Gianni Sofri: Memoria di Pier Cesare Bori ricercatore di una verità universale

| 13 Ottobre 2013 | Comments (0)

 

 

 

Pier Cesare Bori è morto il 4 novembre 2012. Per ricordarlo diffondiamo lo scritto di Gianni Sofri, insieme a quelli di Franco Perna e Enrico Peyretti, tutti pubblicati su Azione non violenta n. 589-590 gennaio-febbraio 2013

Era fautore di una ricomposizione dei rapporti fra etica e politica, e a questo ha dedicato molte ricerche, meditazioni, pensieri e pagine. Ma non gli interessava la politica attiva. La seguiva sui giornali da cittadino consapevole, ma non ne era indotto a praticarla. I suoi interessi erano soprattutto teorici e pedagogici. Bori intendeva essere essenzialmente un insegnante, uno che indicava la via ai giovani camminando davanti a loro e con loro. Il suo scarso interesse per la politica attiva, però, non gli impediva (al contrario) di occuparsi degli oppressi, degli umili, degli ultimi: per esempio di mettere in piedi una straordinaria iniziativa, con alcuni suoi col- laboratori, nei confronti del mondo delle carceri. E l’edizione di Tunisi della traduzione araba di Pico della Mirandola, cui ha molto lavorato, è dedicata ai martiri della “Rivoluzione dei Gelsomini”.

Se questo è il Bori che molti di noi conoscevano ed amavano, è bene essere consapevoli che la sua vita è stata caratterizzata da una ricchezza straordinaria di esperienze, vissute tutte con grande intensità, e che vanno molto al di là delle poche cose fin qui riassunte. Lo stesso Pier Cesare, con una specie di ultimo dono, ha voluto aiutarci, scrivendo, quando già la sofferenza era molto forte, una sorta di autobiografia che ha voluto chiamare “CV”, alludendo alla brevità schematica dei curricula, ma anche all’ironia e alla dolcezza con cui aveva voluto temperare la serietà del suo racconto (che era poi la sua serietà di sempre).

CV” è appena stato pubblicato dal Mulino; a breve vedrà la luce un altro libro di Bori, questa volta da Marietti, questa volta con un andamento meno personale e più scientifico, trattandosi di una raccolta di scritti di e su Pico della Mirandola, uno dei molti autori amati da Bori, e per suo merito fatto conoscere anche in Cina e nel mondo arabo.

Un primo aspetto che colpisce il lettore di “CV” è la quantità di spazio, 52 pagine su 90, che Bori riserva a una fase della sua vita che non è certo la più nota, quella che riguarda il suo rapporto molto intenso con il cattolicesimo. Questa impressione è confermata da un libro del 2005, “Incipit”, nel quale Bori parla di cinquanta libri per lui importanti. Tra questi, il primo a presentare una cultura e una religione non europee è il “Maometto” di Rodinson, che arriva per ventesimo. Solo dopo di lui ci saranno Lao-zi, Corbin, la Bhagavadgita e altri testi.

Questa scelta mi fa pensare che nel momento più drammatico e decisivo della sua vita Pier Cesare abbia sentito un forte bisogno di tornare alle sue radici, agli inizi casalesi, alla famiglia, alle origini prime della sua cultura e del suo impegno religioso. E anche che abbia visto nei dibattiti pur così dolorosi per lui di quegli anni una parte importante di un patrimonio dal quale non si è mai staccato del tutto.

Ragazzo, poi adolescente, Pier Cesare si caratterizza per grandi letture e per una simpatia per lo studio delle lingue che accompagnerà poi tutta la sua vita e che sarà una parte indissolubile della sua curiosità per le culture altre, sempre cercate nella loro originaria espressione linguistica. Pier Cesare comincia a sedici anni andando a Londra a seguire un corso di inglese. Studierà poi (oltre al greco e al latino) il tedesco e l’ebraico, il russo, infine l’arabo e il cinese.

