Amina Crisma: Omaggio a Confucio in occasione del capodanno cinese: attualità dell’insegnamento di un grande maestro
Il capodanno cinese del 2013 è iniziato il 10 febbraio con il passaggio dall’anno vecchio all’anno nuovo . I cinesi, in tutte le parti del mondo, hanno dato addio all’anno del Drago e accolto con entusiasmo il nuovo anno del Serpente. Per tale occasione la sezione italiana di Religions for Peace (www.religioniperlapaceitalia.org) ha invitato Amina Crisma a scrivere l’ articolo che ripubblichiamo.
Queste pagine sono dedicate
alla memoria di Pier Cesare Bori,
amico e maestro
scomparso il 4 novembre 2012
che, fra tante altre cose, ci ha insegnato
a riconoscere nelle antiche fonti confuciane
parole viventi
Com’è noto, il capodanno è, tra le feste tradizionali, quella celebrata con maggiore intensità e partecipazione da tutte le comunità cinesi, sia nella madrepatria sia nell’emigrazione ovunque nel mondo. E’ la festa in cui si celebra il legame solidale fra le generazioni, fra il passato, il presente e il futuro, all’insegna della fiducia nella vita e nella sua continuità e della speranza nell’anno che verrà. Si tratta di una speranza profondamente radicata nell’animo umano sotto ogni latitudine, e tenacemente resistente ad ogni disillusione, come ci ricorda Giacomo Leopardi nel suo celebre “Dialogo di un venditore di almanacchi e un passeggere”; e per quanto ripetute esperienze la possano far ritenere alquanto infondata, in ogni caso nessuno di noi vorrà comunque rinunciarvi, in questo momento augurale rappresentato dall’inizio dell’anno del Serpente.
Se da una parte la festa del capodanno cinese rispecchia indubbiamente un atteggiamento universale, dall’altra manifesta certamente delle caratteristiche peculiari. Negli ultimi vent’anni, in particolare, le modalità in cui la si è celebrata sono valse, per molti, a rendere visibile una recente conquista di benessere e di ricchezza; così, essa si configura anche come uno spazio significativo dal quale osservare i mutevoli intrecci di vecchio e di nuovo, di antico e di moderno che compongono i molteplici e complessi volti della contemporaneità cinese.
Essa ci offre un’occasione propizia per riflettere su quello speciale legame con la tradizione che in molti fenomeni della Cina d’oggi appare esibito e ostentato, come una rivendicazione forte di identità culturale – di “sinità” – da contrapporre alle spinte uniformanti della globalizzazione.1
E tuttavia, penso che fermarsi alla constatazione di questa fiera rivendicazione di identità culturale e delle sue varie manifestazioni, per quanto sia indubbiamente interessante, non ci porti molto lontano. Mi pare che, in generale, si tenda forse un po’ troppo a ricondurre ogni discorso sulla Cina alla dimensione tautologica dello “specificamente cinese” come modello di spiegazione onnicomprensivo ed esaustivo. In tale chiave la Cina rischia di rimanere, agli occhi degli occidentali, uno spazio esotico, irrimediabilmente confinato in una sua presunta alterità totale e assoluta rispetto alla cultura di matrice europea. La constatazione di ciò che distingue e differenzia Cina e Occidente – lingua, storia, peculiarità culturali – per quanto importante, penso non debba precluderci uno sguardo che cerchi di cogliere ciò che accomuna gli abitanti di questo mondo, senza con questo cadere nella tentazione di voler ridurre tutto e tutti a una generale e astratta uniformità. C’è uno spazio di discorso e di pensiero molto largo da percorrere, fra i due poli opposti dell’identico e del diverso: è lo spazio di ciò che accomuna gli esseri umani, al di là delle differenze di lingue, culture, tradizioni, appartenenze. E’ lo spazio di una universalità che si sottragga alla costrizione della reductio ad unum, e che preservi il gusto della pluralità concreta che ne è la dimensione insopprimibile : la pluralità che è la legge della Terra, come diceva Hannah Arendt.2
Al di là della percezione delle caratteristiche distintive della sinità, credo sia dunque opportuno porsi una domanda che ci porti a riflettere su una dimensione ulteriore: che cosa ha da dire a noi oggi la tradizione cinese?
Penso si possa tentare di rispondere a quest’interrogativo a partire da un rinnovato sguardo su quella che ne è una grande figura fondatrice: Confucio.
