Diritto alla cultura e all’educazione in una prospettiva romanì
1. I diritti
Le realtà rom incontrano il diritto e i diritti a partire da una posizione di svantaggio, prodotto quotidianamente e divenuto uno dei nodi delle loro difficoltà di una esistenza – resistenza[1]. Questa difficoltà si moltiplica a dismisura soprattutto per le persone e le comunità che abitano nei cosiddetti “campi nomadi”. L’interloquire con i gaggi condiziona la percezione e l’utilità dei diritti, ed è la qualità di questo interloquire che finisce talvolta a rafforzare le difese indirizzate all’agire dell’altro e talvolta a rafforzare la distanza sociale in un continuo investimento di inutilità e danno verso tutto ciò che rappresenta l’affermazione dei diritti. L’inutilità dei diritti arriva a includere persone, vicinati, istituzioni, il sociale organizzato o meno, e tutto quello che è del gaggio poiché il diritto è del gaggio. L’inutilità dei diritti segna la negatività della relazione fra rom e non rom, fonda appartenenze lontane, nella separazione, e diventa uno dei meccanismi generativi di quelle stesse distanze.
Le realtà rom regolano con i propri diritti i loro rapporti interni ai gruppi e alle comunità, la conoscenza dei quali risulta parziale, forse nulla, e comunque destinata a consolidare la categoria dell’appartenenza rom nella diversità. Non si indagano le differenze e le somiglianze sono delegate al sovrannaturale (“siamo figli dello stesso Dio”) oppure sono escluse a priori.
La considerazione dei diritti da parte della minoranza rom, minoranza destoricizzata, perseguitata, investita di a-socialità e di pregiudizi, assume in questo momento storico europeo una particolare valenza. L’apertura europea ai popoli, considerati nella formazione di un istituzione sovranazionale, include i rom, popolo europeo, minoranza del territorio nazionale e locale dei singoli Stati membri e popolo di dimensioni europee. In questa nostra Europa delle due guerre mondiali e di Auschwitz, gli approcci di apertura policentrica significano riconoscimento e pragmatiche di inclusione, agite e produttrici di convivenza. Significano progressivamente la costruzione di una grande entità istituzionale, sovranazionale, per dare cittadinanza e riconoscimento a tutti i popoli che vi abitano. Riconoscere e considerare i rom, allontana l’Europa dal rischio “Bosnia”. Apertura, convivenza e mescolanza di genti, permettono all’Europa di allontanarsi dalle politiche concentrazioniste di enclave e di settorializzazione. Un’Europa che riconosce e rivisita il passato e imposta il superamento delle politiche secolari di esclusione e di allontanamento riservato alle minoranze e alla minoranza rom. Si cerca di superare il pogrom, come unico dispositivo di trattamento delle minoranze
L’impostazione e la strutturazione del pogrom, storicamente e attualmente dove si manifesta come “azione democratica” si sta servendo dell’invenzione delle categorie di “a – socialità” e della “pericolosità sociale” – argomenti antichi e incardinati nelle stereotipie pregiudiziali fondanti le emergenze – da attribuire agli “zingari”. Gli argomenti usati, adoperando nella attuale contesto ogni potentissima disponibilità tecnologica dei mass media, si appoggiano su teorie relative alla securitizzazione dell’altro, proposte come “scientifiche” e “neutre”; ed è questo elemento di “neutralità” che accresce il loro consenso e li rende “innocui”, “docili”, “inevitabili”. Ancora oggi, ci si avvale del pogrom e le attenzioni sfuggono indebolendo le democrazie poiché l’indebolimento istituzionale diventa una quotidianità piena di banalità, di stereotipie e di chiusure. No ci si interroga sulle vicinanze e ci si affida alle paure e alla non considerazione dell’altro.