A diciotto anni, dopo una crisi religiosa, aderisce al cattolicesimo, e tre anni dopo viene chiamato a Roma a lavorare alla FUCI. In questi anni già “vagheggia di farsi prete”: entrerà in seminario e comincerà a frequentare le lezioni alla Gregoriana nel 1960. Nel 1964 passerà al collegio russo, il “Russicum”.

Gli anni Sessanta sono molto drammatici. L’intensa corrispondenza con i genitori (Bori ha costruito il suo “CV”, in buona parte, su ampie citazioni da un epistolario accuratamente custodito) testimonia di un iniziale dolore che nasce da una scelta non condivisa. Più tardi, le difficoltà famigliari si appianano, mentre crescono invece i disagi del giovane prete (ordinato tale nel 1965). Bori partecipa di una “rete” di sacerdoti, per lo più giovani, che aspirano a costruire comunità di studio e di vita, a condividere esperienze pastorali, a ispirarsi a ideali di povertà e semplicità evangelica: tutte aspirazioni cui la Chiesa di quegli anni non sa rispondere, e neppure il Concilio riesce a soddisfare.

Questa parte, per inciso, è tra le più nuove e interessanti del libro. Innanzi tutto racconta per la prima volta anni che furono decisivi per Bori, e che sono meno noti al grande pubblico. In secondo luogo, grazie anche a una ricca documentazione, il racconto di Bori porta un contributo importante, malgrado la modestia con cui è scritto, allo studio del cattolicesimo italiano di quegli anni (o per lo meno a quella parte di esso che non si può semplicemente ridurre al dissidio fra Tradizione e Concilio). Racconta incontri entusiasti e dolorosi, drammi interiori e ripensamenti, grandi condivisioni e mortificazioni personali, usando una documentazione originale e inconsueta perché non “ufficiale”, ma fondata su una serie di “vissuti”. Le esperienze pratiche, ma anche culturali e religiose, di questo mondo che si nutre di letture soprattutto francesi (de Lubac, Daniélou, Congar, e prima ancora Maritain), ma anche Bultmann e Cullmann, fra gli altri, si concludono spesso malinconicamente, o con l’accettazione di una testimonianza silenziosa e solitaria (quando non del ritorno all’ovile) o con rotture drammatiche. È il caso di Bori, nel quale al disagio etico e teologico si aggiungono i problemi derivanti da un affettuoso rapporto epistolare con Elena, conosciuta ai tempi della FUCI. Nel 1969 riceve la dispensa dal celibato e la riduzione allo stato laicale. Nello stesso anno viene invitato da Alberigo come ricercatore a Bologna nella Fondazione per le Scienze religiose: ci lavorerà per vent’anni, dal 1970 al 1990, con un ritorno – appendice negli ultimi anni della sua vita. Nel 1970 sposa Elena, sua straordinaria compagna di sempre, da cui avrà tre figli.

Comincia qui una seconda vita di Bori, proiettata ora sugli studi e sull’attività universitaria, ma anche su esperienze religiose più libe- re e autonome. C’è una frattura, ma anche elementi di continuità. Gli restano, dalla prima parte, la più formativa della sua vita, alcune ispirazioni di fondo, che vanno dall’ansia della ricerca di una verità universale che serva all’uomo, qualunque sia la sua nascita, fino ad elementi che sono in apparenza meno importanti, come l’amore per le lingue già ricordato, o quello per la lettura, che svaria dai testi sacri ai Padri antichi, ma anche a romanzi, a riviste come “Esprit”. Non si pensi comunque a un Bori sempre austero, con la testa invariabilmente immersa nelle sue meditazioni sapienziali. Dagli anni giovanili, quelli che sembrano concludersi nel 1969-70, gli arriva anche un amore fanciullesco per film come “Cantando sotto la pioggia” o “Un americano a Parigi”. Conserverà fino alla fine questa capacità di gioco e di divertimento, il piacere della compagnia allegra, l’amore per la musica. Gli rimarrà infine, di quegli anni, il ricordo vivo e fedele di tante amicizie: da Giovanni Miccoli a Valerio Onida, da Enrico Peyretti e Renata Ilari a Carlo Caffarra, ora cardinale, per citare solo qualche nome.

