Enzo Pace: Achille e la tartaruga. La religione cattolica e le altre in Italia
Pubblichiamo da “Inchiesta” ottobre-dicembre 2013 questo testo del sociologo Enzo Pace, Direttore del dipartimento di sociologia dell’Università di Padova che analizza come la società italiana, a monopolio cattolico, si comporta davanti all’inatteso pluralismo religioso
Achille, simbolo di rapidità, deve raggiungere la tartaruga, simbolo di lentezza. Achille corre dieci volte più svelto della tartaruga e le concede dieci metri di vantaggio. Achille corre quei dieci metri e la tartaruga percorre un metro; Achille percorre quel metro, la tartaruga percorre un decimetro; Achille percorre quel decimetro, la tartaruga percorre un centimetro; Achille percorre quel centimetro, la tartaruga percorre un millimetro; Achille percorre quel millimetro, la tartaruga percorre un decimo di millimetro, e così via all’infinito; di modo che Achille può correre per sempre senza raggiungerla (Jorge Luis Borges, La metamorfosi della tartaruga)
Introduzione
Utilizzando il celebre paradosso di Achille e la tartaruga, attribuito al filosofo presocratico Zenone di Elea (V secolo a.C.), mi propongo di analizzare il processo di cambiamento sociale che avviene in Italia, da un particolare angolo visuale: il passaggio da una società a monopolio cattolico ad un’altra caratterizzata da un inedito e inatteso pluralismo religioso. Le mappe relative alla presenza di una pluralità di religioni differenti rispetto a quella di nascita (il cattolicesimo) mostrano come stia cambiando la geografia socio-religiosa in Italia e come tale cambiamento costituisca una novità rilevante in una Paese che, per ragioni storiche di lunga durata e per motivi culturali ben temperati e a tutt’oggi vitali, continua a rappresentarsi come se fosse un Paese tout court cattolico.
La Chiesa cattolica continua, infatti, nonostante la diversità religiosa cominci a rendersi socialmente palese, a ricoprire un ruolo centrale nello spazio pubblico. Tuttavia, essa – Achille nella metafora – inizia a rendersi conto che la società italiana si muove – la tartaruga, sempre nella metafora – non solo perché altre religioni premono per essere visibili e pubblicamente riconosciute, ma anche perché, in alcuni casi, esse contribuiscono a rendere plurale il campo religioso.
Per delimitare ancor meglio l’oggetto dell’analisi, alla domanda “chi rappresenta Achille” nel discorso metaforico che ho appena introdotto, posso rispondere così: secondo il mito greco Achille sarebbe stato immerso, bambino, dalla madre Teti nelle acque del fiume Stige così da diventare invulnerabile. Per immergere Achille, però, la madre dovette tenerlo per il tallone, che rimase così l’unica parte del suo corpo a rischio. L’eroe omerico simboleggia la religione-di-chiesa-cattolica in Italia: un sistema ancora ben organizzato di credenza, diffuso nelle pieghe della società, custode della memoria e dell’identità collettive del popolo italiano, detentore di una complessa potestas indirecta nella sfera delle decisioni politiche. Un sistema di credenza religiosa di maggioranza o di religione di nascita, che, continua a reggere, anche se con crescente fatica, i progressivi urti della secolarizzazione, come, con approcci molto diversi fra loro, una recente indagine su campione rappresentativo della popolazione (Garelli, 2011) e una ricerca di tipo etnografico (Marzano, 2012), hanno confermato. Almeno in comparazione con altre realtà europee (Perez-Agote, 2012), l’Italia, grazie alla tenuta organizzativa, appare secolarizzata, ma ancora fedele all’immagine – a livello di rappresentazioni collettive – di un Paese cattolico. Non è più così nella prassi di tante persone, ma il mito collettivo dell’identità degli italiani sembra funzionare ancora (Pace, 2012). Chiarito chi è Achille, vediamo ora “cosa rappresenta la tartaruga”. Chiamo tartaruga il movimento che caratterizza la società italiana, dal punto di vista socio-religioso: dalla monocultura religiosa a forme inedite di diversità religiosa; un movimento lento, che continua ad essere in gran parte non visibile, senza particolari tensioni e conflitti (salvo per il caso dei luoghi di culto musulmani) e che, infine, produce un cambiamento della geografia socio-religiosa italiana. Non si nasce più naturaliter cattolici.