L’a-problematicità del rapporto con la minoranza rom la fa apparire come “zingara” e come “nomade”, vale a dire che è la debolezza stessa dell’analisi che teorizza le sue posizioni per spiegare, talvolta, forse per giustificarsi, socialmente e istituzionalmente. Occorre ripensare che cosa provoca distanza sociale ed istituzionale nei nostri rapporti, come si produce conoscenza sociale, come conosciamo quello che pensiamo di conoscere, quali possono essere i riconoscimenti che devono essere investiti dalla reciprocità e, soprattutto, quale può essere l’impostazione dell’istanza politica per affrontare intenzionalmente le minoranze.
2. Il nomadismo
La richiesta di capire, va rafforzata dall’esplorazione del quotidiano, specialmente quello degli incontri e delle frequenze, del lavoro e della salute. Occorre capire gli spazi dell’infanzia e del domestico. Occorre assemblare le icone di una solitudine etnica confinata nella vicinanza – lontananza dei campi “nomadi”.
Capire la condizione di vita dei rom significa capire l’estremo, capire un quotidiano nell’estremo. Capire una popolazione esule nelle periferie e nella povertà delle nostre città, dai rapporti residuali e istituzionalizzati, dove non c’è traccia di persone della terza età e dove i bambini giovani faticano per conoscere e capire la propria storia. Capire significa sapere che l’età media dei rom in Europa è di quarantadue anni.
Occorre andare a rivedere il modello dell’approccio che usiamo per descrivere l’altro: nell’avvicinarsi ai rom, ci siamo lasciati andare con molta facilità ad un’idea di nomadismo investito spesso da una retorica compiacente, “dolce”, – “sono figli del vento”, “vivono di emozioni” , “passano le giornate cantando e ballando”, “non pensano al futuro” – e altre volte, più pesantemente negativa, – “sono nomadi”, “zingari si nasce” per cui “è impossibile relazionare con loro”, “sono così geneticamente” non possono essere diversamente – e tutto ciò ci ha creato un alleggerimento di pensiero, – sono nomadi, per cui non pensiamo a loro, non possiamo soffermarci sui loro problemi, tanto prima o poi si sposteranno, è inutile investire, pensare, proporre a loro qualsiasi cosa al di fuori dell’idea della provvisorietà – poiché è legittimo investire di provvisorietà chi non si attribuisce appartenenza cioè stabilità e “proprietà” territoriale. Si investe di provvisorietà la minoranza – minorità che si può “nomadizzare”, allontanare e disporre a piacimento perché considerata superflua, perché al di fuori dalle categorie di cittadinanza, di parità e uguaglianza dei diritti; perché confinata eternamente nella diversità. Individui e gruppi, comunità e persone, diversi per cui non indispensabili, che ci autorizziamo a collocare al limite della precarietà.
Considerare i pogrom contro i rom, la quotidianità di sgomberi ed allontanamenti, di violenza istituzionale e di violenza legalizzata, ci porta a pensare l’altro come un fuggiasco. In altri termini, qualcuno che non riesce e a cui gli è permesso di stabilizzarsi, né di avere quella tregua necessaria per stabilirsi in un territorio, interloquendo e crescendo con questo territorio e la sua gente, con i vecchi e i nuovi cittadini insieme, che si pensano e interagiscono fra pari potendo passare da una situazione di accoglienza ad una di mobilità sociale. Riferirsi ai rom, collocandoli nel binomio nomadismo – stanzialità risulta riduttivo e incline alla distorsione, diventa un’assoluzione e ci allontana dalla responsabilità anche diretta delle nostre azioni, e delle azioni istituzionali in particolare.
Occorre andare oltre e pensare semmai al binomio fuga-tregua per potere iniziare a pensare e a interloquire con i rom. E’ importante partire dalla fatica degli interrogativi per trovare la vicinanza dei saperi e della convivenza. È necessaria una attenzione per rivisitare i modelli di analisi, relativamente al binomio Nomadismo – Stanzialità, considerato finora come unica chiave interpretativa di una realtà difficile e talvolta estrema. La polarizzazione sul nomadismo nasconde la sostanza di una contrapposizione forte: la fuga e la tregua di una minoranza che adegua le sue presenze e la sua sopravvivenza nei territori europei, presenza e sopravivenza fondate e condizionate da e nei rapporti con i non rom, i gaggi.