Non ho parlato a caso di “rete”, parola che gli era anch’essa assai cara. Bori ne crea ovunque vada, gli piace lavorare in comunità, organizzare dei gruppi: che sono sempre gruppi di condivisione di cose importanti (possibilmente, le più importanti). Si legano a lui di volta in volta, a seconda dei temi e degli obiettivi, accademici più o meno illustri, giovani appassionati, militanti di Amnesty International, orientalisti, studiosi cinesi e tunisini. Non è possibile non fare almeno qualche nome: Michele Ranchetti, Mauro Pesce, Giancarlo Gaeta, Gianfranco Bonola (capace di alternare una raffinata filologia alle più ardite ascensioni nell’amata Valsesia o nel non meno amato -e studiato- Tibet). E ancora: Paolo Bettiolo, Saverio Marchignoli, Lisa Ginzburg, Paolo Bollini. Carlo Ginzburg gli è stato sempre molto vicino. Né si possono tacere almeno alcuni degli autori che sono tra i suoi punti di riferimento, o che lo aiutano in alcune delle sue ricerche. Vanno da Berdjaev e Bulgakov a Norberto Bobbio, da Simone Weil all’ultimo Tolstoj, dai grandi testi delle religioni a Pico, fino ad Anna Freud, che permettendogli la consultazione dei manoscritti paterni gli offre la possibilità di scrivere su Mosè.

È quasi incredibile la quantità e varietà tematica dei libri e articoli che Bori ci lascia. Ne ricorderò alcuni seguendo solo i miei gusti personali: l’antologia dei Movimenti religiosi in Russia prima della rivoluzione (1900-17) (con P. Bettiolo, 1978); Il vitello d’oro. Le radici della controversia antigiudaica (1983); La Madonna Sistina di Raffaello nella cultura russa (1985); L’interpretazione infinita. L’ermeneutica cristiana antica e le sue trasformazioni (1987); La società degliaamici. Il pensiero dei quaccheri (con M. Lollini, 1993); Per un percorso etico tra culture. Testi antichi di tradizione scritta (1996). E ancora, i moltissimi scritti su Tolstoj, tra cui le introduzioni ai Quattro libri di lettura, alle Confessioni, a Guerra e Pace, ad Anna Karenina. Scritti e studi quasi sempre sostenuti anche da soggiorni più o meno lunghi nei Paesi interessati: da Israele alla Tunisia, dalla Russia al Giappone e alla Cina. Senza però che mai questo andasse a scapito della sua attività didattica né di quella amministrativa (fu anche, per alcuni anni, direttore del Dipartimento di discipline storiche).mici. Il pensiero dei quaccheri (con M. Lol- lini, Pier Cesare e io eravamo molto diversi e questo ci portò, malgrado l’affetto, a rallentare i nostri rapporti. Ciò mi induce a dedicare un’ultima parte di questo ricordo alla nostra amicizia, anche per onestà. Devo comunque precisare che quando ci allontanammo, questo accadde anche per ragioni geografiche (fui trasferito per due anni a Sassari, poi a Forlì). Fu anche per questo, ma non solo per questo.

Le nostre vite si sono incrociate più volte, qualche volta a nostra insaputa. Per esempio nei secondi anni Cinquanta eravamo tutti e due dirigenti della FUCI, ma non ci incontrammo per una piccola differenza di età. Io ero più anziano di lui di circa 5 mesi. Quando ci trovammo a Bologna lui ed Elena si ricordavano di me perché erano arrivati a Roma poco dopo la mia partenza; io invece no.