Ciò che mi propongo di fare, allora nelle pagine che seguono, è di mostrare e descrivere tale cambiamento, ricorrendo ai dati raccolti in una ricerca terminata nel 2012 (Pace, 2013), dati che hanno consentito di passare da generiche stime circa la presenza di religioni diverse da quella cattolica a una cartografia dei luoghi di culto, per regioni e per confessioni religiose. Le stime, che ogni anno la Caritas/Migrantes nel suo rapporto sull’immigrazione fornisce, pesano la diversità religiosa in base ad un semplice (troppo semplice, a volte) processo induttivo: se cento persone sono immigrate, ad esempio, dal Marocco, esse saranno per il 99,9% musulmani, dal momento che in quella società è tale proporzione di perosne naturaliter di fede musulmana. L’organizzazione di volontariato cattolica, la Caritas, meritoriamente in tutti questi anni ha cercato di colmare una vistosa lacuna d’informazioni attendibili sulla presenza degli immigrati in Italia, che hanno raggiunto nel 2011, i cinque milioni (pari al 7% della popolazione). Sinora né gli uffici dell’Istituto centrale di statistica (ISTAT) né il Ministero degli Interni sono riusciti a fornire dati circostanziati sulla realtà delle diverse presenze religiose. Fa eccezione la contabilità dei centri di culto musulmani che, per ragioni di ordine pubblico, sono monitorati dalle forze di polizia e di intelligence per conto del Ministero degli Interni. Tale fonte costituisce una buona base di partenza da verificare e approfondire, così come è stato fatto di recente (Allievi, 2011; Bombardieri, 2012).
Le 189 diverse nazionalità degli immigrati in Italia costituiscono un indizio comunque certo, che la differenza di religione abita la porta accanto, il mercato di quartiere, una corsia di ospedale, un istituto penitenziario, le aule scolastiche, i servizi sociali comunali e così via. Le stime sono un punto di partenza, ma non sono più sufficienti per dare una rappresentazione della geografia socio-religiosa italiana, che possa approssimarsi alla realtà, al vissuto e ai modi di appartenere ad una religione. Le stime, in altre parole, non possono fornirci una risposta alla domanda in che cosa credono quelli che formalmente classifichiamo, di volta in volta come musulmani, buddisti, hindu, sikh, pentecostali e così via.
Cominciamo approssimativamente a capire, dove si addensano nel territorio le presenze delle diverse religioni degli immigrati, ma una cartografia dei luoghi di culto è ben lungi dall’essere completa e precisa. A occhio nudo tali luoghi non si vedono ancora. Almeno il nostro occhio, pigramente abituato a riconoscere con un battere di ciglia una chiesa cattolica, non è abituato, altrettanto a colpo sicuro, a mettere a fuoco edifici che identificano la presenza di altre religioni, diverse da quella di maggioranza. Anche l’occhio vuole la sua parte nelle religioni. L’occhio riflette e registra un mondo ordinato esterno a noi, dove si situano cose a noi familiari. Se un domani accanto alla parrocchia di quartiere sorgesse una moschea o un tempio sikh, il nuovo edificio potrebbe apparire come un’intrusione, una dissolvenza che non si risolve nello sguardo, ma che potrebbe anzi, lì per lì, disturbarlo. Qualcosa deve pure insegnarci il recente referendum, celebratosi nell’autunno del 2009 in Svizzera, per impedire la costruzione di minareti (si badi, non di moschee), perché ritenuti dai suoi promotori simboli ingombranti in un paesaggio religioso segnato e occupato prevalentemente da campanili.
Cominciare a vedere come la geografia socio-religiosa dell’Italia sia cambiata significa, innanzitutto, fare un passo avanti rispetto alle stime relative alle diverse realtà religiosa, ormai radicate nel nostro Paese. Ci sono comunità religiose che presentano un grado di omogeneità maggiore, altre, invece, sono differenziate al loro interno (come nel caso sia dell’islam sia delle chiese ortodosse che fanno riferimento a diversi patriarcati o chiese nazionali). Per le prime è più facile reperire i dati, per altre realtà è molto più complesso (come nel caso delle comunità musulmane, divise fra diverse associazioni che rappresentano, a volte universalmente il mondo dei credenti, altre volte solo in base all’origine geografica), per altre ancora, pur esistendo un certo grado di differenziazione, si riesce a far fronte al problema di una rappresentazione credibile dei luoghi di culto, affidandosi ad una rete – che abbiamo costruito pazientemente – di testimoni privilegiati, che ci hanno fornito indirizzi e altre preziose indicazioni.
