Alberto L’Abate: Il contributo di Johan Galtung alla teoria ed alla pratica della pace e della nonviolenza
Galtung è sicuramente uno degli studiosi che ha più contributo allo sviluppo teorico- pratico di questo settore, grazie alla sua prolificità nello scrivere (fino al 2012, 1785 saggi, 165 libri, scritti o curati da lui o insieme ad altri; molti dei quali tradotti in 34 lingue, compreso l’italiano [1]), sia grazie al lavoro da lui svolto in molti paesi del mondo (anche per le Nazioni Unite, ed altre importanti O.I.G) soprattutto per la mediazione di conflitti, con risultati importanti cui avremo occasione di accennare in seguito. Ma anche per aver dato vita al PRIO, il primo Istituto Specializzato in questo campo, ed alla prima rivista di ricerche in questo settore [2]. Il suo contributo è stato riconosciuto anche da una ricerca svolta presso i ricercatori di questo settore che, alla domanda su quale studioso aveva influenzato maggiormente il loro lavoro, hanno indicato proprio lui nella percentuale più alta (44%)[3].
In un libro curato da uno dei suoi più stretti collaboratori, Dietrich Fischer [4], che dirige la collana di pubblicazioni della Università fondata da Galtung, la Transcend University, libro pubblicato da questa Università (TUP), in coedizione con Springer Science, Johan Galtung: Pioneer in Peace Research, (2013), oltre ad una ottima selezione di saggi di questo autore che riescono a far capire bene l’importante contributo di Galtung agli studi e le ricerche per la pace e la nonviolenza, c’è anche una notevole introduzione di Fischer che ci presenta anche aspetti della vita di Galtung [5] non sufficientemente noti al pubblico che pur ha letto qualche libro o saggio di questo autore. Tra l’altro vi apprendiamo che Galtung decise di dedicarsi alla prevenzione delle guerre dopo che suo padre, nel loro paese, la Norvegia, fu portato in un campo di concentramento dai nazisti, pur avendo salvato molti soldati tedeschi feriti in un incidente, malgrado che fossero loro nemici, in quanto invasori della Norvegia. Il padre fortunatamente poté tornare a casa un mese prima della fine della guerra. Inoltre veniamo a sapere che Galtung ha passato 6 mesi nelle carceri norvegesi, per aver chiesto di fare il periodo del servizio alternativo aggiuntivo (che in Norvegia, in quel tempo, era più lungo di sei mesi rispetto a quello militare) svolgendo solo attività per la pace, cosa rifiutatagli dal governo, al che egli, per protesta contro questo rifiuto, ha preferito passare quei sei mesi in carcere. Ma questi gli sono serviti ad approfondire i suoi studi su Gandhi, ed a completare, insieme al suo maestro Arne Naess (il fondatore dell’ecologia profonda), il suo primo libro: Gandhi’s Political Ethics (1955).
Altri aspetti utili alla conoscenza di Galtung è il fatto che si è laureato sia in Matematica (1956), sia in Sociologia (1957), che si è perfezionato negli studi sociologici in USA, con Talcott Parsons, che la sua prima cattedra è stata, in USA, di “Sociologia matematica”, e che conosce e tiene lezioni e conferenze in 8 lingue, essendo stato chiamato a tenere lezioni, conferenze ed anche interi corsi in Università di tutto il mondo.