Inoltre, visto che si tratta di una minoranza, facilmente tendiamo a pensarla come una cosa unica, descritta una volta per tutte, monomorfa, senza distinzioni all’interno come all’esterno. Al contrario è necessario considerare tutta la costellazione dei gruppi Rom e Sinti e tutto ciò che rappresenta “il nomadismo”, come una presenza che varia, sia come gruppi che come individui. Non a caso facciamo fatica a capire che tra loro ci sono bambini e adulti, uomini e donne e che non ci sono anziani, e poi continuiamo ad insistere, a far politiche sul nomadismo, alternando gli sgomberi ai pogrom, attraverso politiche che vogliono l’altro “liquido”, non stabile sul territorio e nelle relazioni.
In Italia abbiamo ancora 12 leggi regionali costruite maggiormente negli anni ‘80 che impostano politiche di promozione del nomadismo, quando anche i cosiddetti “nomadi”, una volta rinchiusi nei campi-nomadi, non si sono spostati più dalle periferie delle città e abbisognano ormai di misure di de-istituzionalizzazione per poter intraprendere un percorso di integrazione e di inserimento sociale. Difficilmente persone con responsabilità politiche e con responsabilità tecniche si interrogano sulla opportunità e la giustizia di operare ancora oggi con queste leggi. Si è venuta a creare, quindi, una situazione paradossale di sospensione dei diritti attraverso il diritto così come concepito nelle leggi regionali “nomadiche” e una non considerazione – soddisfazione dei bisogni attraverso la loro reinvenzione nella stesura e nelle prassi applicative di queste leggi.
3. Il dispositivo campo “nomadi”
La presunta estraneità degli “zingari” con o senza cittadinanza italiana non è stata considerata nelle sue varie dimensioni, problematizzandola sia sul piano delle condizione di vita sia quello dei diritti. Le istanze istituzionali e amministrative risultano riduttive, la soluzione abitativa proposta e costruita per i rom è esclusivamente quella del campo “nomadi”. Una misura che si banalizza nella tecnicità della risposta, perdendo la sua istanza politica. Non si indaga per capire ma si procede per evitare “ulteriori problemi”: siamo in emergenza e l’emergenza percepisce la soluzione campo “nomadi” come unica possibile e la riproduce. Il campo “nomadi” è una soluzione abitativa speciale, eternamente provvisoria, di una provvisorietà intenzionalmente permanente. Proposta per i rom e i sinti, è diventata il modello abitativo anche per proposte e soluzioni nei confronti dei migranti, dei profughi e di altre categorie di persone che richiedono la casa.
La soluzione campo “Nomadi”, Centro di Prima ed Eterna Accoglienza è diventata la soluzione a-problematica nell’affrontare i bisogni di intere fasce di popolazione emarginate e povere che richiedono una molteplicità di risposte organiche per superare tali condizioni di esclusione.
Il campo nomadi diventa “il proprio” dell’altro dallo “zingaro – nomade” ; la sua realtà, se viene presa in considerazione, lo è per l’abitare nei campi, centri di prima accoglienza o centri profughi, aree sosta, in una condizione che rafforza la povertà, soprattutto di relazioni, e la separatezza. Denotazioni ed etiche dei contesti di separazione, insospettabili e legalizzati, che accrescono e perpetuano il “convivere” di più differenze: la differenza culturale e la povertà, le differenze della malattia, della salute mentale, dell’handicap, la differenza culturale originaria dei gruppi e la cultura che si nutre del contesto di separazione, la devianza come proposta di integrazione con il resto della popolazione e la debolezza della proposta istituzionale per l’integrazione. Ed è in tali contesti che queste differenze si combinano con il vissuto di una cultura tradizionale millenaria, che si riformula a partire dalla cultura / subcultura del vivere nei campi.