Confucio è senz’altro una figura celeberrima: chi non sa chi è Confucio? E tuttavia, quanti di quelli che sono così convinti di saperlo hanno davvero letto i suoi Dialoghi? Proprio la sua immensa notorietà sembra, in fin dei conti, nuocergli, poiché sembra ricondurlo implacabilmente entro la prevedibilità degli stereotipi intorno all’”eterna Cina”. E’ spesso visto come l’icona immobile della sinità: il “tipicamente cinese” per eccellenza, ossia quanto di più distante si possa immaginare dall’europeo. Un’icona che può essere oggetto di ammirazione o di denigrazione, ma che resta in ogni caso irrigidita nell’invariabile fissità di uno schema sempre eguale.
“In nessun luogo, se non in Cina, un uomo così noioso come Confucio ha potuto divenire l’immagine ideale e classica dell’umano”, osservava sarcasticamente Franz Rosenzweig nella Stella della redenzione (1921).3 L’idea di una sostanziale mediocrità di Confucio è condivisa da vari autori occidentali del Novecento, che lo ritengono un conformista e un tradizionalista, distante da ogni slancio ideale e aderente al più prevedibile e piatto buon senso. L’insegnamento confuciano era parso“nient’altro che una banalità arcaica”, ad esempio, a Herbert Fingarette, che poi si ricredette, diventando uno dei maggiori promotori della riscoperta del suo valore nell’ambito della cultura internazionale, e che giunse a dichiarare:“Sono profondamente convinto che Confucio possa essere per noi un grande Maestro” (1972).4
Ma che cosa ha davvero da insegnarci Confucio? Provo qui a riassumere alcune di quelle che mi sembrano essere le risposte possibili a tale domanda, sulla base dello studio dei testi classici e dell’esame delle interpretazioni contemporanee, ma anche, e soprattutto, delle conversazioni che ho intrattenuto nel corso di questi anni con maestri, amici, interlocutori quali Pier Cesare Bori, Maurizio Scarpari, Anne Cheng, Giangiorgio Pasqualotto, François Jullien.5
Una risposta non nuova, e che attualmente sembra riscuotere rinnovati consensi in Occidente, è che egli rappresenti la quintessenza della saggezza cinese: ossia di un pensiero che, diversamente dalla filosofia occidentale, protesa alla ricerca della Verità, e perciò audacemente dedita all’esplorazione metafisica e alla progettualità politica, aderirebbe strettamente alla banalità dell’esperienza comune e quotidiana; la sua finalità suprema consisterebbe meramente in un pragmatico adattamento al mondo, alla realtà effettuale e alle convenzioni vigenti, senza alcuna pretesa di mutarle o di trasformarle. Quest’interpretazione di Confucio, che appare largamente diffusa, ha di recente trovato nel sinologo e filosofo François Jullien un brillante interprete, che ne ha offerto una versione efficace in un libro dal titolo eloquente: Il saggio è senza idee, o l’altro della filosofia. In tale prospettiva la saggezza confuciana si farebbe interprete di ciò da cui la filosofia si sarebbe da sempre allontanata: “ciò che è più difficile da vedere e da dire appartiene alla categoria del visibile, del piatto, del quotidiano”; il troppo noto, il troppo comune, il troppo vicino è ciò da cui il filosofo si allontana per formulare la propria elaborazione teorica, mentre il saggio vi aderisce e vi si immerge, senza porsi domande o problemi: “ciò che la filosofia tratta come enigma, la saggezza tratta come evidenza”. 6
Quest’immagine di Confucio, che di primo acchito può apparire suffragata dalla modestia dimessa di tanti enunciati dei Dialoghi, è indubbiamente seducente. Essa sembra, fra l’altro, particolarmente attraente nell’attuale clima post-moderno, largamente connotato da quel peculiare atteggiamento che si può definire, per dirla con le ironiche parole della sinologa Anne Cheng, come “la stanchezza dell’Occidente”.7 Per l’Occidente stanco di sé e della propria filosofia, l’immagine della banalità della saggezza cinese costituisce, in fin dei conti, una rappresentazione riposante e rassicurante. Essa viene fra l’altro a confermare la propensione a ragionare nei termini di uno schema dualistico e astratto che invariabilmente contrappone “noi” e “gli altri”, the West and the Rest, l’Occidente e la Cina, come se si trattasse di entità compatte e univoche. Ma in questo modo si dimentica la ricchezza e la complessità del mondo reale: non esiste un unico Occidente né un’unica Cina, ma