Le mappe servono per viaggiare; assieme alle bussole è più facile orientarsi, quando si desidera comprendere la nuova cartina delle religioni in Italia. Se un viaggiatore percorresse dal Nord al Sud e dall’Ovest all’Est il Bel Paese, non scorgerebbe certamente a prima vista né templi sikh, né moschee, così come non saprebbe riconoscere chiese ortodosse (fatte poche eccezioni, se capitasse a Trieste o Venezia oppure, al Sud, a Bari o a Reggio Calabria, dove esistono chiese che costituiscono il segno e la testimonianza di una storica presenza di fiorenti comunità ortodosse, greche o albanesi) e tanto meno mandir hindu, templi buddisti, meno ancora avvertirebbe la presenza di chiese neo-pentecostali africane, latino-americane o cinesi. Mentre le chiese neo-pentecostali africane sono state fatto oggetto di specifica indagine (Pace, Butticci, 2010), le altre due realtà, quella latino-americana e quella cinese rimangono sullo sfondo. Il problema, del resto, con queste nuove chiese è che è molto difficile localizzarle, essendo spesso nate e vivendo in condizioni molto precarie dal punto di vista logistico e operativo. In ogni caso è bene sapere che alcune mega-chiese latino americane sono presenti, in particolare la Igreja Universal do Reino de Deus, nata in Brasile nel 1977 e diffuso in molti Paesi. Questa chiesa ha dieci sedi in Italia (Roma, Milano, Torino, Genova, Mantova, Verona, Udine, Napoli, Firenze, Siracusa). Poco o nulla si sa della religiosità dei cinesi, fatta eccezione per uno studio condotto a Torino (Berzano et al., 2010).
L’articolo si divide in due parti. In una prima, sintetizzerò i principali risultati della ricerca sul pluralismo religioso in Italia1, mentre nella seconda mostrerò quali siano gli scenari possibili che si aprono nelle relazioni fra le nuove diverse religioni, da un alto, e la religione storicamente dominante, il cattolicesimo, dall’altro.
1. Lento pede. Il movimento della tartaruga
Il fermo immagine sulla mappa delle religioni in Italia ci rivela la seguente situazione per quanto riguarda il luoghi di culto (tab.n. 1).
Tabella n. 1 I luoghi di culto delle nuove presenze religiose in Italia al 2012
Denominazione |
Luoghi di culto |
Popolazione per appartenenza religiosa (stime Caritas) |
Islam |
655 |
1.645.000 |
Chiese ortodosse |
355 |
1.405.000 |
Chiese neo-pentecostali africane |
658 |
150.000 |
Sikh |
36 |
120.000 |
Buddisti |
126 |
80.000 |
Hindu |
2 |
1.500 |
totale |
1.832 |
3.265.000 |
Come si può notare, mancano le chiese evangeliche cinesi e quelle latino-americane. Le prime sono di difficile rilevazione, le seconde iniziano a diffondersi, ma la loro rilevanza non è paragonabile a quella delle altre denominazioni così come sono risultano nella tabella poco sopra riportata.
I luoghi di culto dell’islam sono sparsi in tutto il territorio italiano, con una densità maggiore laddove lo sviluppo delle piccole e medie aziende, dei tanti distretti industriali del Nord e Centro Italia, ha drenato dai Paesi a maggioranza musulmana molti immigrati. Non solo il Maghreb (con in testa il Marocco, con i suoi mezzo milione di donne e uomini ormai stabilmente presenti in Italia da almeno venti-venticinque anni), ma anche l’Egitto, il Pakistan e il Bangladesh (risalgono a tempi più lontani le relativamente estese comunità iraniane e siriane, costituitesi in concomitanza con le vicende politiche dei due Paesi, con l’avvento del regime khomeinista nel primo caso e la repressione delle opposizioni politiche da parte di Afez Assad negli Ottanta, nel secondo).
La mappa qui di seguito riportata dà conto a occhio nudo della diseguale diffusione dei luoghi di culto (prevalentemente sale di preghiere – musallayat – a volte ospitate in luoghi precari e poco confortevoli, dal momento che moschee in senso proprio se ne contano su un palmo della mano – sono esattamente tre, la più importante è quella di Roma aperta nel 1995, capace di ospitare 12.000 fedeli) (mappa n. 1)
Mappa n. 1 I 655 centri di preghiera dei musulmani in Italia
(dati aggiornati al 2012 per Regioni)
L’addensamento dei centri di preghiera lo si registra, come si vede, lungo l’asse Ovest-Est, con picchi elevati soprattutto rispettivamente in Lombardia, Veneto e Emilia-Romagna. La distribuzione così ottenuta riflette, inoltre, le diverse componenti del mondo musulmano, che si riconosce in alcune associazioni nazionali più rilevanti, non fosse altro perché a ciascuna di esse fanno capo, dal punto di vista organizzativo, quasi tutti i luoghi censiti. Da un lato, l’Unione delle comunità islamiche d’Italia (UCOII), vicina storicamente (ma in via di trasformazione interna oggi) ai Fratelli musulmani, una delle associazioni più organizzate, gestisce il 31% (205) delle sale di preghiera censite, mentre, dall’altro, un altro 32% (209) si riconosce nella nuova confederazione islamica italiana (CII), che aggrega prevalentemente immigrati (con le loro famiglie) d’origine marocchina. Le altre 240 musallayat sono distribuite fra altre associazioni di minore consistenza, anche se, almeno in un caso, quello del COREIS (Comunità religiosa islamica), fondato da un italiano convertitosi all’islam (per il tramite della tradizione esoterica che rimonta alla figura e al pensiero di René Guénon), si tratta, come si intuisce, di un islam italiano in senso stretto. In tal caso, pur essendo un piccolo gruppo, esso ha una rilevanza pubblica che non ha eguali con nessuna delle altre associazioni appena ricordate.
