Andrés Torres Queiruga: Non può esistere un mondo senza male
E’ stato tenuto nei giorni 8-9 settembre a Città di Castello il XXVI convegno di studi
organizzato da l’Altrapagina dal titolo “ L’esperienza umana e l’enigma del male”.
Questa scheda è stata pubblicata su L’Altrapagina on line a cura di Achille Rossi
Affermare che “Non può esistere un mondo senza male” non significa, secondo Queiruga, che la realtà sia cattiva, ma solo ammettere che è “finitamente buona”. E di fronte a questa inevitabilità ognuno prende posizione con la sua scelta esistenziale, religiosa o laica Andrés Torres Queiruga, filosofo della religione all’Università di Santiago di Compostela, si propone il compito di ripensare il male mostrando come l’avvento della modernità abbia rivoluzionato i presupposti dell’interpretazione premoderna. La mentalità del passato immaginava che Dio intervenisse direttamente con la sua azione nei meccanismi del mondo e soprattutto dava per scontata la possibilità di un mondo perfetto. L’avvento della secolarizzazione ha spinto la teologia a rileggere in modo molto più profondo l’azione di Dio sulla realtà e ha liberato il pensiero dall’immaginazione che possa esistere un mondo senza male. Comunque, il primo vero cambiamento nell’affrontare il problema del male consiste nell’avvertire che ci tocca tutti, a prescindere dalle risposte, e affrontarlo in maniera secolare, senza saltare subito alla problematica religiosa. Per questo il teologo gagliego ha coniato due neologismi, le parole “ponerologia”, studio del male e “pistodicea”, la risposta al problema che include la fede, laica o religiosa che sia. Torres Queiruga invita a prendere sul serio il celebre dilemma di Epicuro: «O Dio vuole togliere il male dal mondo, però non può; o può però non vuole; o né può né vuole; o può e vuole. Se vuole e non può è impotente; se può e non vuole non ci ama; se non può né vuole non è il Dio buono e, inoltre, è impotente; se può e vuole – e questa è la cosa più sicura –, allora da dove viene il male reale e perché non lo elimina?». Occorre rispondere a questi interrogativi e liberarsi, al tempo stesso, da un’interpretazione letteralistica della Bibbia, per poter affrontare in maniera nuova un problema che ci arriva carico di presupposti che oggi non possiamo più condividere. C’è bisogno dunque di una teodicea, ossia di una giustificazione di Dio, secondo l’etimologia della parola. In realtà non si tratta di giustificare Dio, che non ne ha bisogno, ma le idee che noi umani ci facciamo riguardo al suo mistero. Il teologo distingue una via corta e una via lunga della teodicea; la prima è quella praticata nell’antichità, la seconda è quella necessaria oggi. Nel periodo premoderno il problema del male si poneva all’interno della religione, ma non arrivava a scardinarla perché si credeva in un Dio più forte del male e ci si rifugiava in una certezza più forte della logica. Lo mostra il detto: «Pereat logica dum maneat fides», perisca la logica purché rimanga la fede. Questa teodicea oggi non è più praticabile, perché di fronte al dilemma di Epicuro non riesce a salvare al tempo stesso la bontà, l’onnipotenza e l’intelligibilità di Dio. Lo dimostrano gli sforzi fallimentari di filosofi come Hans Jonas, che si vedono costretti a rinunciare all’onnipotenza, e di teologi come Karl Rahner, che abbandonano l’intelligibilità di Dio. Il primo passo per una teodicea della modernità, secondo il teologo spagnolo, consiste nel ripartire dalla ponerologia, ossia dalla considerazione del carattere non immediatamente religioso ma radicalmente umano del problema del male. Questo porta a comprendere che il mondo è autonomo nel suo funzionamento e che il male ha una causa nel mondo, per cui la sua presenza è inevitabile. Non può quindi esistere un mondo senza male. La radice ultima del male è la finitezza del mondo, che esclude necessariamente la completa perfezione. Lo percepisce anche il senso comune, il quale «ha sempre capito che non può piovere secondo il gusto di tutti, che non si possono suonare le campane ed essere in processione, che non si fanno frittate senza rompere