ci sono molti e diversi Occidenti, e molte e diverse Cine – e non tutti gli Orienti sono in Oriente, né tutti gli Occidenti in Occidente, come opportunamente ci ricordano, ad esempio, i filosofi Giangiorgio Pasqualotto8 e Giacomo Marramao9 Tutta l’enfasi che si pone nei discorsi oggi correnti sulle differenze interculturali finisce, a mio avviso, per cancellare la percezione dell’importanza delle differenze intraculturali, che meriterebbero invece molta più attenzione.10 Conoscete forse luoghi al mondo che non siano corposamente attraversati dalle differenze di genere, o di potere, o di ricchezza? E ancora, non è forse vero che ciò che si incontra (o ciò con cui ci si scontra) non sono le “culture”, quanto piuttosto persone e individui concreti, come ci rammenta l’antropologo Marco Aime?11
Al di fuori degli schemi consueti, ci sono dunque altri modi possibili di interpretare Confucio. Innanzitutto, credo occorra restituire importanza precisamente al rapporto con quelle individualità concrete che sono i testi, le fonti. In questo senso, risulta in definitiva più utile per la riflessione l’esercizio di umiltà dei filologi, il loro paziente lavoro sulle pagine nel faticoso corpo a corpo con le parole (le parole che sono non le vesti, ma i corpi del pensiero, come sottolineava il già ricordato Giacomo Leopardi nel suo Zibaldone), di quanto non siano le suggestive generalizzazioni predilette da una certa filosofia comparata. Non a caso, i contributi più stimolanti per una rinnovata lettura di Confucio sono venuti negli ultimi decenni, a livello internazionale, dai cantieri dei sinologi – come la già citata Anne Cheng, la cui prospettiva ha il privilegio dell’appartenenza a una duplice cultura, francese e cinese, o come il tedesco Heiner Roetz, o come l’italiano Maurizio Scarpari che si è già sopra ricordato, soltanto per menzionarne alcuni.12 D’altronde, i sinologi d’oggi si possono considerare i prosecutori – dotati di maggiori risorse e di più sofisticati strumenti – di un’impresa intellettuale iniziata oltre 400 anni fa, con l’avventura di Matteo Ricci in Cina: sono stati i gesuiti della missione cinese i pionieristici iniziatori della sinologia, che per primi hanno attuato, con il Confucius sinarum philosophus pubblicato a Parigi nel 1687 la mondializzazione di Confucio, e per primi ne hanno rivelato la grandezza all’Europa, additandolo come sublime espressione dell’umana ragione e dell’umana moralità – e gli illuministi con Voltaire si sono incaricati poi, come è noto, di trarre, da parte loro, le conseguenze di quella straordinaria scoperta.13 In effetti, penso che il modo migliore di rendere oggi omaggio a Confucio sia quello di riprendere il progetto di un rivisitato illuminismo: un progetto consapevole dei propri limiti, fortemente autocritico, lontano da astratti furori, e che tuttavia non rinunci all’idea di una possibile universalità da costruire, pluralistica e dialogica, in rapporto con la concreta complessità del mondo, distante dalle arroganze eurocentriche ma anche dall’inerzia di un opaco relativismo.14
Per farlo, occorre lasciar perdere i luoghi comuni, e riaprire le pagine dei Dialoghi, che il paziente lavoro dei traduttori rende disponibile a qualsiasi lettore.15 Il lavoro del traduttore, come ho potuto constatare nella mia stessa esperienza sulle fonti confuciane, è indubbiamente assai problematico, e sulle sue stesse condizioni di possibilità c’è, non da oggi, un dibattito ampio di cui è impossibile qui dare conto.16 Si tratta di un’operazione problematica per qualsiasi lingua, ma lo è in particolare quando si tratta di confrontarsi con un universo di linguaggio e di pensiero così distante dal nostro com’è quello del cinese antico. E tuttavia la traduzione, pur con tutte le sue difficoltà e asperità, e anche scontando tutti i limiti, i fraintendimenti e le incomprensioni che ne caratterizzano l’arduo esercizio, è quel grande tramite di comunicazione che da sempre pone in dialogo e in creativo rapporto lingue e culture, come ci ha ricordato Paul Ricoeur in un confronto con François Jullien che è stato uno dei suoi ultimi interventi.17
Rileggere i Dialoghi di Confucio significa dunque misurarsi con le dense parole che quel testo ci consegna, parole che non hanno esatti equivalenti nella nostra lingua, e che tuttavia non sono incomprensibili enigmi.