La presenza degli ortodossi, in confronto con quella a tutt’oggi precaria (anche dal punto di vista degli spazi urbani e dei siti destinati al culto, spesso poveri e di risulta) delle varie comunità musulmane, che attendono ancora un inquadramento giuridico (un’intesa, secondo le norme costituzionali italiane, fra esse e lo Stato) appare molto più stabile e definita. Non solo perché una delle chiese ha ottenuto da poco (nel dicembre 2012) il riconoscimento da parte dello Stato italiano, ma anche perché il loro inserimento nel tessuto socio-religioso italiano è stato facilitato, almeno per le chiese rumena, moldava e ucraina, dai vescovi della chiesa cattolica. In molte diocesi, dove la domanda di luoghi culto o parrocchie, era visibile e pressante, i vescovi hanno autorizzato il riutilizzo di piccole chiese ormai prive di parroci o cappelle, anch’esse da tempo in disuso, collocate in aree marginali rispetto al tessuto urbano, offrendole alla gestione di preti ortodossi. Il quadro complessivo, come ricostruito con precisione nella ricerca, da parte di Giuseppe Giordan, risulta essere il seguente (tab n. 2)
Tabella n. 2 La presenza delle nuove parrocchie ortodosse d ripartite per la diversa appartenenza istituzionale (dati aggiornati al 2012)
Giurisdizione |
Parrocchie e monasteri |
Chiesa Ortodossa Romena (Patriarcato di Romania), Diocesi d’Italia |
166 |
Sacra Arcidiocesi Ortodossa di Italia e di Malta (Patriarcato ecumenico di Costantinopoli) |
84 |
Chiesa Ortodossa Russa (Patriarcato di Mosca), Amministrazione delle chiese in Italia |
44 |
Chiesa copta ortodossa |
21 |
Chiesa ortodossa greca del Calendario dei Padri – Sinodo dei resistenti |
9 |
Arcivescovado per le chiese ortodosse russe in Europa occidentale (Esarcato del Patriarcato Ecumenico), Decanato d’Italia |
7 |
Chiesa etiopica ortodossa Tewahedo |
5 |
Chiesa Ortodossa Serba (Patriarcato di Serbia) |
4 |
Chiesa ortodossa romena del Vecchio Calendario |
3 |
Chiesa ortodossa autonoma dell’Europa Occidentale e delle Americhe – Metropolia di Milano e Aquileia |
3 |
Chiesa Ortodossa Bulgara (Patriarcato di Bulgaria) |
2 |
Chiesa ortodossa eritrea |
2 |
Chiesa ortodossa macedone |
2 |
Chiesa apostolica armena |
1 |
Chiesa ortodossa russa di rito antico (Metropolia di Belokrinitsa) |
1 |
Chiesa ortodossa in Italia |
1 |
Totale |
355 |
(fonte Giordan, 2013)
La grande maggioranza delle parrocchie è stata istituita dopo il 2000 e quasi otto su dieci sono ospitate in chiese concesse dai vescovi cattolici. L’81% dei pope è sposato e nel 69% dei casi ha un’età compresa fra i 29 e i 45 anni. Rispetto alle comunità musulmane, le parrocchie ortodosse sono presenti in modo più omogeneo su tutto il territorio nazionale, come si può vedere dalla mappa che segue.
Mappa n. 2
Le parrocchie ortodosse in Italia (dato aggiornato al 2012)
Se passiamo ai 36 templi sikh (Gurudwara), la loro irregolare distribuzione sul territorio dipende dai segmenti di mercato del lavoro che gli immigrati provenienti dal Panjab sono andati gradualmente ad occupare. Una percentuale consistente ha colmato il vuoto lasciato in tutta l’area centrale del Nord-Ovest e Nord-Est, comprendendo anche parte dell’Emilia, dagli allevatori di mucche delle grandi aziende lattiero-casearie o di prodotti derivati dai suini: ai tradizionali bergamini (così sono chiamati in tutta la Valle padana) si sono sostituiti lavoratori con il turbante, i sikh. Per contratto questi migranti hanno potuto avere non solo un buon salario, ma anche l’abitazione, solitamente annessa alla stalla, per consentire la cura del bestiame in modo continuativo. Ciò ha loro consentito di ottenere rapidamente il ricongiungimento familiare – cosa non frequente per altre comunità di migranti che non potevano vantare certamente un’abitazione stabile – e, di conseguenza, si è formata ben presto una generazione di italo-sikh (o perché arrivata in tenera età o perché nata in Italia).
