcosa della emozione originaria.
Domenica 27 marzo 1980: la gente dilaga fin fuori dalla cattedrale di San Salvador. C’è anche una delegazione di chiese e movimenti cristiani del Nordamerica che il vescovi saluta per prima (il 17 febbraio aveva scritto a Carter chiedendo la sospensione degli aiuti militari Usa alla Giunta e all’esercito di El Salvador. Un saluto anche agli ascoltatori delle radio (sempre minacciate da attentati che portano molto lontano la sua voce e comincia, nell’alterarsi di di enunciazioni generali e di affettuosi appelli ai presenti, l’argomentazione teologica: la dignità delle persone, il popolo, la liberazione trascendente. Segue l’enumerazione impressionante dei fatti, ecclesiastici e civili, accaduti in El Salvador nella settimana precedente: violenze, crimini, morti innumerevoli. Si cita ampiamente la testimonianza di Amnesty International.
Alla fine l’appello che costerà la vita al vescovo: “Vorrei fare un appello in modo speciale agli uomini dell’esercito e, io in particolare, alla Guardia nacional, della polizia e delle guarnigioni. Fratelli, siete del nostro stesso popolo, uccidendo i vostri stessi fratelli campesinos e davanti all’ordine dato da un uomo deve prevalere la legge di Dio che dice non uccidere.. In nome di Dio, allora, e in nome di questo popolo sofferente , i cui lamenti salgono sino al cielo ogni giorno più tumultuosi, vi supplico, vi prego, vi ordino in nome di Dio: cessate la repressione”.
Lunedì 24 marzo, alle 17, nella cappella dell’ospedale, tra pochi presenti, alcune parole nell’anniversario della morte della madre del direttore di El indipendente. Una lunga citazione di testi conciliati. Fra l’altro; “Sappiamo che Dio prepara una nuova abitazione e una terra nuova, in cui abita la giustizia e e la cui felicità sazierà con sovrabbondanza tutti i desideri di pace che salgono nel cuori degli uomini”. Le parole bellissime, bellissime ma risapute, sembrano ritrovare una nuova verità, nelle prole del vescovo. Ma subito dopo, un solo colpo di revolver, al cuore.
Colpisce in queste pagine, accanto all’emozione degli avvenimenti, l’impressione di trovarsi dinanzi a una “esperienza” (casa a ben vedere, non banale, se si è parlato per l’epoca moderna di “distruzione dell’esperienza” ad opera dell’ideologia e della scienza o del mito). Non parlo perciò della teologia che pure c’è e anche buona, per chi ne accetta le premesse. Parlo dell’esperienza come capacità di accorgersi delle cose, di avere rapporto con gli uomini, di “patire” dentro tutto questo: dell’esperienza come capacità di cambiare.
Romero era appunto molto cambiato, percorrendo un itinerario in partenza tra i più normali e burocratici di parroco e di pastore, ed era a poco a poco divenuto capace di “accogliere il grido del popolo”. Un uomo che aveva aperto gli occhi con stupore a un mondo dove sono ancora concepibili e anzi sempre più facilmente progettabili torture, terror, esecuzioni di ogni genere, stragi.
Altri, per esempio gli altri quattro vescovi di El Salvador che non sarebbero poi andati al suo funerale, se ne erano forse accorti di meno, pur con analoghe premesse teologiche. Ma chi se n’era accorto non poteva non farsene carico, con estrema concretezza e con rischio mortale.
Viene facile il confronto con la situazione italiana e con la nostra chiesa (confronto già suggerito con molta pertinenza in questo stesso giornale.
Forse non serve infierire. Penso solo all’inconsapevole umorismo di alcuni titoli della stampa cattolica, come “La Cei riunita sui problemi della famiglia. Cento gli invitati tra sacerdoti, religiosi, diaconi permanenti e laici. Presenti per la prima volta coppie di sposi” E al messaggio che ne è venuto fuori. Ne caldo né freddo. Quell’amare tutti senza amare veramente nessuno, quel parlare dell’uomo senza attenersi alle sue radici, quell’ignorare felicemente, da sempre, tutto: gli sconvolgimenti dell’eros, la passione del creare, il coraggio del confronto civile, da pari a ori: quell’ignorare la trasgressione stessa, che sta in ogni più piena e umana affermazione del diritto e dell’amore. Nulla, solo impassibile, universale benevolenza o severità del giudice che immobile attende al varco.
Non sorprende perciò che in questo clima generale la morte di Romero non abbia ricevuto da parte dell’autorità ecclesiastica l’attenzione che meritava. Era possibile altrimenti? Ma è importante che chi si dà cura dell’uomo, qualunque sia l’approccio ideale, cerchi di guardare dentro un’esperienza come quel di monsignor Romero (Amnesty International cercherà di farlo il 24 giugno a Bologna, a tre mesi dalla morte)
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