La parola chiave dei Dialoghi è ren, il vocabolo che vi ha il maggior numero di occorrenze. E’ l’ambito fondamentale a cui il discorso di Confucio costantemente si riconduce. Se ne sono proposte traduzioni svariate, quali “benevolenza”, “bontà”, “altruismo”, “amore”, e tuttavia qualsiasi resa, benché utile ad accostarvisi, non risulta pienamente soddisfacente. Essa viene così esplicitata dal Maestro:
Fan Chi domandò che cosa fosse ren.
Il Maestro rispose: “Amare gli esseri umani”.18
Ren si può rendere come il “senso dell’umanità”: un atteggiamento di mansuetudine e di benevolenza verso gli altri. Indubbiamente esso ci ricorda gli atteggiamenti verso il prossimo prescritti da altre grandi tradizioni, e tuttavia ha delle specifiche connotazioni sulle quali converrà brevemente soffermarsi. Ren configura un campo semantico vasto e articolato, la cui densità di implicazioni non può essere evocata senza richiamare il carattere che lo rappresenta nella sua suggestiva efficacia: esso affianca al pittogramma che raffigura l’uomo (ren) e che ne è omofono, l’ideogramma che simboleggia il due. Ren designa dunque “quanto è propriamente umano” nel suo concretarsi nell’ambito delle relazioni con gli altri: è il peculiare atteggiamento fondato sulla reciprocità cui si devono informare i rapporti con i propri simili, e che trasforma i vincoli familiari e sociali in rapporti etici. Ren è universale e, al contempo, articolato e differenziato. Configura un orizzonte che tutti include, prescrivendo la mansuetudine verso tutti – “Ciò che non vuoi sia fatto a te, non farlo agli altri” (Dialoghi, 15.23) – ma tale universalità non si traduce in una generica uniformità, bensì si inscrive nella specificità di ruoli determinati. “Amare gli esseri umani” dischiude nell’insegnamento di Confucio una dimensione globale, di sollecitudine per tutti, e insieme comporta molteplici e circostanziate sfaccettature: “Che il sovrano si comporti da sovrano, il suddito da suddito, il padre da padre, il figlio da figlio” (12.11).19
Il “debito amore”, dunque, è un atteggiamento che sottende ogni condotta, ma si esprime in modalità diversificate, che corrispondono a ruoli concreti – di padre o di figlio, di anziano o di giovane, di sovrano o di suddito.20 In tali ruoli concreti si disegna una gerarchia attinta alla tradizione: al padre, all’anziano, al sovrano compete l’autorità, mentre il figlio, il giovane, il suddito hanno il dovere dell’obbedienza. Un dovere ripetutamente affermato nei Dialoghi, e del quale sono i rapporti interni alla famiglia a costituire il modello fondamentale.
E nondimeno, diversamente da quanto vorrebbe una vulgata molto diffusa, l’obbedienza di cui qui si parla non è prona acquiescenza, così come il comando non è arbitrio dispotico: alla rete delle relazioni gerarchiche descritte nei Dialoghi presiede un’istanza indissolubilmente associata a ren: il senso della giustizia (yi). “Governare significa agire con rettitudine (zheng)” (12.17): ciò che legittima l’esercizio del potere per Confucio è l’adesione a un’istanza suprema di equità, e coloro che lo detengono ne portano per intero la responsabilità. Ed è, del pari, l’adesione a tale istanza suprema di equità ad essere la linfa nuova dell’obbedienza: così, è esplicitamente contemplato il caso in cui il ministro fedele può – anzi, deve – opporre al sovrano, nel caso che gli ordini di quest’ultimo contravvengano al senso dell’umanità e della giustizia, e tale opposizione si configura non come insubordinazione, ma come elevata espressione di lealtà (14.22). L’autentica obbedienza, lungi dall’essere inerte sottomissione, si definisce come un atto consapevole che implica giudizio e discernimento, e che include anche il dovere di rimostranza.21
