Ignazio De Francesco: L’etica islamica in cammino (faticoso) nel rapporto con l’Altro
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L’etica islamica in cammino (faticoso) nel rapporto con l’Altro
Ignazio De Francesco*
Come deve comportarsi un musulmano con un non-musulmano? Il tema prende sempre più peso nei manuali islamici di etica, così come nei responsi giuridici in materia di akhlāq, parola di difficile traduzione, la cui radice rinvia all’idea di “creazione”, e che applicata al campo dei comportamenti indica, da una parte, l’indole, cioè le qualità predisposte in ciascuna persona dal Dio creatore, dall’altra la messa in opera di queste qualità, in un complesso di atteggiamenti che costituiscono il galateo del buon musulmano. La questione dell’Altro è sempre più centrale in un mondo interconnesso come il nostro. Si affaccia anche in paesi per definizione islamici, nei quali la quota di non-musulmani è minima. Ma alla composizione “reale” di un paese si aggiunge oggi, sempre di più, la sua composizione “virtuale”, cioè quel complesso di relazioni che passa attraverso le reti digitali. A ciò si aggiunge il fenomeno migratorio, il quale produce una crescente mole di contatti tra persone appartenenti a differenti fedi, con l’aggiunta di coloro che non ne professano alcuna.
Un primo utile scorcio sul modo di accostarsi all’Altro viene dai manuali di religione, che sono lo strumento con il quale gli stati musulmani trasmettono l’islam ai propri giovani. Prendendo in esame il corso di religione in uso oggi in Giordania (in particolare i manuali delle classi IX-XII) si possono rilevare due tendenze: da una parte, vengono ribaditi i dati fondamentali del dogma, in base ai quali l’islam è ultima e definitiva rivelazione, potenzialmente “sostitutiva” delle altre religioni e credenze, che portano tutte, a vario grado, il marchio dell’errore. Dall’altra parte, si cerca di indicare per quali vie un ideale religioso così polarizzato ed esclusivo possa aprirsi al variegato mosaico della diversità/alterità e includere principi come pluralismo, democrazia, diritti umani.
Per ritrovare i principi di democrazia e pluralismo nell’islam delle origini si ricorre, nel manuale del dodicesimo anno scolastico, alla “Carta di Medina”, rimessa recentemente al centro dell’attenzione come esempio di statuto di una comunità interetnica e interreligiosa, antesignano delle moderne Costituzioni: in essa, si dice gli studenti, è possibile ritrovare i diritti di cittadinanza, di fede e culto, di sicurezza personale e libertà di movimento, di uguaglianza. Al tempo stesso il testo afferma che quella Carta mirava «a trasformare la società da un insieme di gruppi sparsi, collegati su base tribale o clanica, in uno stato unitario, lo stato dell’islam, sotto la guida del Profeta Muḥammad e sulla base di un unico legame, l’appartenenza alla società islamica coesa». L’Altro dunque esiste, e dev’essere rispettato, ma rimane pur sempre in posizione decentrata rispetto all’identità di quella “società coesa”.
È all’interno di questo quadro che si deve comprendere la relazione dei musulmani con i membri “diversamente credenti” delle loro società e con il mosaico più ampio della comunità internazionale, e con quell’aspetto di essa più critico, che prende il nome di globalizzazione. Nuovamente, si cerca di trovare un punto di equilibrio tra esigenze opposte: da una parte, viene ribadito il principio di Cor 3,19: «La religione presso Dio è l’islam»; dall’altra, si sottolinea che l’islam tratta tutti con misericordia, non costringe alcuno ad entrarvi e comanda di rispettare i “diversamente credenti”. Per quanto riguarda in particolare la “Gente del Libro” il manuale afferma che «essi fondamentalmente sono seguaci di una religione divina»; che bisogna discutere con loro nel modo migliore; che deve essergli riconosciuto il diritto di culto nei loro santuari e di regolamentarsi nelle materie che li riguardano in modo specifico; che sono soggetto dei diritti e dei doveri propri della cittadinanza (muwātana) e che i musulmani possono intrattenere rapporto con loro in tutto ciò che non è espressamente proibito. Per altre tre categorie specificate (i credenti in religioni non rivelate, gli atei e i politeisti) si ribadisce il principio coranico che «non c’è costrizione nella religione» (2,256) come premessa per affermare che «l’islam gli attribuisce i loro diritti, ma gli impone di rispettare il sistema generale islamico» (classe X, p. 95).