L’abitare nel campo “nomadi” risulta una collocazione “inevitabile”, giustificata storicamente con l’equazione pregiudiziale “zingaro uguale nomade”. Attraverso i tempi prolungati, dell’obbligatorietà e della “naturalità” di questa collocazione sostenuta istituzionalmente, l’abitare nel campo nomadi ha avviato meccanismi di sradicamento culturale, che producono una cultura dell’apartheid. Se non si è abituati a vivere in roulotte, poiché da sempre si è vissuti in casa, e si viene collocati in un campo nomadi fatto di roulotte, se è pur vero che dopo dieci anni ci si adatta, non per questo si può sostenere che la “sistemazione” campo sia adeguata.
Occorre quindi riconoscere che le preferenze delle persone sono adattive, cioè si adatta al contesto di opportunità reali che hanno a loro disposizione. Concepire questo adattamento sposterebbe la comunicazione e spiegherebbe perché la risposta istituzionale si ripete sempre uguale a sé stessa, come del resto si ripete il comportamento di chi vive nei campi, rafforzando l’immagine del nomadismo a tutti i costi che investe i gruppi e le comunità rom.
Il campo, intervento residenziale pubblico, coinvolge le istituzioni che si attivano con interventi parziali e settoriali, soprattutto con interventi dei servizi sociali che per lo più sono frazionati e circoscritti, rispondono e demarcano soprattutto l’emergenza. Tali interventi non sono impostati progettualmente e non considerano i tempi lunghi di cui devono tenere conto per favorire l’uscita dai campi, né la dinamicità delle comunità e la loro inclusione nel tessuto urbano. Sono semmai indirizzati su alcune problematiche dei minori e trascurano gli adulti, senza incidere sulle questioni femminili, né sui percorsi familiari e comunitari.
Le politiche sociali che stanno a monte di questi interventi, sono (anche) il prodotto di leggi specifiche che cercano di contemplare il fenomeno e di disciplinarlo, partendo per lo più dal nomadismo, dentro al quale collocano in modo univoco tutte le comunità e le caratteristiche degli “zingari”.
Il fenomeno delle situazioni/condizioni delle comunità romanì italiane o straniere presenti sul territorio, comincia ad essere concepito dalle istituzioni solo quando il loro cambiamento –trasformazione diventa oggetto di controllo/ordine pubblico.
La sospensione del diritto e i pogrom ci riportano alla politica della “concentrazione”, attraverso una quotidianità investita dalla pratica della discriminazione e del razzismo. Si tratta di razzismi strutturati attraverso un processo continuo, talvolta istituzionali, che rimangono impunibili. Ci si può riferire ai “nomadi” in modo razzista e discriminatorio e il riferimento appare “naturale” nella assuefazione sicuritaria: nessuno si indigna, si può maltrattare l’altro perché è “nomade” e/o “zingaro”, soggetto di correzione e di sfogo. Così il discorso si aggroviglia e e anche gli operatori sociali tendono ad allontanarsi dai rom, laddove per dovere dovrebbero appunto avvicinarsi e lavorare con loro. Finiamo, così, ad escludere in modo autoreferenziale la la possibilità di cambiamento dei rom stessi. Questo accade in ogni settore sociale, comprendendo anche il settore sanitario, ogni volta che esiste una relazione di erogazione di servizi, una relazione d’aiuto, di dovere istituzionale. Il “nomade” viene sempre affrontato come una persona che non può apprendere, e di conseguenza non può cambiare, non può cambiare tramite gli apprendimenti. Non può cambiare la sua “programmazione culturale” e bio – politica che lo colloca oggettivandolo, stanti le discriminazioni dei nostri razzismi. Da questo punto di vista, bisogna ritornare a riflettere sul razzismo di oggi per superare, avvicinare e capire meglio che cosa è il razzismo differenzialista, razzismo agito e non sempre intenzionale, che riconosce la differenza e in questa e, soltanto in questa e per di più in senso unico, colloca il soggetto, cristallizzandolo nella differenza stessa, senza altra possibilità – “sei nato zingaro, e, morirai zingaro” -. Un razzismo differenzialista che condiziona la dinamicità degli approcci e delle relazioni, ridimensionando le possibilità dell’incontro, rendendole inutili, per rafforzare semmai l’immagine stereotipata di non cambiamento che permette non solo lo scontro ma anche l’indifferenza.