Dunque, il rispetto per la tradizione così frequentemente richiamato nel testo non equivale affatto a mero tradizionalismo: la tradizione a cui Confucio dichiara di ispirarsi viene continuamente riplasmata e riformulata, e la devozione nei suoi confronti è soprattutto pietas nei confronti del senso dell’umanità che in essa si adempie, e che rischia di essere cancellato dalla violenza e dalla sopraffazione di un’epoca sulla quale incombono la barbarie e il caos: è la crisi radicale delle istituzioni e dei valori della Cina arcaica il contesto storico preciso da cui il discorso di Confucio prende le mosse. Lungi dall’essere conformistico, esso è un’appassionata difesa di un senso della giustizia minacciato, che in ogni tempo e sotto ogni latitudine va preservato. In ogni tempo e sotto ogni latitudine, per Confucio prioritario è riconoscersi figli, dei propri padri e delle proprie madri carnali, ma anche e soprattutto del senso dell’umanità e della giustizia che essi ci hanno affidato, affinché noi a nostra volta li affidiamo ai nostri figli, spirituali e carnali. Soltanto chi si riconosce figlio potrà divenire un maestro, ossia, a sua volta, padre. Questa filialità è un accogliere e un serbare il senso del legame che attraversa le generazioni, e che connette passato e futuro (2.11). Così intorno alla figura del Maestro si disegnano filialità e fraternità nuove, e si afferma la percezione di un legame solidale che connette tutta l’umana ecumene: “Tutti entro i quattro mari sono fratelli” (12.5).22
Il ren, il senso dell’umanità confuciano non è nostalgicamente volto al rimpianto di una passata età dell’oro, ma è proiettato soprattutto verso il presente e verso il futuro: come le grandi parole di altre grandi tradizioni, ci parla di una promessa inadempiuta di fraternità da realizzare.23 E’ un progetto morale e politico che a tutti viene affidato: aver cura di tutti quanti abitano sotto il cielo e costruire un’armoniosa convivenza, protesa a realizzare una solidarietà e una giustizia sempre maggiori; è il sogno di una comunità umana in cui, come auspica Mencio, il maggior discepolo di Confucio che ne è reputato il più fedele interprete, “i pastori d’uomini non siano avidi di massacri” e “il popolo non sia costretto a trascinarsi nel fango”.24
Quest’aspetto progettuale, ignorato e ingiustamente misconosciuto dagli stereotipi correnti intorno al confucianesimo, è stato fortemente presente alle sue origini, in età pre-imperiale, così come nella sua versione moderna che, alla fine del XIX secolo, ha ispirato la generosa utopia riformatrice di Kang Youwei.25 Esso è stato posto in rilievo dagli studi degli esegeti contemporanei sopra richiamati ed è ben noto negli ambienti della sinologia; 26 tuttavia sembra non riuscire a iscriversi nella cultura diffusa e nella coscienza collettiva del nostro Paese, in cui continuano a prevalere luoghi comuni non di rado dettati da una pregiudiziale sinofobia. Eppure, sono accessibili al lettore italiano lavori che offrono una rappresentazione assai articolata e complessa del confucianesimo, come quelli già menzionati di Maurizio Scarpari; dalle sue indagini sulla concezione della natura umana nelle fonti classiche emerge con speciale nettezza il rilievo assunto dal tema della compassione nel pensiero di Mencio. Si tratta dell’innata ripugnanza a veder soffrire i propri simili (“non sopportare la vista dell’altrui sofferenza”) quale impulso primario e insopprimibile presente in ogni animo, in cui Mencio riconosce il fondamento di ren, ossia di quanto ci fa umani.