I sikh sono circa 80.000 sui 120.000 provenienti dall’India. Il periodo di massimo afflusso in Italia risale al 1984, quando nella regione del Panjab si verificano per il combinarsi di una pluralità di fattori, una grave crisi sociale, che possono essere così riassunti: blocco dei permessi di ingresso in Gran Bretagna, dove storicamente si era diretto il flusso migratorio; la crisi agraria; i conflitti politici fra il movimento indipendentista panjabi e il governo di New Delhi (Denti, Ferrari, Perocco, 2005; Bertolani, 2005; Bertolani, Ferraris, Perocco, 2011).
La mappatura dei gurudwara, che è stata curata da Barbara Bertolani (2013), rivela, inoltre, da un lato un progressivo processo di istituzionalizzazione delle comunità, che non solo sono in grado di trovare le risorse finanziarie per ristrutturare ex-capannoni industriali trasformandoli in edifici di culto, ma anche di negoziare, senza particolari difficoltà amministrative e ostacoli di natura politica (come, invece, accade, sovente a livello locale con le comunità musulmane che chiedono di poter aprire una sala di preghiera o una moschea), e dall’altro una iniziale differenziazione al loro interno. Esistono, infatti, due associazioni diverse (l’Associazione Sikhismo Religione Italia e l’Italy Sikh Council), cui fanno capo i vari templi; inoltre, è presente una corrente religiosa minoritaria ritenuta eterodossa dal sikhismo mainstream: è quella dei Ravidasi. Si tratta di un gruppo di seguaci di un maestro spirituale che sarebbe vissuto tra il XIV e il XV secolo nel Panjab, di nome Ravidas Darbar, che per la sua sapienza e autorevolezza è stato riconosciuto come un nuovo guru oltre ai dieci che tutto il mondo sikh venera. A dispetto del fatto che alcuni inni, attribuiti a Ravidas, siano stati introdotti nel testo sacro dei sikh (il Granth Sahib), la maggioranza dei sikh nega lo statuto di guru come quelli ufficialmente riconosciuti per tradizione; inoltre, Ravidas sembra che provenisse da una casta di dalit, dedita al mestiere di conciatura delle pelli, ritenuta dai bramini hindu attività sommamente impura: è vero che, in principio, la via dei sikh (che letteralmente traduce l’espressione sikh-panth) ha predicato l’abolizione dei sistema delle caste, ma la resistenza nei confronti dei dalit sembra dura a morire anche fra i sikh contemporanei.
Mappa n. 3
I 36 templi sikh (gurudwara) in Italia (dati aggiornati al 2012)
Ho scelto sinora solo alcune mappe fra le altre che potevano essere mostrate (da quella relativa alle densità della presenza delle chiese africane neo-pentecostali ai centri buddisti), per documentare il lento movimento della società italiana verso una configurazione socio-religiosa inedita, inattesa e, per alcuni aspetti, ignota a molte persone. I sikh, ad esempio, laddove sono più presenti, sono stati a lungo scambiati per arabi con il turbante o degli ortodossi sono in pochi a cogliere le differenze che esistono fra loro, a seconda delle diverse appartenenze alla diverse chiesa nazionali.
Per completare il quadro, vale la pena dare un’occhiata ad altre mappe. Esse riflettono il cambiamento interno alla società italiana; non sono dovuto a di fenomeni esogeni, come le migrazioni di donne e uomini da diversi Paesi nel mondo. Anche in tal caso, scelgo due mappe: riguardano entrambe la crescita, negli ultimi dieci anni, rispettivamente dei Testimoni di Geova e delle diverse congregazioni di matrice pentecostale (le più importanti sono le Assemblee di Dio e la Federazione delle Chiese Pentecostali). Entrambe reclutano nuovi membri fra persone, nate cattolica in Italia, che hanno deciso di aderire ad un’altra forma di cristianesimo.
I Testimoni di Geova si insediano a partire dal 1891 e da allora hanno conosciuto una costante crescita. Oggi essi sono diffusi su tutto il territorio nazionale (vedi mappa n. 4), grazie a più di tremila congregazioni, alle mille e cinquecento sale del Regno, ai 250.000 evangelizzatori e altrettanti simpatizzanti, più un numero non trascurabile di nuove adesioni raccolte fra le fila di immigrati albanesi, rumeni, cinesi così come fra africani francofoni e di lingua portoghese (Naso, 2012).
Ancor più significativa è la diffusione delle chiese di matrice pentecostale. La maggioranza di esse fa capo alle Assemblee di Dio, con 1.181 comunità sparse in tutte le regioni italiane, ma con una densità maggiore in alcune importanti aree del Sud del Paese (Sicilia, Campania e Calabria, come si vede dalla mappa n. 5), aree che nell’immaginario collettivo italiano sarebbero regioni con forti tradizioni cattoliche. L’altra sigla, la Federazione delle chiese pentecostali conta quattrocento congregazioni e circa 50.000 membri.