le uova… In definitiva, tutti intuiamo che la finitudine esclude necessariamente la perfezione totale, per la stessa ragione per cui un circolo non può essere quadrato, né possono esserci ferri di legno». Anche il pensiero filosofico ha riconosciuto che «ogni determinazione è [pure] negazione». La libertà stessa è finita e perciò esposta all’errore e al fallimento. Dire che il male è inevitabile non significa, per il teologo spagnolo, affermare che la realtà sia cattiva, ma unicamente ammettere che sia “finitamente buona”. La finitezza non è un male, ma solo la condizione di possibilità della sua apparizione. Di fronte all’inevitabilità del male ognuno prende posizione con una sua scelta esistenziale che è una scelta di fede, religiosa o laica, che deve essere giustificata. Ognuno elabora la sua “pistodicea”. Quella che chiamiamo teodicea è la pistodicea cristiana, il cui vero problema è garantire la coerenza della visione cristiana di Dio. Si tratta di comprendere il vero senso dell’onnipotenza divina e della sua bontà non ragionando astrattamente su quello che Dio può o non può, ma argomentando “dal basso”, dai casi concreti. Dio non può fare circoli quadrati o ferri di legno per la condizione di finitezza della creatura. È sensato perciò domandarsi perché Dio ha creato il mondo pur sapendo che il male sarebbe stato inevitabile, mentre non ha senso chiedere perché Dio non evita il male, perché significherebbe annullare il mondo. La risposta della fede cristiana all’interrogativo se Dio aveva il diritto di creare un mondo così terribilmente esposto al male, è che Dio ha creato il mondo perché ne valeva la pena. Per completare il discorso bisogna aggiungere che la fede annuncia anche una liberazione escatologica dal male. Quest’ultima affermazione, che prospetta una finitezza senza male, sembrerebbe contraddire la tesi di fondo di Torres Queiruga. Il teologo si sbarazza dell’obiezione richiamando tre esperienze umane che rendono plausibile una finitezza liberata dal male. La prima ci ricorda che il tempo gioca un ruolo essenziale nella costituzione della realtà finita. «Quello che è possibile alla fine non sempre lo è all’inizio: la madre, per quanto amore gli voglia, non può dare carne al bambino lattante». La persona umana arriva a essere attraverso una lenta maturazione che richiede tempo. La seconda esperienza evocata dal teologo gagliego s’impernia sul carattere unico della finitezza umana che è una “infinitudine finita”, perché niente di finito può colmare l’aspirazione dell’intelligenza e della volontà. Ma l’esperienza più decisiva per mostrare che l’apertura dell’essere umano può essere colmata da una comunione che liberi dal male senza rompere la finitezza, è senz’altro quella che si realizza nell’amore umano e nell’unione mistica. Nell’amore si attua una reciprocità delle coscienze per cui ognuno può dire all’altro: «Tutto ciò che è mio è tuo, e tutto ciò che è tuo è mio». Nell’unione mistica l’anima arriva a proclamare: «Tutto quello che è di Dio è mio». E per rafforzare le sue considerazioni il teologo cita Hegel e Giovanni della Croce. Collocata in questa prospettiva la teodicea mostra che Dio può e vuole vincere il male, perché Lui è l’anti-male, «solo che il suo amore deve sopportare – per noi e con noi – la pazienza del tempo. Questa risulta molte volte dura e terribile, ma nella fede appare già illuminata dalla vittoria finale…». In conclusione occorre smascherare il presupposto che sia possibile un mondo senza male, evitando la tentazione finalista che Dio tollererebbe un male per conseguire un fine buono. Il male non ha giustificazione, appare soltanto perché è inevitabile. Per dirlo con uno slogan: il mondo è quello che Dio vuole, il male è quello che Dio non vuole. Di qui l’impegno del credente per opporsi praticamente al male come ha fatto Gesù di Nazareth, che ha invitato a soccorrere il povero, il nudo, l’emarginato. Credere in un Dio che ha creato per amore è collaborare alla sua lotta contro il male.
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Category: Culture e Religioni, Storia della scienza e filosofia