Ma il libro curato da Fischer, e la sua magistrale introduzione, è anche utilissimo a comprendere meglio i principali contributi di Galtung alle ricerche di questo settore. Uno di quelli più importanti, secondo il sottoscritto (metodologo anche lui), e sottolineato anche da Fischer, è la demistificazione di Galtung, (che proviene da una famiglia nella quale la professione principale è stata quella medica) di uno degli assunti più radicati nelle scienze in generale, ed anche in una parte importante di quelle umane, e cioè la neutralità della scienza, e perciò la cosiddetta necessità di non introdurre valori nella ricerca. Questo assunto, nella ricerca per la pace, è addirittura un controsenso. Scrive Fischer, nella sua introduzione, parlando di questa impostazione di Galtung: “Lo scopo degli studi per la pace non è quello di formare solo dei “teorici”, ma anche dei “pratici” che possano applicare quello che hanno imparato. Galtung ha caratterizzato così la scienza “avalutativa” (e cioè ‘libera dai valori’): ‘ Se vi sentite male andate a farvi visitare da un dottore. Lui, dopo avervi visitato, vi dice: ‘Lei ha una malattia molto interessante, la descriverò nella mia prossima pubblicazione scientifica ‘.Al che lei gli dice: ‘Ma non ha una cura per me?’. Ma lui protesta: ‘Oh no, io sono libero dai valori. Io non intervengo” (introduzione di Fischer, a p.12) [6]
Importante anche la sottolineatura di Galtung dei tre principali compiti dei professionisti dipace che lui si augura che si formino (anche attraverso la sua Università, o i centri appositi di cui lui stesso ha stimolato la nascita), e si diffondano in tutto il mondo [7]: 1) la riconciliazione, e cioè il curare gli effetti della violenza passata; 2) la costruzione della pace, e cioè lo studio e l’azione per prevenire la violenza futura; 3) la trasformazione del conflitto, ed cioè la ricerca di metodi per mitigarli (ad esempio passando da una lotta armata ad una di tipo nonviolento), oppure nell’aiuto ai contendenti a trovare soluzioni di mutuo beneficio (attraverso la mediazione) [8]. Ma il suo insegnamento su questo ultimo aspetto è particolarmente rilevante anche grazie alla sua vita impegnata a mediare, spesso con successo, molti conflitti in tutte le parti del mondo. In questo campo importante il suo triangolo del conflitto, formato, da un lato, dagli atteggiamenti (odio, rancore, diffidenza, ecc., che possono essere superati attraverso l’apprendimento dell’empatia), in un altro angolo, dal comportamento (che può passare, anche grazie ad un buon lavoro dell’operatore di pace, da violento a nonviolento), ed infine, nel terzo angolo, dalle contraddizioni, e cioè da obbiettivi contrapposti dei due contendenti, che possono essere superati grazie alla creatività, ed alla ricerca di obbiettivi “sovraordinati”, o di mutuo beneficio [9].
Altro tema individuato da Galtung è la sua distinzione tra tre tipi diversi di violenza: “diretta”, “strutturale” (ispiratagli dalla visione della miseria della gente mentre lavorava in un Istituto di Studi Gandhiani in India), e quella “culturale” [10]. Una ricerca citata da Fischer, sulla differenza tra morti per violenza diretta e quella strutturale, mostra l’estrema gravità di questa ultima, ed anche, direi, la responsabilità della scienza politica occidentale, e della politica di questi paesi, che non tiene conto, per niente, dell’importanza e la gravità di questo tipo di violenza. Da questa ricerca risulta infatti che, a livello mondiale, c’è una forte correlazione positiva tra reddito pro capite ed aspettative di vita, tanto che i due studiosi in questione calcolano che se, nell’anno 1965, ci fosse stato un maggior equilibrio di reddito, si sarebbero potuti salvare 14 milioni di vite umane, mentre, in quello stesso anno, sono morte, in guerre civili ed internazionali, 140.000 persone. Da questa ricerca risulta perciò che la violenza strutturale è responsabile della perdita di vite umane 100 volte di più della violenza diretta [11]. Questo problema è reso ancora più grave dal fatto che l’attuale modello di sviluppo, e cioè il processo in corso di globalizzazione, malgrado o grazie alla profonda crisi attuale, tende ad accrescere a dismisura gli squilibri di reddito, con una estrema minoranza, circa il 5 % della popolazione, che si sta arricchendo vertiginosamente, mentre gli altri, la maggioranza, si sta impoverendo sempre più. Se si tiene presente poi, come denuncia anche il generale Mini [12] , che nel degrado generale delle industrie occidentali, che tendono a delocalizzare il lavoro nei paesi cosiddetti emergenti (nei quali il costo del lavoro è notevolmente inferiore che nei primi), le industrie più fiorenti, che vedono aumentare anno per anno i loro dividenti, sono quelle che costruiscono e vendono armi, le implicazioni negative di questo andamento nei riguardi del mantenimento della pace sono più che evidenti [13].