Tutti gli uomini hanno un cuore sensibile all’altrui sofferenza. Gli antichi sovrani avevano un cuore simile e perciò attuarono governi ispirati alla compassione. Esercitare un governo ispirato alla compassione con cuore sensibile all’altrui sofferenza rendeva facile governare il mondo come se questo girasse sul palmo di una mano. (…) I sentimenti della partecipazione e della compassione sono i germogli della benevolenza (ren) (…) Tutti abbiamo questi germogli in noi. (…)
Tutti hanno qualcosa che non riescono a tollerare; estendere questo sentimento anche a ciò che si tollera, in questo consiste la benevolenza (ren). Tutti hanno qualcosa che non intendono fare; estendere questa intenzione anche a ciò che si fa, in questo consiste la rettitudine (yi).27
Una speciale attenzione a questo tema menciano ha dedicato uno studioso recentemente scomparso, Pier Cesare Bori, che in pagine di grande intensità e limpidezza ne ha segnalato l’importanza ai fini della ricerca di un consenso etico fra culture. Come egli sottolinea, vi è un orizzonte problematico che è necessario affrontare, sullo sfondo dei dibattiti contemporanei, e che si può riassumere nelle domande seguenti: è possibile una formulazione transculturale dei diritti umani, tale cioè da sottrarli all’accusa di essere meramente occidentali? E quale rapporto si può configurare fra tradizioni antiche e moderno linguaggio dei diritti? La risposta di Bori a queste domande individua nel tema della compassione una risorsa essenziale:
L’universalità dei diritti dell’uomo non suppone una concezione definita e costante della natura umana, ma piuttosto una idea di natura come attitudine tendenzialmente universale a partecipare al bisogno e alla sofferenza dell’altro (nelle diverse tradizioni: “umanità”, “misericordia”, nella Dichiarazione dei diritti umani: “ragione e coscienza”.28
In base ai documenti delle discussioni preparatorie della Dichiarazione dei diritti umani del 1948, Bori pone in rilievo un aspetto generalmente ignorato, e che meriterebbe invece un’attenta considerazione: è ren, il “senso dell’umanità” confuciano a tradursi nel termine “coscienza”; come spiegò il cinese P. Chang che ne propose l’introduzione, è “il sentimento che esistono gli altri esseri umani.”29
E’ di qui, credo, che potrebbe e dovrebbe ripartire la riflessione su che cosa ha oggi da dirci Confucio: non chiediamogli dunque l’apologia dell’ordine del mondo esistente, quanto piuttosto il progetto di un altro ordine del mondo possibile.
1Cfr. A. Crisma, “Fra sinità e global philosophy: voci di un dibattito, dalla Cina e sulla Cina”, Cosmopolis 1, 2008, pp.117-127 (anche in www.cosmopolisonline.it).
2 Cfr. A. Crisma, “Prospettive ermeneutiche sul pensiero della Cina antica nel dibattito filosofico contemporaneo”, in L. De Giorgi, G. Samarani (a cura di), Percorsi della civiltà cinese fra passato e presente, Cafoscarina, Venezia 2007, pp. 181-200.
3 F. Rosenzweig, La stella della redenzione (1921), tr.it. Marietti, Casale Monferrato 1985, p. 61.
4H. Fingarette, Confucio, il sacro nel secolare (1972), tr. it. Neri Pozza, Vicenza 2000.
5Per una rappresentazione complessiva del dibattito intorno a tale problema, cfr. A.Crisma, “Chi è oggi per noi Confucio? Interpretazioni a confronto”, in S.Pozzi (a cura di), Confucio re senza corona, ObarraO, Milano 2011, pp. 71-136.
6F. Jullien, Il saggio è senza idee, o l’altro della filosofia (1998), tr.it. Einaudi, Torino 2002. Cfr. A. Crisma, “L’indifferenza alla felicità nel pensiero della Cina antica: dialogo con F. Jullien”, Cosmopolis 2, 2006, pp. 87-98.
7 A. Cheng, La Chine pense-t-elle? Fayard, Paris 2009.
8G. Pasqualotto, East & West. Identità e dialogo interculturale, Marsilio, Venezia 2003.
9 G. Marramao, Passaggio a Occidente. Filosofia e globalizzazione, Bollati Boringhieri, Torino 2003.
10 A. Crisma, “E’ possibile pensare la relazione con il pensiero cinese al di fuori della dicotomia Oriente/Occidente?”, in P. De Troia (a cura di), La Cina e il mondo, Ed. Nuova Cultura, Roma 2010, pp. 395-410.
11M. Aime, Eccessi di culture, Einaudi, Torino 2004.
12Cfr. Anne Cheng, Etude sur le confucianisme Han, Collège de France, Paris 1985; M. Scarpari, La concezione della natura umana in Confucio e Mencio, Cafoscarina, Venezia 1991; Heiner Roetz, Confucian Ethics of the Axial Age, SUNY, Albany 1993. Per un quadro sintetico degli sviluppi più recenti degli studi, cfr. A. Crisma, “ Confucianesimo”, “Canone confuciano” e “Tradizioni del pensiero cinese”, in A. Melloni (a cura di), Dizionario del sapere storico-religioso del Novecento, Il Mulino, Bologna 2010, pp. 230-234, 557-571, 1705-1729.