Per approcciarsi ai Rom e ai Sinti accorre avvicinarsi ad una realtà circondata dal silenzio. Attraverso il loro silenzio, noi impariamo che questo silenzio non è un non essere, non è l’assenza di rumore ma è un presenza – realtà, multiforme e varia, unica, non subordinata ne alternativa alla nostra presenza. Un silenzio-presenza, che va considerato e valorizzato poiché si tratta di silenzi impostati nel riconoscere il loro “Altro”, che procede con fraintendimenti e malintesi, che costruisce gli argomenti per le lontananze e le repressioni. Il silenzio nostro, del loro Altro è un silenzio che tende ad essere globale, e su questo silenzio si investe istituzionalmente e politicamente. È un silenzio che confonde le responsabilità individuali e collettive, facendo “dimenticare” le nostre responsabilità. È il silenzio tipico di chi parla malvagiamente, di chi si avvicina usando costantemente un orientato- disorientamento relativo ai disagi della tolleranza, di chi “affatica” nel cercare le distinzioni delle responsabilità individuali e collettive. Tornare a precisare, distinguendo tra individuo e gruppo di appartenenza, è un imperativo di oggi e diviene anche un dispositivo educativo, un dovere professionale individuale, ma anche di cittadinanza, sia nei nostri confronti che nei confronti di tutti quelli con cui abbiamo a che fare.
Ancora oggi facciamo fatica a considerare la nostra e la loro storia in comune. Facciamo ancora più fatica affannandoci a cercare di trovare possibili alternative a questa storia: la diamo per scontata, e la trattiamo impostandola quassi fosse un destino. La ricerca, a livello europeo non è interessata ed è silente relativamente il periodo della schiavitù zingara in Europa. Le nostre università indirizzano le loro attività di ricerca sulle schiavitù lontane, relative all’altro lontano. Gli “zingari” al contrario sono i nostri “altri” interni, i nostri schiavi da ri-educare, interessano la nostra corte e sono troppo vicini, e, potrebbero essere – lo sono – soggetti portatori di pericolosità, sociale e non solo, poiché “fatti male”. Noi, europei, non possiamo essere rappresentati come oggetto di studio, ci riserviamo l’icona dell’immunità salvifica dalle barbarie che appartengono esclusivamente agli altri lontani.
Ed è l’autoreferenzialità, l’assenza del dubbio e la mancanza di interesse che ci riempie di fatica, comunque, anche ad apprendere dalle forme di mediazione socio-culturale. La mediazione non è ancora inserita nello specifico del lavoro sociale, specialmente nelle situazioni di marginalità, e se talvolta la si incontra, spesso si configura come pratica distorta, usata a sproposito e sconvolgendo l’azione socio – educativa e gli intenti dell’inserimento sociale. L’idea di mediazione nei servizi è riduttiva, ha per di più una funzione superficiale da effetto vetrina, è un idea che banalizza il concetto stesso di mediazione, cercando di applicare forme e funzioni strettamente dipendenti dal valore in ribasso dei budget, accompagnate dalla retorica delle regole che attribuiscono un giudizio negativo di inadeguatezza a chi non riesce a saperle e a capirle.