L’appartenenza di Galtung ad una famiglia di tradizione medica si fa sentire anche nella sua metodologia di analisi dei conflitti per la quale egli usa il modello della: a) diagnosi, e cioè la ricerca delle possibili cause del conflitto; b) prognosi, e cioè lo studio degli andamenti probabili dello sviluppo del conflitto, se non si interviene; c) terapia, e cioè gli interventi proposti dall’operatore di pace, o dai diretti interessati, per prevenire o ridurre la violenza. Ma in rapporto a questo ultimo aspetto, e cioè la terapia, un elemento molto innovativo, rispetto ai tradizionali approcci degli scienziati di questi settori, è l’importanza data da Galtung allo studio della “terapia del passato”, e cioè all’analisi di cosa si sarebbe potuto fare di diverso, nel passato, e da parte di chi, per prevenire o ridurre la violenza. Questo mette in primo piano quell’approccio, emergente ma non ancora del tutto accettato, della “storia controfattuale” [14].
Un altro importante contributo di Galtung alle ricerche per la pace, messo in luce da Fischer nella sua introduzione (p.11 e segg.), è la distinzione tra “pace negativa”, la mancanza delle tre forme di violenza prima individuate (diretta, strutturale, culturale), e “pace positiva”, come cooperazione a vantaggio di tutti, su base equivalente, ed apprendimento reciproco per curare la violenza passata ed evitare quella futura [15]. Ed a proposito di questo Galtung sviluppa, anche per un manuale delle Nazioni Unite, il Metodo Trascend [16]. Questo prevede tre fasi di lavoro per l’analisi del conflitto e la ricerca delle soluzioni: 1) Dialogo con tutti (anche con quelli che vengono considerati i cattivi, e perciò non affidabili) per capire i loro obbiettivi, le loro preoccupazioni e le loro paure, ed ottenerne la fiducia; 2) Distinguere tra obiettivi legittimi ed illegittimi a seconda che vadano a favore o contro i bisogni umani fondamentali. La legittimità è basata sul principio che se desideriamo qualche cosa dagli altri dobbiamo essere disponibili a concederla anche noi; 3) Rompere la distanza tra tutti gli obbiettivi legittimi, ma in contrasto reciproco, con soluzioni accettabili da tutti e sostenibili (questo attraverso la creatività, l’empatia e la nonviolenza).