In realtà, quindi, ci conoscemmo a Bologna e ci raccontammo a vicenda gli anni trascorsi. Il mio cattolicesimo, già abbastanza fragile, lo era diventato sempre di più, e alla fine lo avevo abbandonato gradualmente, e quasi senza traumi (di più non dirò in questa sede, perché non è il nostro tema). Dai racconti di Pier e di Elena seppi invece quanto era stato traumatico il suo, di abbandono. Ma solo un mese fa, leggendo la prima parte di “CV”, ne ho veramente capito la drammaticità. Non mi ha solo commosso, mi ha anche molto interessato perché mi ci sono in parte riconosciuto: ci fu un periodo in cui anche per me Maritain e de Lubac furono veri e propri numi tutelari, e “Il Gallo” e “Esprit” tra le riviste preferite. Ora, reincontrandoci, Pier Cesare era interamente immerso nei vari aspetti del fatto religioso; io guardavo ad esso, semplicemente, con rispetto e curiosità. Fu sufficiente perché potessimo fare delle cose insieme. La prima fu l’organizzazione di due convegni internazionali tenutisi a Bologna per Amnesty International: La pena di morte nel mondo (1982, atti pubblicati nel 1983) e L’intolleranza: uguali e diversi nella storia (1985, atti nel 1986). In entrambi i casi fu Bori a proporre i temi e a curarne poi, da vero trascinatore, la realizzazione. Soprattutto al secondo di essi parteciparono studiosi di grande valore come Tzvetan Todorov, Ivan Illich, Leszek Kolakowski, Norberto Bobbio. Io collaborai strettamente ad entrambi e insieme a Giovanna Pesci pubblicai un bilancio complessivo del convegno sull’intolleranza in “Reporter”. Più in generale, in quel periodo Bori ed io lavorammo molto insieme come militanti, ma anche un po’ come fratelli maggiori di Amnesty, nella sede di Bologna e non solo.

Fu ancora da un’idea di Bori che nacque quello che considero il frutto più importante della nostra collaborazione, e cioè il volume Gandhi e Tolstoj. Un carteggio e dintorni (1985), nel quale si pubblicava la prima edizione (e traduzione) completa del carteggio fra i due grandi numi del pacifismo internazionale. Ho parlato di edizione, e non solo di traduzione, perché, per una serie di vicende editoriali (e non solo), né in India, né in Russia, né altrove era mai stata pubblicata un’edizione completa delle pur poche lettere (set- te, più quattro di collaboratori) che Gandhi e Tolstoj si scambiarono fra l’ottobre 1909 e il novembre 1910. I testi erano preceduti da due lunghe introduzioni, in una delle quali Bori si occupava di Tolstoj, nell’altra io di Gandhi. In seguito, ci capitò ancora di fare delle cose insieme, ma di minore importanza.

Non troverei né giusto né utile affrontare qui le ragioni che provocando tra noi qualche disagio contribuirono al nostro allontanamento. Mi limiterò tutt’al più a dire che facevo fatica a condividere l’entusiasmo di Pier nel dar vita a comunità che fossero insieme di studio ma anche di vita spirituale. Mi sentivo, rispetto a lui, più un tecnico e meno un raccoglitore e dispensatore di saggezza. Non avevo la sua fiducia in sé e la sua ininterrotta e generosa voglia di costruire.

Vero è che l’invecchiare, soprattutto quando è accompagnato dall’esperienza del declino fisico, tende ad attenuare le divergenze e ad operare una sorta di redistribuzione dei dubbi, sicché oggi non saprei dar ragione all’uno o all’altro (a Pier o a me), o comunque non troverei la cosa così importante. Posso solo dire, a coloro che leggono abitualmente questo giornale, che certamente si sentirebbero più vicini e solidali a Bori che a me.