4. L’operatività sociale
Gli standard riduttivi e la descrizione negativa nella pratica del lavoro sociale riducono non solo la mediazione socio–culturale, ma anche l’essenza e le potenzialità delle relazioni di aiuto e di cura, agite dall’ente pubblico e dal privato sociale. Fare mediazione, quando diventa una attività che si somma a tutte le altre previste dai vari regolamenti dei campi “nomadi”, si trasforma in prassi burocratica e non in azione socio–educativa. Nell’attuale contesto socio–istituzionale, la mediazione impostata acriticamente ci allontana dalle possibilità di poter distinguere fra persone di diversa e varia provenienza e cultura. Fare mediazione socio-culturale con gli stranieri, immigrati e profughi, e/o con i Rom, “è la stessa cosa”: attività di indirizzo neutro e identiche ad una realtà appiattita dal non senso, dalla monotonia e dalla ripetizione. Non è ancora stata impostata una mediazione che parta dai contesti culturali e dalle condizioni di vita concrete delle persone ed è per questo che la mediazione non produce conoscenza; al suo posto abbiamo una descrizione istituzionale costantemente negativa: gli “zingari” sono gli stranieri “estranei” che trasgrediscono continuamente le regole. Nessuno si interroga su chi ha impostato e su come sono state impostate queste regole, come sono state condivise e soprattutto se sono state oggetto di comunicazione e di educazione per essere capite. La retorica delle regole ci porta a quella della sicurezza e ovviamente, rinforza le giustificazioni dei pogrom. L’interesse verso forme di sperimentazione è ridotto ed è circoscritto e frantumato nei settori di appartenenza. Non ci si assumono le responsabilità affrontare, anche in maniera sperimentale, le relazioni difficili; relazioni difficili innanzitutto da capire e descrivere. Neppure nei campi “nomadi”.
I Rom e Sinti negli anni Trenta sono state due categorie etniche “affidate” all’universo della concentrazione senza essere state nominate nelle leggi razziali: la loro a-socialità è stato “l’alibi” per poterli destinare all’estremo, allo sterminio. Oggi i pogrom ripartono dalle stesse categorie, della a-socialità dell’altro, dall’assenza di problematicità, dal suo modo di essere.
Occorre pensare l’altro nella sua forma di cittadino, soggetto di diritti e interlocutore potenzialmente attivo, capace di presentare e negoziare le sue richieste e le sue aspettative.
È necessario pensare tutte le nostre pratiche di “accoglienza” e “ospitalità” non come cristallizzate o messe in essere una volta per tutte, ma come prassi che possono portare al cambiamento, che sono necessarie e capaci per cambiare “il destino” delle cose, che possono attivare le persone, e che devono provocare e portare alla mobilità sociale non solo nei confronti dei Rom e dei Sinti, stranieri per eccellenza, ma per tutti i migranti che a vario titolo si trovano sul territorio italiano, poiché questo è il cambiamento che loro cercano.
Diventa necessario cercare di conoscere i paradossi di un agire sociale pubblico, per cercare le vie di uscita, ri-organizzando e influenzando, non solo la politica con la ‘p’ maiuscola, ma anche la politica che riguarda la nostra operatività quotidiana.
5. Prospettive possibili
È possibile superare questa situazione? Certamente, bisogna iniziare a pensare la reciprocità e i riconoscimenti. Riconoscere che i rom sono individui e persone con diritti veri, senza attribuirli a categorie inventate come il nomadismo, è possibile. Ed è necessario investire con un altra attenzione e intenzione politica, anche nel nostro quotidiano, là dove le relazioni sono dirette e gli sguardi si incontrano. Occorre riconsiderare l’operatività sociale pensandola nel suo intento di solidarietà, bisogna riconsiderare l’impossibilità di applicare leggi e regolamenti inventati e posti in essere solo per essere trasgrediti. Oggi i campi “nomadi” sono ingovernabili perché nessun essere umano può accettare e seguire quei regolamenti. È uno sforzo che parte dai professionisti, dagli operatori che a vario titolo operano nel sociale, da tutti quelli che hanno a che fare con le relazioni: occorre iniziare ad affrontare i Rom come persone che hanno una dignità, dentro e oltre le problematiche sociali.
La riduzione della distanza sociale e istituzionale potrebbe essere possibile e facilitata se si comprendono quattro fattori, cruciali nei rapporti interpersonali ma anche nel disegno e nell’implmentazione delle politiche sociali.
Innanzitutto si tratta di considerare la popolazione romanì come costituita da una costellazione di presenze, diversificata e omologata dalla collocazione nel campo “nomadi”.
Le politiche gaggi, consolidate sul “nomadismo”, sono inadeguate per i riconoscimenti e la mobilità sociale dei rom e dei sinti e si continua a proporle ad altre realtà di cittadinanza debole, e sempre in modo a-problematico.