Mappa n. 4
I Testimoni di Geova in Italia (congregazioni e sale del regno nel 2012)
(fonte: Naso, in Pace, 2013)
Mappa n. 5 Le Assemblee di Dio in Italia (2012)
Se alla presenza di comunità e chiese pentecostali di matrice protestante, aggiungiamo, da un lato, l’insediamento di chiese neo-pentecostali africane, latino-americane e cinesi, e, dall’altro, la formazione in seno alla Chiesa cattolica di un movimento come il Rinnovamento nello Spirito (RnS), che oggi aggrega in Italia circa 250.000 persone ed è ramificato con le sue 1842 comunità in quasi tutte le regioni (si veda la tab. n. 3), si comprende come il modello di religione-di-chiesa che il cattolicesimo ha costruito nel corso dei secoli, attraverso la civilizzazione parrocchiale, è sfidata da un modello alternativo, dove conta maggiormente l’esperienza (tramite il rito comunitario) dei carismi e molto meno un apparato di dogmi e, soprattutto, una forma organizzativa che non preserva più la tradizionale separazione fra clero e laici. Se lo Spirito soffia dove vuole, il pentecostalismo in tutte le sue espressioni, prendendo piede, in una società tradizionalmente cattolica, potrebbe diventare un elemento di ulteriore differenziazione delle scelte degli italiani in campo religioso.
Tabella n. 3
Le comunità del Rinnovamento nello Spirito (RnS) (1978-2005) nelle Regioni
Regioni |
1978 |
2005 |
Abruzzo
|
9 |
51 |
Basilicata
|
1 |
27 |
Calabria
|
10 |
97 |
Campania
|
13 |
193 |
Emilia-Rom. |
12 |
77 |
Friuli V.G.
|
0 |
23 |
Lazio
|
26 |
100 |
Liguria
|
17 |
46 |
Lombardia
|
30 |
174 |
Marche
|
9 |
83 |
Molise
|
6 |
17 |
Piemonte
|
41 |
176 |
Puglia
|
8 |
114 |
Sardegna
|
9 |
82 |
Sicilia
|
22 |
292 |
Toscana
|
9 |
75 |
Trentino
|
0 |
15 |
Umbria
|
4 |
26 |
Veneto
|
42 |
90 |
Totale |
1037 |
1842 |
(fonte: Contiero, 2012)
2. Achille a due velocità
La geografia socio-religiosa italiana, dunque, sta cambiando. Lentamente, ma costantemente e in modo irreversibile; le mappe e i dati sin qui ricordati registrano fedelmente anche la nuova transizione demografica che interessa la società italiana tutta, in verità, da almeno cinquanta anni a questa parte.
Si può affermare, infatti, che l’invecchiamento della popolazione italiana continua a mantenersi elevato (il 20% della popolazione si colloca già oggi nella fascia oltre i 65 anni di età). La popolazione, nel frattempo, non diminuisce grazie all’aumento del tasso di natalità (da 1.19 del 2002 al 1,25 del 2012) per donna, dovuto alla maggiore propensione delle famiglie di immigrati a fare figli e in numero mediamente più alto rispetto alle coppie di italiani. Su questo sfondo, non stupisce che il tasso di invecchiamento del clero cattolico sia in costante aumento. Se nel 1972 c’erano in Italia 42.000 sacerdoti, si prevede che tale cifra scenda a 25.000 nel 2023. Il 48% del clero italiano, infatti, ha oggi un’età superiore ai 65 anni e l’età media di tutto il clero è di 62 anni. Le vocazioni ristagnano e le politiche di reclutamento di giovani preti asiatici e africani non sembrano in grado di colmare il vuoto che già si intravvede fra le fila del clero italiano (Castegnaro, 2012). A confronto i nuovi pope delle 355 parrocchie ortodosse sono mediamente molto più giovani (il 60% ha un’età compresa fra i 30 e i 45 anni, mentre il 6% al di sotto dei 30), così come i seicento imam delle comunità musulmana non superano mediamente la soglia dei 35 anni o i trecento pastori delle chiese pentecostali africane si attestano attorno ad una media di 28-35 anni..