Permettetemi di finire con un brano di una lettera che avevo scritto a Pier Cesare pochi giorni prima che ci lasciasse:

Non ho visto di buon occhio -e lo sai- il tuo fare a volte il pifferaio di Hamelin. Non mi piaceva il metodo e non mi piacevano le musiche che suonavi. Su quest’ultima cosa forse potrei anche, almeno in una certa misura, ricredermi: ma dovremmo avere molto tempo, tu ed io, e forse non ne vale la pena. Ma una cosa risulta chiaramente dal tuo libro: che il tuo camminare dondolandoti e suonando, parlando e “profetizzando” (negli ultimi tempi, soprattutto stando in silenzio), con tutta quella gente, giovani soprattutto, che ti camminavano dietro, o che ti stavano intorno, ti ha offerto un grande lascito, di persone per lo più brave, di belle persone, ora già famose ora no ma non importa, ricche interiormente, io spero (e penso) anche criticamente, che ti portano in giro, perché ora tocca a loro, nei cinque continenti. Persone che stanno non solo nelle università italiane, ma anche in quelle americane e giapponesi e tunisine (che Allah le aiuti!), e in prigioni, e in povere case di parenti di carcerati, e in fabbriche e così via.”

Io spero che non solo i suoi discepoli continuino a suonare in giro per il mondo (farebbe bene a tutti) i pifferi magici che hanno ereditato da lui, ma che lo stesso Pier Cesare, dovunque si trovi, scopra il modo di farci avere ancora i suoi messaggi musicali e dondolanti. Ne abbiamo molto bisogno.

 

 

Franco Perna: Pier Cesare Bori, un amico dei Quaccheri

Ho incontrato Pier Cesare negli anni ‘80 nel mio ruolo di segretario europeo dei quaccheri, quando abitavo a Lussemburgo. Pier Cesare aveva da poco fondato a Bologna un gruppo di “amici dei quaccheri”, in collaborazione con alcuni suoi colleghi universitari e studenti della sua facoltà.

Date le mie deficienze accademiche e intellettuali non posso dire molto su Pier Cesare come professare e scrittore; spero che altri la facciano. Desidero, però, ricordare un interessante articolo apparso su L’Espresso (23.2.1996): “Folgorato sulla via dei quaccheri”, che descrive Pier Cesare come “Prete. Collaboratore di Dossetti. Docente acclamato. Saggista raffinato. Ritratto di un uomo che si riconosce in Pico della Mirandola. Affascinato dal credo della Società degli amici”.

I miei ricordi di Pier Cesare sono quelli di una cara persona amica in tutti i sensi, pronta ad aiutarti in caso di bisogno, senza far pesare

il suo contributo, per esempio nel facilitare incontri da me suggeriti, e in parte organizzati, per far conoscere anche in Italia il lavoro e il pensiero dei quaccheri. Devo anche aggiungere che, in periodi difficili della mia vita, pur abitando all’estero, potevo contare sull’appoggio morale e spirituale di Pier Cesare e di Elena, sua moglie. Di questo sono molto riconoscente ad ambedue. All’occasione della cerimonia funebre a Bologna, 7 novembre, sono giunto sul luogo indicato, nei pressi della basilica, di corsa, perché il tempo stringeva, imbattendomi in una grandissima folla di gente a me sconosciuta, tanto che ho dovuto chiedere per rassicurarmi che eravamo tutti lì per dare l’ultimo saluto al Prof. Bori. Conserverò di Pier Cesare la sua semplicità e disponibilità, nonchè la sua apertura mentale e spirituale verso tutti. Ciao Pier Cesare!