I Rom e i Sinti, sono costantemente e perpetuamente oggetto di discriminazione e di razzismo impunibile, quello conosciuto storicamente come razzismo fisico ma anche di razzismo differenzialista.
La produzione sociale della conoscenza risulta influenzata e sensibile alle condizioni di una precarietà permanente. La conoscenza è influenzata dal silenzio che permane un silenzio. Si ignora intenzionalmente lo “zingaro” servendosi di una conoscenza distorta dai pregiudizi e dalle stereotipie diffuse anche dall’azione istituzionale.
La repressione istituzionale che ricevono rom e sinti paradossalmente produce conoscenza che incide nell’incentivare le pratiche di allontanamento sociale. L’operatività istituzionale a tutti i livelli di intervento non distingue fra individuo e gruppo di appartenenza.
I saperi ufficiali e accademici costruiti da gaggi non tengono presente le storie delle migrazioni rom, e la loro schiavitù in Europa, come non tengono presente le attuali relazioni con gli assetti sociali e istituzionali, per potere reimpostare la descrizione e indirizzare i modi di comunicazione – con e fra- rom e non rom.
L’attuale tipologia di mediazione linguistica, nei vari servizi pubblici e privati, investita dalla banalità e dall’inutilità dell’azione stessa, non si (ri)qualifica e non è un veicolo di produzione di conoscenza. Far conoscere la propria situazione non rappresenta per i rom e sinti una strategia di apertura e di diversa impostazione dei rapporti con i non rom, per motivi di sopravvivenza.
I professionisti dei servizi e delle politiche sociali descrivono e indicano gli “zingari” come esempio di non integrazione, come esempio di una inutile-utilità, per rafforzare le politiche della sicurezza, e sperimentarne i risvolti.
Le tradizionali agenzie educative, Scuola ed enti di Formazione professionale, preposte anche come veicolo di mobilità sociale, non hanno ancora sperimentato e prodotto forme di comunicazione e di relazione per produrre conoscenza reciproca e consolidare i saperi e i comportamenti –non violenti e giusti- verso una minoranza.
Il riconoscimento di una presenza multiforme, titolare di diritti, non è una prassi scontata, occorre impegnarsi con senso di giustizia.
I diritti attribuiti ed esplicitati nei confronti dei rom, riguardano categorie inventate “i nomadi”. Le leggi sono regionali e non nazionali e/o sovranazionali: si tratta di leggi inapplicabili e difficilmente possono essere usate per tutelare una presenza in situazioni di difficoltà, talvolta gravissime.
I regolamenti amministrativi – soprattutto dei Comuni – hanno una impostazione rigida nel concepire e regolare i comportamenti nei campi “nomadi” e nei centri di Prima Accoglienza che provoca nonché incentiva un’alta conflittualità e la costante trasgressione di questi stessi regolamenti, che difficilmente potranno essere considerati per creare relazioni e dinamiche di diritto.
Non esiste una legislazione che considera le differenze etniche di minoranza e quella relativa alle migrazioni è stata ed è a tutt’oggi influenzata dalle logiche dell’emergenza.
I Diritti Umani e di Cittadinanza difficilmente sono interpellabili, relativamente alla questione rom e sinta, poiché questi ultimi sono investiti dalla descrizione negativa e percepiti come a-sociali. Il riconoscimento delle differenze socio culturali avviene in senso restrittivo: si è nomade e non cittadino, non profugo, non immigrato e non cittadino, anche quando si tratta di cittadini europei.
Le politiche verso “i nomadi” hanno condizionato le politiche sociali di accoglienza deformandone il concetto e l’impostazione degli interventi, orientandoli in senso assistenzialista e repressivo.
Le politiche di emergenza e gli interventi speciali hanno condizionato le impostazioni e i percorsi della mobilità sociale.
6. Le istanze politiche
Le organizzazioni di rappresentanza dei rom e sinti si occupano soprattutto della difesa delle tradizioni e della cultura dei vari gruppi. L’attenzione politica e la partecipazione dei rom attraverso le tradizionali forme gaggi di aggregazione politica è residuale. L’ organizzazione sindacale per rivendicare e ottenere diritti di cittadinanza è ancora debole.