Un esempio positivo di una mediazione svolta da Galtung, e da lui citata anche nella sua lezione magistrale svolta a Vicenza nel 2011 [17], è quella dell’accordo tra l’Equador ed il Perù per la gestione condivisa, come parco naturale, di una zona montana ai confini dei due paesi, per il possesso esclusivo della quale questi due paesi si erano, per moltissimi anni, combattuti aspramente. Il costo di quella operazione di mediazione era stato all’incirca di 250 dollari che Fischer confronta con il costo della guerra del golfo per espellere l’Iraq dal Kuwait che è stato di circa 100 miliardi di dollari,[18] senza tener conto delle distruzioni causate dalla guerra e dei costi della loro ricostruzione (senza calcolare anche le persone morte che non possono essere più rimesse in vita). In un altro suo lavoro Fischer, dando anche altri esempi dei costi inferiori delle mediazioni rispetto alle guerre, e dei migliori risultati delle prime, si era posto il problema del perché la mediazione sia tanto trascurata a livello internazionale, e di cosa si potrebbe fare per superarlo.[19]
Nel libro qui recensito vengono riportati molti saggi di Galtung sulle sue attività di mediazione dei conflitti, svariate delle quali hanno avuto risultati positivi [20]. Ma la mediazione dei conflitti richiede anche un lavoro di previsione degli stessi. Infatti se un conflitto viene previsto in anticipo, e si interviene positivamente prima che questo esploda nella sua virulenza, le possibilità di una soluzione pacifica sono decisamente più grandi. Ed è in questo campo che Galtung ha dato un contributo particolarmente brillante. Citerò qui solo due delle previsioni di Galtung che si sono realizzate, come esempio anche di tutte le altre che si possono leggere nel libro (che mi auguro venga presto tradotto e pubblicato anche in italiano). La prima è quella fatta da Galtung, nel 1980, sulla fine dell’impero sovietico nei prossimi dieci anni. Questa previsione era basata sull’esistenza, all’interno di questo “impero”, di cinque contraddizioni principali che crescevano e si intrecciavano reciprocamente: 1) il desiderio della classe operaia di avere dei sindacati; 2) la borghesia che desiderava invece avere cose maggiori e più valide da consumare; 3) gli intellettuali che volevano più libertà di espressione e di stampa; 4) le varie minoranze in cerca di autonomia; 5) i contadini in cerca di una maggiore libertà di movimento. Ed effettivamente il crollo di questo impero è avvenuto il 9 novembre 1989, circa due mesi prima dello scadere dei 10 anni previsti da Galtung.
Una seconda previsione, fatta nel 2009, che bisognerà attendere per vedere se si realizzerà o meno, è quella del crollo dell’impero statunitense [21] nel 2020, basata su 14 contraddizioni crescenti, la principale delle quali è il contrasto tra il sogno americano e la realtà.
Un’altra previsione, realizzatasi in pieno, è quella delle crisi economiche del 1987, del 2008, e del 2011. Questa era basata sull’osservazione del contrasto tra lo sviluppo dell’economia reale (prodotti di consumo) e quello dell’economia finanziaria (acquisto e vendita). L’economia reale era infatti in crescita, ogni due anni, di solo circa il 5%, e la seconda, invece, dell’83%; asincronia questa che, per Galtung, come nella realtà è avvenuto, era destinata a portare ad una crisi profonda.
Un ultimo importante contributo di Galtung al settore della ricerca per la pace che metterò in evidenza in questo saggio, sottolineato da Fischer nella sua bella introduzione, è la messa a punto e l’utilizzazione della teoria degli squilibri di rango [21]. Nell’illustrazione di Fischer in certe società una sola classe sociale controlla tutte le quattro forme di potere: militare, economico, culturale, politico. In queste società, malgrado il grosso squilibrio di potere, la situazione è relativamente stabile perché la classe più bassa (definita da Galtung, in modo molto colorato, come quella dei “cani bastardi”, rispetto a quelli di “razza”) ha poche possibilità di cambiare la situazione, tranne per i rari casi di rivoluzione. Ma in altre società invece una minoranza, spesso di persone venute dall’esterno, è riuscita, grazie ai suoi talenti, le sue capacità ed un duro lavoro, ad acquisire spazi di potere economico e culturale, ma senza alcun potere politico e militare. E’ questa la tipica situazione di squilibrio di rango nella quale si trovano varie minoranze come i cinesi in Malesia, i Tutsi, rispetto alla maggioranza Hutu, in Rwanda, nel 1994, e si sono anche trovati gli ebrei in Germania agli inizi del ventesimo secolo. Queste situazioni, che spesso hanno visto le popolazioni maggioritarie ribellarsi contro questi squilibri, trattando le minoranze con grande crudeltà, potrebbero invece essere risolte pacificamente attraverso quella che Galtung suggerisce come la politica di “discriminazione positiva”: questa prevede un appoggio alla popolazione maggioritaria nei settori da questa deficitari (economici e culturali) perché essa possa raggiungere il livello a cui è la minoranza, senza che questo tolga nulla a quest’ultima. Un esempio positivo di questo modo di comportarsi, che ha evitato una possibile strage dei cinesi da parte della maggioranza malese, è stato quello portato avanti dal Presidente Mahathir in Malesia (introduz. di Fischer, p.16) [23]. Ma questa politica, secondo Galtung e Fischer, potrebbe essere valida anche in altre situazioni, e portare pace invece di tanti conflitti che questi squilibri spesso provocano. Ad esempio, scrive Fischer, Israele, invece di portare avanti la sua politica di discriminazione contro la maggioranza araba (che provoca un crescente antisemitismo non solo in quel paese ma anche nel mondo), guadagnerebbe moltissimo aiutandola invece ad uscire dal suo squilibrio di rango sociale.