13Cfr. L. Jensen, Manufacturing Confucianism, Duke University Press, Durham 1997. Su questi aspetti cfr. inoltre A. Crisma, “Il confucianesimo: essenza della sinità o costruzione interculturale?”, Prometeo n. 119, settembre 2012, pp. 68-85.
14Su questi temi cfr. ad es. G. Jervis, Contro il relativismo, Laterza, Roma-Bari 2005; T. Todorov, Lo spirito dell’illuminismo, (2006), tr.it. Garzanti, Milano 2007.
15La più recente e filologicamente aggiornata edizione italiana dei Dialoghi di Confucio è a cura di T. Lippiello, Einaudi, Torino 2003 (con testo a fronte).
16Cfr. A. Crisma, Il Cielo, gli uomini. Percorso attraverso i testi confuciani dell’età classica, Cafoscarina, Venezia 2000; A. Crisma, Conflitto e armonia nel pensiero cinese dell’età classica: il Trattato sui Riti di Xunzi, Unipress, Padova 2004.
17P. Ricoeur, Note sur Du temps, in T. Marchaisse (a cura di), Dépayser la pensée. Dialogues hétérotopiques avec F. Jullien, Seuil, Paris 2003, pp.211-223.
18Dialoghi di Confucio 12.22, trad. in A. Crisma, Conflitto e armonia…cit., p. 31.
19Ibid.
20Non mi è possibile qui affrontare il problema del ruolo della donna, sul quale si è di recente acceso un vivace dibattito al cui proposito rinvio ad A.Crisma, Femminismo e confucianesimo: aspetti di rivisitazioni ermeneutiche contemporanee, di imminente pubblicazione.
21Cfr. Crisma, Conflitto…, cit. pp. 32 – 33.
22Ivi, p.34.
23 Cfr. A. Crisma, “Idee di futuro nelle tradizioni di pensiero cinesi”, Giornale critico di storia delle idee 1,2010 (www.giornalecritico.it).
24 Su Mencio (IV secolo a.C.) cfr. M. Scarpari, Studi sul Mengzi, Cafoscarina, Venezia 2002; Id. Il confucianesimo. I fondamenti e i testi, Einaudi, Torino 2010.
25 Cfr. A. Crisma, « Esprit de réforme et confucianisme », in P.C. Bori, M. Haddad, A.Melloni,Réformes. Comprendre et comparer les religions, LIT, Berlin 2007, pp.125-142.
26 Ad esempio, le ricerche di H. Roetz, Confucian Ethics… cit., mostrano che il confucianesimo, lungi dal rappresentare una tradizione univoca, si configura come un campo di tensioni fra istanze diverse: fra obbedienza e rimostranza, fra istanze gerarchiche e istanze egualitarie, fra “regalità esterna” e santità interiore”. I dibattiti dei sinologi vi hanno dedicato molta attenzione (cfr. A. Crisma, “Pensare la Cina in un orizzonte interculturale”, in G. Pasqualotto, a cura di, Per una filosofia interculturale, Mimesis, Milano 2008, pp. 179-211); in ambiente filosofico, la loro importanza non è sfuggita a Giacomo Marramao, Passaggio a Occidente, cit, pp. 135-167.
27 Mengzi 2 a 6, 7 b 31, in Scarpari, Studi.., cit. pp. 97-98, 82. Per una rappresentazione sintetica del confucianesimo classico, cfr. A. Cheng, Storia del pensiero cinese, tr. it. e cura di A. Crisma, Einaudi, Torino 2000.
28 P.C.Bori, Per un consenso etico tra culture, Marietti, Genova (1991) 1995, p. 89. Sulla figura e sull’opera di questo straordinario studioso, e sul suo grande contributo al dibattito interculturale contemporaneo, cfr. A.Crisma, “Il silenzio e le parole. In memoria di Pier Cesare Bori”, Cosmopolis, dicembre 2012 (www.cosmopolisonline.it) (anche in www.inchiestaonline.it e Inchiesta, n. 178, ottobre/dicembre 2012).
29 Bori, Per un consenso…, cit. pp. 90, 94. Cfr. A. Crisma, “Il problema dei diritti umani in Cina in un orizzonte di universalismo contestuale”, in S. Matterelli (a cura di), Il senso della Repubblica. Doveri, Franco Angeli, Milano 2007, pp. 179-190.
Category: Culture e Religioni, Osservatorio Cina, Storia della scienza e filosofia
Bella prof…
Bella tematica sul capodanno dei CINESI…
Lei un grande!!!