Il fenomeno della tensione, qui accennata, tra enunciati di diverso contenuto, risulta più evidente in uno dei manuali ormai classici dell’etica islamica, Minhāj al-muslim (La via del musulmano) di Abu Bakr al-Jazā’iri (shaykh algerino trapiantato in Arabia Saudita, tra i fondatori dell’Università islamica di Medina, morto nel 2018) che dalla sua pubblicazione in arabo nel 1964 ha avuto una enorme diffusione, anche grazie alle numerose traduzioni, tra cui quella in inglese. L’idea di fondo è espressa senza giri di parole: «Un musulmano crede che tutte le altre religioni e modi di vita sono falsi. I loro aderenti sono tutti miscredenti. Solo la religione dell’islam è la vera religione. Solo gli aderenti all’Islam sono credenti e musulmani». I testi di appoggio sono Cor 3,19 e 85 e Cor 5,3. Da questa premessa derivano, in negativo, tre conseguenze: «Un musulmano non può accettare o compiacersi della mancanza di fede dei miscredenti. Approvare il kufr (miscredenza) è in sé una forma di miscredenza. Dovrebbe odiare il miscredente dal momento che Dio lo odia. Ciò è perché l’amore dev’essere a causa di Dio, così come l’odio».
Sul versante positivo afferma, appoggiandosi a Cor 60,8, che «un musulmano deve essere giusto e corretto e comportarsi bene con il miscredente, sin tanto che quello non appartiene a chi apertamente combatte l’islam». Più in particolare: «Un musulmano dovrebbe avere misericordia per i miscredenti, un tipo generale di compassione per tutto il genere umano. Dovrebbe cibarlo se è veramente affamato, dissetarlo se ha sete, medicine se è ammalato, salvarlo dalla sua distruzione. Dovrebbe anche custodirlo dal subire danno. Ciò è basato sul detto del Profeta: “Abbiate misericordia su chi è sulla terra e vi farà misericordia Chi è nei cieli”. Un musulmano non dovrebbe arrecare danno a un non-musulmano, che non è in lotta con l’islam, con riguardo ai suoi beni, al suo sangue e al suo onore. Sulla base del detto del Profeta: “Dio eccelso ha detto: Voi miei servi, io ho proibito a me stesso l’ingiustizia, e l’ho resa proibita tra voi, dunque non fatevi reciprocamente ingiustizia”».
Ne segue una serie di indicazioni pratiche, utili nella vita di tutti i giorni, dove nuovamente si propone la tensione anzidetta: «È permesso fare e ricevere doni da un non-musulmano. Può anche mangiarne il cibo, se si tratta di un ebreo o un cristiano»; «Un musulmano non dovrebbe essere il primo a salutare un non-musulmano. Se lo salutano, lui dovrebbe rispondere: “E a voi!”»; «Camminando per strada, il musulmano dovrebbe far camminare il non-musulmano nella parte più stretta». Una preoccupazione particolare viene manifestata a proposito di tutta una serie di atteggiamenti esteriori che possono inclinare verso una pericolosa “assimilazione: in questo senso, il testo afferma che un musulmano dovrebbe essere differente da un non-musulmano e non imitarlo, se non in caso di necessità. Dovrebbe essere differente nell’abbigliamento, nel copricapo. Il Messaggero di Dio ha detto: «Chi assomiglia a della gente appartiene a loro». Ha detto anche: «Siate differenti dai politeisti: allungate la barba e tagliate i baffi».