Per la Chiesa cattolica italiana il mutamento del panorama religioso costituisce, perciò, una novità storica assoluta. Abituata a sentirsi, a buon diritto, un’organizzazione di salvezza ben organizzata, diffusa omogeneamente su tutto il territorio nazionale (con le sue 28.000 parrocchie, più un numero consistente di monasteri, santuari, centri di accoglienza per ritiri spirituali e così via), autorevole attore nello spazio pubblico, la Chiesa cattolica, qui intesa in tutte le sue articolazioni (dalla gerarchia al clero di base, dalle associazioni di laici ai semplici fedeli credenti e praticanti), comincia a misurarsi con le trasformazioni in corso, con l’inedita diversità religiosa, nei cui confronti, per un lungo tratto della breve storia nazionale italiana, essa aveva mantenuto sino al Concilio vaticano II una forma di disattenzione civile, per poi passare, negli anni del dialogo ecumenico e interreligioso, alla pratica delle aperture nei confronti sia delle comunità ebraiche sia delle chiese di matrice protestante. Essa aveva saputo e potuto considerare le altre presenze religiose, che comunque, ci sono state in Italia come interlocutori eventuali di un dialogo fra fedi diverse, che essa stessa promuoveva, con l’intento di mostrarsi tollerante, aperta, e, allo stesso tempo, di dimostrare, dall’altro, che nel campo religioso in Italia essa restava il dominus della scena pubblica, il primus inter pares nella regolazione della comunicazione pubblica in tema di religione. Parallelamente alle iniziative ufficiali prese dai papi e dai vescovi che si sono succediti dal Vaticano II in poi, la stagione del dialogo era proseguito vedendo fiorire un pulviscolo di inziative spontanee (associazioni ebraico-cristiane; tavoli permamenti di dialogo fra cristiani musulmani e ebrei e così via). Si trattava, sociologicamente parlando, di un riconoscimento dell’esistenza di altri soggetti a vocazione religiosa, che si vedevano, spesso per la prima volta, attribuire il diritto di parola in campo religioso che era stato interamente occupato da un solo soggetto, la Chiesa cattolica (Pace, 2011b). L’arrivo massiccio degli immigrati da diverse parti del mondo ha cambiato completamente lo scenario religioso. Alla diversità di fede fra italiani, si sono aggiunte altre diversità: di lingua, di cultura, di nazionalità e di costumi. Ciò che era lontano è diventato vicino e l’esotico familiare. Non si trattava più di dialogare con il vicino, ma di prendere coscienza del mutamento profondo della composizione socio-religiosa della popolazione italiana.
La Chiesa cattolica, in tutte le sue espressioni, da un lato, non è rimasta indifferente al movimento della società, dall’altro, procede con prudenza. Essa, infatti, ha cercato di interpretare il fenomeno, facendo appello a tutte le proprie interne risorse, materiali e simboliche. Ha agito, in tal modo, come un sistema organizzato ed esperto di credenza religiosa (Pace, 2011a), abituato ad agire in un ambiente sociale in condizioni di monopolio simbolico, che cerca, in quanto sistema, di trasferire l’inedita complessità esterna in differenziazione interna. Il sistema-chiesa si sforza di inquadrare il nuovo che fuori di esso prende forma e senso, secondo proprie categorie larghe e strette allo stesso tempo, secondo codici aperti e chiusi. Se si prende in considerazione l’aspetto che può essere definito del welfare cattolico gestito direttamente dalla Chiesa e dalle sue più importanti associazioni di supporto (dalla Caritas alle ACLI), lo sforzo è imponente, come si può vedere dalla mappa relativa ai centri di accoglienza e assistenza (religiosa) specificamente creati per dare una risposta ai bisogni materiali e spirituali di tanti immigrati.
Mappa n. 6 Centri pastorali cattolici per gli immigrati per Regioni (dati al 2012)
Tale sforzo capillare di assistenza e accoglienza è stato bilanciato da una differenziazione della disponibilità al dialogo ravvicinato con le altre fedi religiose che hanno cominciato ad organizzarsi nel territorio italiano. Perciò, si può affermare, per tornare alla metafora iniziale, che Achille ha cercato di inseguire la tartaruga, muovendosi a due velocità.
Fuor di metafora, infatti, in primo luogo, la Chiesa cattolica, soprattutto grazie alle associazioni di welfare religioso, ha affinato il tradizionale intervento caritativo, impegnandosi anche in un’azione di critica sociale nei confronti delle condizioni di ingiustizia e di stigmatizzazione negativa di cui sono stati fatto oggetto, soprattutto all’epoca dei governi di centro-destra, gli immigrati in genere. In secondo luogo, la Chiesa cattolica italiana ha cercato di ribadire la propria centralità nello spazio pubblico, riconoscendo l’esistenza di un pluralismo religioso, ma al tempo stesso difendendo le posizioni di rendita che storicamente essa ha conquistato nel corso del tempo. Sono due, a tal proposito, gli indicatori, fra altri meno rilevanti nell’economia del discorso che stiamo facendo, di questa seconda tendenza. Il primo è la difesa dell’insegnamento della religione cattolica in tutte le scuole pubbliche di ogni ordine e grado (dalla scuola d’infanzia alle superiori, un’ora per settimana); il secondo è la differenziazione del processo di comunicazione con le nuove presenze religiose.