I rapporti dei rom con i gaggi e la società circostante ai campi “nomadi” sono impostati sulla “logica del danno minore” nel rapportarsi con l’esterno e di conseguenza sono impostati sulla difesa e sulla chiusura e non sulla rivendicazione e apertura alle relazioni.
L’autogoverno dei gruppi e delle famiglie allargate dei rom e sinti, non è considerato per cercare forme di rappresentanza politica nei rapporti con i gaggi. L’attuale impostazione della mediazione socio–culturale non permette la nascita di percorsi politici emancipatori.
Esiste una leadership intellettuale dei rom e sinti che guida sempre di più i gruppi e le comunità e che dovrebbe essere considerata e valorizzata. Il bisogno di emancipazione e di alfabetizzazione alla politica è forte ed è sentito fra i gruppi rom in condizione di povertà e collocati nei campi “nomadi” poiché è forte il tentativo di capire e spiegare la propria condizione.
In relazione a quanto detto finora, è possibile formulare delle proposte:
1) Re-impostare la partecipazione dei rom e sinti e richiedere sempre la loro presenza in ogni situazione che li riguarda.
2) Interloquire e intervenire sistematicamente con le realtà di rom che abitano nei campi “nomadi”, per chiarire tutte le dimensioni di una situazione di apartheid e cercare le soluzioni di uscita.
3) Ripensare e ristabilire pratiche comunicative per interrompere i circuiti istituzionali di assistenzialismo e repressione riservati ai rom, problematizzando i bisogni per proporre soluzioni.
4) Prospettare forme di comunicazione e di contrattazione con le istituzioni su tutte le tematiche della presenza e delle condizioni di vita dei rom e dei sinti. La varietà delle forme comunicative influenza la presa in considerazione e i successi della contrattazione.
5) Vanno descritte e valorizzate tutte le forme dell’abitare rom al di fuori del campo “nomadi”, poiché esistono e rappresentano realtà abitative consone culturalmente e desiderate dai rom e sinti.
6) Reimpostare la formazione, la scuola e la formazione professionale, che non devono perdere la loro finalizzazione alla mobilità sociale.
7) Ri-considerare l’inserimento lavorativo, che ha perso il suo carattere etnico, vista la complessità della modernità rom e sinta. La tradizione è ancora significativamente presente fra le persone e le comunità rom ma non è l’unica e nemmeno onnipresente.
8 ) Riflettere sulle questioni relative alla salute; i rom che vivono nei campi “nomadi” si trovano ancora oggi a fronteggiare l’emergenza e le prassi della possibile educazione alla salute che investe la loro quotidianità.
9) Le Forme di mediazione sociale e istituzionale devono proporsi tenendo presente la giustizia nei rapporti da mediare ed i processi di interiorizzazione che potrebbero investire la parte debole: “i riconosciuti e dichiarati deboli” che vengono ancora oggi considerati come soggetti impossibilitati al cambiamento, eternamente zingari.
10) In ogni pratica di intervento e azione sociale occorre tener presente la stigmatizzazione e soprattutto l’auto-stigmatizzazione dei rom e sinti in quanto sentimento totalizzante attinente all’inadeguatezza di stare nel mondo.
11) In ogni pratica di intervento e azione sociale occorre considerare e proporsi alla comunità e alla persona, come bisogna tener presente le prospettive differenti degli adulti e dei minori, delle donne e degli uomini.
12) Deve trovare legittimità ed è indispensabile tenere sempre da conto la domanda di cambiamento che nasce dai rom e sinti e che è rivolta al cambiamento verso se stessi, verso il gruppo e i contesti di appartenenza e che incontra la dimensione politica.
[Questo saggio sarà pubblicato nel numero 173 di Inchiesta all’interno di un Dossier su i rom curato da Dimitris Argiropoulos]
[1] Docente a contratto, Università di Bologna – Facoltà di Scienze della Formazione
Category: Culture e Religioni