Quarantacinque anni dopo il manuale di etica di Abu Bakr al-Jazā’iri, vero e proprio testo di riferimento, esce nel 2009 Mawsūʿat al-akhlāq (Enciclopedia etica) dello shaykh kuwaitiano Khālid al-Kharrāz. L’impostazione di fondo non cambia, ma si arricchisce di alcune precisazioni, dichiarando lecite le visite di cortesia (di particolare valore quelle ai malati); le attività commerciali, dove non siano esplicitamente proibite dall’islam (es. maiale, alcoolici, usura); il mettersi a servizio da un non-musulmano, a patto che non sia motivo di esaltazione della sua religione o disprezzo della propria; mettersi a scuola da lui, poiché «l’islam consente al musulmano di trarre vantaggio dalle conoscenze del miscredente in materia di medicina, chimica, fisica, agricoltura, amministrazione ecc.». Rimane ferma invece la messa in guardia contro ogni tipo di partecipazione alle feste dei non-musulmani, persino al livello minimo dello scambio di auguri: «Le feste dei miscredenti sono di due tipi: feste di carattere cultuale e ricorrenze. Quelle del primo tipo, come il Natale di Cristo, la festa iranica di Nauroz e quella dei Magi, sono proibite, e non si può fare gli auguri, perché in ciò si riconoscerebbe ciò che è vano. Fare gli auguri significa partecipare alla gioia, il compiacimento per la fede dell’Altro. Per quanto riguarda le ricorrenze come il giorno dell’indipendenza, il giorno degli innamorati, il compleanno di un figlio, la Festa dei lavoratori, queste sono invenzioni eretiche (bidʿa), non conviene che il musulmano vi partecipi».
Quest’ultimo punto è evidentemente molto sensibile, soprattutto se si pensa ai musulmani emigrati verso l’Europa o le Americhe, dove si trovano immersi in un contesto nel quale quelle festività, al di là di qualsiasi adesione di fede, fa parte del “tessuto sociale”. Va segnalata allora l’importante apertura di Yusuf al-Qaradāwī, una delle massime autorità dell’islam sunnita mondiale, che in Fiqh al-aqalliyyāt (Giurisprudenza delle minoranze), pubblicato nel 2001, ha prodotto una piccola rivoluzione, che ha influenzato la posizione assunta sul tema dal “Consiglio europeo della fatwā e della ricerca”, organismo privato ma altamente autorevole per tutti i musulmani del Vecchio Continente: dopo avere sottolineato che bisogna stare ben attenti a non perdere il significato peculiare e inconfondibile delle feste dei musulmani (fine Ramadan, festa del sacrificio), facendone un tutt’unico con il Natale, aggiunge che non vede «impedimento nel fare auguri delle festività alle persone con le quali c’è un legame di parentela, vicinato, lavoro o simili legami sociali che richiedono affetto e buon rapporto, secondo il buon costume». Per quanto riguarda le feste nazionali (indipendenza, lavoratori ecc.) dice che non solo si possono fare gli auguri ma anche parteciparvi in quanto «cittadini» evitando però ciò che è proibito nell’islam.
Molto importante il principio posto alla base di questa evoluzione dallo shaykh egiziano, consacrato a “imam globale” da al-Jazeera: pur essendo al corrente della posizione fermamente negativa di autorità come Ibn Taymiyya (m. 1328), sottolinea che egli ha pronunciato i suoi responsi alla luce del tempo e del luogo in cui ha vissuto, perciò «se Ibn Taymiyya vivesse nel nostro tempo e vedesse tutte queste cose, cambierebbe la propria opinione – Dio ne ha la piena conoscenza – oppure ne attenuerebbe la durezza, dal momento che nella sua fatwā si dava cura del luogo e del tempo». Insomma, come in tutti i sistemi religiosi anche in quello islamico l’etica è in cammino. Cammino faticoso, ma degno di essere seguito e incoraggiato.
* L’autore è monaco della Piccola Famiglia dell’Annunziata, comunità fondata da Giuseppe Dossetti. Il presente articolo fa parte dei temi da lui trattati in Etica islamica: fonti, norme, comportamenti, Carocci, Roma 2023.
Category: Culture e Religioni