Per quanto riguarda l’insegnamento della religione cattolica, infatti, la strategia della Chiesa è stata sinora la seguente: dal punto di vista istituzionale, ottenere dallo Stato l’inquadramento degli insegnanti di tale materia (che sono formati e reclutati dalla Chiesa stessa presso gli istituti di scienze religiose diocesane) nei ruoli pubblici, equiparati, dunque, a tutti gli altri insegnanti, e di far passare l’idea che si tratti di un’ora di cultura religiosa non strettamente confessionale ma attenta a presentare anche le altre fedi religiose.
Per quanto attiene, invece, la differenziazione dell’offerta di dialogo, la Chiesa cattolica, a livello ufficiale, ha un occhio di riguardo per le chiese ortodosse (alle quali spesso concede, come abbiamo visto, chiese e cappelle ormai rimaste prive di fedeli e parroci), mentre è più cauta con le altre presenze religiose, in particolare con il variegato mondo musulmano. Nei confronti di esso, infatti, se sino al 2001, parroci e associazioni cattoliche a livello locale erano ben disposti al confronto e a concedere spazi di preghiera in ambienti annessi alle parrocchie, dopo l’attentato delle Torri Gemelle e il graduale sentimento di timore e sospetto che divide ancor oggi i cattolici praticanti, l’apertura di credito nei confronti dei musulmani si è ridotta.
Conclusione
Il caso italiano, dal punto di vista religioso, è un buon esempio di come e inquale misura un sistema di monopolio simbolico subisce delle trasformazioni per via esogena. La diversità religiosa, inedita e inattesa, che comincia a prendere forma nel territorio, costringe, infatti, a riscrivere le mappe della religiosità e della secolarizzazione che per tanti anni i sociologi della religione in Italia hanno continuato a osservare per interpretarne i cambiamenti. Spesso interni al cattolicesimo stesso (Garelli, 2011; Cartocci, 2011); sovente registrando piccoli scostamenti percentuali in un quadro di apparente sostanziale immobilità, guardando soprattutto al livello di auto-rappresentazione collettiva che sino ad oggi gli italiani manifestano: si dichiarano cattolici (per più dell’85%), pur rivelando un’elevata differenziazione (con livelli altrettanto diversificati di secolarizzazione) sia negli atteggiamenti del credere sia nei comportamenti (dalla pratica religiosa alle scelte morali, a volte molto individualizzate e del tutto autonome rispetto alla dottrina ufficiale della Chiesa cattolica).
Per la prima volta, dopo anni di ricerca, le mappe (alcune delle quali qui riportate) ci mostrano che dobbiamo dotarci di altre bussole per interpretare una realtà socio-religiosa in rapida trasformazione. Lo stesso cattolicesimo subirà alla lunga un certo cambiamento interno. Non basterà dire “arrivano i nostri” per derubricare dal tema del pluralismo interno alla Chiesa cattolica il fatto che fra gli immigrati almeno un cinque per cento è di fede cattolica, ma proveniente da mondi che si stanno allentando dalla teologia e dalla liturgia romana: cattolici africani, latino-americani, filippini, cinesi e coreani apporteranno un punto di vista sul modo di essere cattolico non necessariamente coerente con la tradizione italiana mainstream.
Si apre, dunque, un nuovo campo d’indagine, che richiederà non solo nuove energie intellettuali per indagare la realtà del vissuto religioso di tante persone appartenenti ad altre religioni, superando l’etnocentrismo (o il cattolico-centrismo che inevitabilmente ha caratterizzato gli studi e le ricerche su una società a dominanza cattolica), ma anche una riflessione critica sui concetti e gli apparati teorici di riferimento che siano all’altezza dell’inedito pluralismo religioso che caratterizza e caratterizzerà sempre più la realtà italiana.
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Enzo Pace è Ordinario di Sociologia e Sociologia delle religioni all’Università di Padova.
Indirizzo: Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia, Psicologia Applicata, sede di Sociologia, via Cesarotti 12, 35123 Padova (I). mail: vincenzo.pace@unipd.it
1 La ricerca è stata finanziata dal Ministero dell’Istruzione e dell’Università (MIUR) . Il gruppo di ricerca, coordinato da Enzo Pace, era composto, rispettivamente, dalle unità di Padova (Stefano Allievi, Barbara Bertolani, Annalisa Butticci, Monica Chilese, Annalisa Frisina, Giuseppe Giordan, Khalid Rhazzali, Valentina Schiavinato), Bologna (Massimiliana Equizi, Cristiana Natali, Pino Lucà Trombetta, Azeb Trombetta), Torino (Giulia Becchis, Luigi Berzano, Carlo Genova), Roma (Enrico Gandolfi, Domenico Di Sanzo, Maria Immacolata Macioti, Antonietta Maggio, Paolo Naso), Palermo (Annamaria Amitrano, Giuseppe Burgio, Igor Cardella, Elisabetta Di Giovanni).
Category: Culture e Religioni
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