 

 

RELIGIONMI AEFNIEOENAVNIOTILMENAZFIAE

Enrico Peyretti: Contemplazione e azione nel lavoro di pace di Bori

Individuare gli elementi comuni alle diverse vie spirituali dell’umanità (culture, religioni, etiche) è un profondo lavoro di pace, antidoto allo spirito violento dello scontro di culture. Questo ha fatto, come pochi altri maestri, Pier Cesare Bori (caro amico, scomparso il 4 novembre 2012, per causa dell’amianto respirato da giovane a Casale Monferrato). Nell’autobiografia scritta durante la malattia (CV, curriculum vitae, Ed Il Mulino 2012), Bori narra il suo cammino morale e intellettuale. In Universalismo come pluralità delle vie (Marietti, 2004), egli propone un modello interculturale, tratto dalla Bhagavadgîtâ, il libro chiave dell’induismo (Gandhi ne fece il proprio vangelo), che distingue, nella vita spirituale: contemplazione, azione, devozione.

La devozione (culto personale o fede in un Dio, divi- nità «intesa come potenza distinta essenzialmente dal mondo, ma non separata da questo quanto a realtà ultima») è un complemento possibile, non necessario, di azione e contemplazione.

La contemplazione è «volta a contemplare – teologicamente o filosoficamente – la realtà come necessaria, senza divaricazione tra essere e dover essere». L’azione, vista la divaricazione tra essere e dover essere (il problema del male!), è l’assumersi «anche il compito di superare la realtà nella prassi, sia essa motivata religiosamente, sia essa un’etica laica» (p. 40-41).

Le diverse vie spirituali e religiose dell’umanità si dif- ferenziano per l’accentuazione dell’uno o dell’altro aspetto – contemplazione e azione – non per la presenza o assenza dell’uno o dell’altro. “Spirituale” è più ampio di “religioso” e include anche «quegli orientamenti etici e contemplativi che non implicano una fede in una divinità personale» (p. 39).

Nella Bibbia e nel Corano, Bori distingue profezia da sapienza: l’appello profetico (pro-fezia significa par- lare “al posto di altri”, caratteristica dei monoteismi) contiene nel suo centro stesso «una sostanza di razionalità etica», cioè di sapienza, in quanto «esige una corrispondenza necessaria tra il culto di Dio e la giustizia verso gli uomini» (p. 53). Questo impegno etico si trova, per esempio, in Isaia 1,11-17; Giovanni 4,23 e ss.; Corano 98,4 e ss.; 2,172, e anche nella sapienza egizia, nella razionalità etica ellenistica, nella cultura religiosa del Medio Oriente cristiano e persiano. C’è una sapienza etica prima e dopo le rivelazioni profetiche.

La novità degli appelli profetici è che la divinità stessa si impegna a fare ciò che esige dagli uomini. Max Weber parla del «grandioso razionalismo etico che scaturisce da ogni profezia religiosa» (p. 55). La versione sapienziale etica della profezia tende all’universalismo interculturale, mondano, secolare, della regola etica enunciata in contesto profetico religioso.

Tra le culture umane c’è dunque un parallelismo non nei contenuti ma nella struttura, che permetterebbe una convergenza finale e, intanto, un sostanziale consenso etico (pp. 43-44). Su tale consenso, Bori ha due libri, uno teorico, uno di testi.

La nonviolenza coinvolge la persona in profondità. Non basta il pragmatismo, proprio perché essa si confronta col male, nulla di meno; anzi, essa nasce proprio dal confronto col male-violenza (cfr Jean-Marie Muller, Aldo Capitini, gli “esperimenti con la verità” di Gandhi e di ogni lottatore nonviolento).

La nonviolenza è dunque una via spirituale; è contemplazione (riflessione, ricerca, individuazione del “bene” umano); è azione (riforma di sé, riforma di strutture e culture); non è necessariamente religione esplicita, ma l’esperienza religiosa, purificata da scorie di cultura violenta, contribuisce ad ispirare ricerca e azione, nei termini sapienziali razionali, sul terreno comune di ogni autentico cammino di liberazione.