Il tema dello squilibrio di rango ed i problemi che questo può comportare, è collegato anche all’accusa di antisemitismo che, recentemente, si è abbattuta proprio su Galtung, e dalla quale Fischer cerca di difenderlo. Scrive Fischer che Galtung teme la nascita di una corrente antisemita negli USA, ed ha perciò cercato di prevenirla. Infatti, in questo paese, gli ebrei hanno un ruolo preminente nelle università, nei media ed in Wall Street, ma sono piuttosto marginali in rapporto al potere politico e militare. L’accusa che hanno fatto a Galtung è quello di “dare la colpa alle vittime” (che, secondo gli accusatori, sarebbero gli ebrei). In realtà, scrive Fischer, Galtung, da oltre 40 anni, ha sempre difeso il diritto di Israele di esistere come Stato, con caratteristiche ebraiche, anche in mezzo a paesi arabi, e desidera solo il meglio per Israele: una pace stabile con i suoi vicini. Per questo ha anche proposto, nel 1964, un concreto piano di pace con la costituzione di una Comunità del Medio Oriente, sul modello della Comunità Economica Europea del 1958. Questa Comunità, alla quale avrebbero dovuto partecipare Israele ed i cinque stati arabi vicini, avrebbe avuto frontiere aperte, un Consiglio dei Ministri, delle commissioni per le acque, per il controllo dei confini, per l’economia, con le capitali nelle due Gerusalemme, e con un diritto di ritorno, con numeri da concordare, come proposto da Arafat. Lo Stato Palestinese sarebbe stato riconosciuto in pieno, con qualche scambio di confini: a Israele alcuni cantoni della West Bank, alla Palestina altri del Nord West di Israele. Oltre a questo il piano prevedeva la costituzione di una Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione dell’Asia dell’Est, con, sulla tavola, tutte le parti e tutti i problemi aperti, e senza limiti di tempo, come la Conferenza di Helsinski del 1972-1975, con l’obiettivo di dar vita ad una Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione dell’Asia dell’Est, sul tipo di quella europea istituita nel 1994.
Fischer sostiene inoltre che effettivamente Galtung ha criticato la politica del Governo Israeliano, non solo interna ma anche quella internazionale, perché questa rischia di dar fuoco ad un atroce conflitto di tutta la zona. Ma, si chiede Fischer: “Chi è il miglior amico di qualcuno che cammina, ad occhi chiusi, verso l’abisso. Quello che ti dice :’vai dritto, sei sulla buona strada’, oppure quello che ti dice: ‘Fermati e cambia strada, sei in grave pericolo’?“. Conclude Fischer .”Una persona critica può essere il nostro migliore amico, salvandoci da un pericolo, o da una follia”.