Bori indica alcuni «convincimenti fondamentali, che la parte migliore dell’umanità ha posto a base del suo vivere in società, ha espresso in una straordinaria va- rietà di culture popolari tra loro non isolate e ha trasmesso soprattutto attraverso la sapienza della donna, sino al momento presente: il diritto non si attua senza il sentimento dell’obbligo verso ogni essere umano; il rispetto, privilegio e onore riconosciuti ai deboli; la superiorità di chi sa non rispondere al male col male, ma con la forza persuasiva della parola indifesa; il valore dell’agire secondo coscienza, a prescindere dai frutti; l’idea che occorra saper governare se stessi e la propria casa per governare anche gli altri; l’idea che la maggior guerra sia quella contro se stessi; l’esistenza assunta come somma di benefici che occorre restituire; il rispetto e la pietà per ogni vivente; la vita che si acquista perdendola; la tranquillità e la pace che vengono dalla cer- tezza di una giustizia non affidata alla storia» (Per un consenso etico fra culture, Marietti 1995, p. 106-108).

 

A cu

 

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Category: Culture e Religioni, Pier Cesare Bori e la rivista "Inchiesta"

About Gianni Sofri: Gianni Sofri è nato a Staranzano (Gorizia) nel 1936. In gioventù ha vissuto fra Trieste, Taranto, Pisa, Roma e Torino. Dal 1961 vive a Bologna. Ha studiato alla Scuola Normale Superiore di Pisa e si è laureato in Lettere nel 1958. Ha lavorato per alcuni anni come redattore per la Casa editrice Zanichelli. Ha insegnato per 41 anni (con un intervallo di due anni all'Università di Sassari) presso le Facoltà di Magistero (ora Scienza della Formazione) e di Scienze politiche (Scienze internazionali e diplomatiche, Forlì) dell'Università di Bologna, dal 1961 al 2002, quando è andato in pensione. É stato successivamente Assistente volontario di Storia contemporanea, Professore incaricato di Storia dei paesi afroasiatici e di Storia moderna, Professore ordinario di Storia contemporanea, quindi di Geografia politica ed economica. Tra le sue opere: Il modo di produzione asiatico. Storia di una controversia marxista (Torino, Einaudi,1969, nuova edizione 1974, traduzioni in Germania, Spagna, Svezia, Brasile); Direzione (e stesura di ampie parti) di un Corso di geografia per le scuole medie (Bologna, Zanichelli, 1976); Gandhi e Tolstoj (in collaborazione con P.C. Bori, Bologna, Il Mulino, 1985); Gandhi in Italia (Bologna, Il Mulino, 1988); Gandhi e l'India (Firenze, Giunti, 1995, traduzioni in Francia, Regno Unito e Stati Uniti). Ha collaborato a numerosi giornali ("Reporter", "l'Unità", "Il Resto del Carlino", attualmente "Il Messaggero") e riviste (fra le altre, "Rivista Storica Italiana", "Rassegna Storica del Risorgimento", "Studi Storici", "Passato e Presente", "Studium", "Humanitas", "il Mulino", "Quaderni Piacentini", "Una città", "L'Indice", "Testimonianze", "i Martedì"). E' stato condirettore della "Rivista di storia contemporanea". Negli ultimi anni, ha tenuto conferenze, dibattiti, interventi a convegni, lezioni a corsi di aggiornamento su temi come: la geopolitica e l'evoluzione dei rapporti internazionali, la Cina e l'India contemporanee, le problematiche dei diritti umani nel mondo e dell'incontro-scontro fra culture diverse, questioni di metodologia e didattica della storia e della geografia. Ha compiuto viaggi di studio a Parigi e a Londra, negli Stati Uniti e in Cina; ha tenuto un breve corso di storia contemporanea d'Italia all'Università di Algeri nel 1974. Nel 2004 è stato eletto in Consiglio comunale di Bologna come indipendente nella lista dei Democratici di Sinistra, e successivamente, Presidente del Consiglio comunale stesso.Nel 2009, a fine mandato, decide di non presentarsi candidato nelle elezioni amministrative di giugno.

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