Concludendo questo saggio, o recensione lunga, rispetto a quelle normali, nel libro vengono riportati tutti i titoli dei libri scritti o curati da Galtung, solo o con altri studiosi, ed infine 18 scritti fondamentali di questo ricercatore, ottimamente scelti dal curatore del libro, che danno un quadro piuttosto completo della produzione e dell’attività di questo ricercatore per la pace che ha vinto anche il cosiddetto premio Nobel alternativo per la pace [24], ed ha avuto moltissimi altri premi per la pace in tutte le parti del mondo. Tra i 18 testi riportati in 131 pagine del libro ci sono alcuni dei saggi di cui ha parlato Fischer nella sua introduzione ed a cui, almeno in parte e di sfuggita, abbiamo già accennato: tra questi il ruolo dei valori nella ricerca per la pace, il metodo Transcend, i diversi tipi di violenza, la pace positiva e negativa, i compiti dei professionisti di pace, e le previsioni del crollo dei due imperi (URSS, e USA). Ma ve ne sono svariati altri di cui non abbiamo fatto alcun cenno, tra questi: l’insegnamento nonviolento fondamentale di Gandhi, l’importanza ed i metodi del giornalismo di pace [25], i rapporti tra democrazia di pace e sviluppo, sugli ostacoli verso una cultura di pace, su una politica dei diritti umani, sulla riconciliazione come liberazione dai traumi subiti, sulle cause della guerra e la sua abolizione [26]. Su quest’ultimo argomento illuminante,anche per il nostro paese, la sua teoria della “difesa difensiva” come strumento di passaggio (in termini tecnici si parla di “transarmo”) da una difesa offensiva ad una politica di disarmo.
Da questo punto di vista noi italiani ci dimentichiamo spesso che la nostra Costituzione, all’art. 11, ci vieta le guerre di offesa, e le armi (come gli F35) che sono utilizzabili solo in guerre di questo tipo, e che l’unica possibilità legale e costituzionale sarebbe per noi mettere in pratica quella che Galtung ha definito la “guerra difensiva”, e cioè una guerra con soltanto armi a breve gittata che servano solo a difendere il proprio territorio da eventuali attacchi o invasioni di possibili nemici. Ma malgrado una audizione di Galtung a tre Commissioni riunite del Senato (Affari Esteri/Emigrazione; Difesa; Politiche dell’Unione Europea) del 23 luglio 2013, dove egli ha spiegato l’importanza della difesa difensiva e la sua congruità con la nostra Costituzione, la politica italiana procede nel solito modo,premiando le spese militari, e tartassando quelle civili [27].
Su questa proposta di Galtung si veda il resoconto della seduta negli atti parlamentari di quella data. Nel resoconto ufficiale della seduta risulta che Galtung, parlando delle attività del suo Istituto per la teoria e la pratica della pace, nei pressi di Basilea, ha detto : “Esso muove dalla considerazione – dimostrata dall’esperienza empirica – che un sistema di difesa basato su strumenti offensivi ad ampio raggio e con alleanze di tipo aggressivo favorisce la corsa agli armamenti e le probabilità del conflitto. Le esperienze più positive per il mantenimento della pace sono riscontrabili, invece, in quei Paesi che adottano un approccio non allineato e basato su una difesa puramente difensiva con armi a corto raggio (come dimostrato, ad esempio, dai paesi latino americani e dalla Svizzera). Al fine di perseguire una più efficace tutela della pace e ridurre le probabilità del conflitto, risulta necessario, pertanto, un riorientamento del sistema di difesa, basato sul passaggio da sistemi di attacco a lungo raggio a sistemi difensivi a corto raggio, sul non allineamento, sull’utilità agli altri paesi e sulla riduzione della vulnerabilità…..L’oratore precisa, inoltre, che il concetto di non allineamento (perfettamente espresso dalla formulazione dell’articolo 11 della Costituzione Italiana), non comporta la messa in discussione dell’appartenenza ad organizzazioni internazionali quali l’Unione Europea e l’Alleanza atlantica, ma solo il cambiamento della politica di difesa e che, sotto tale aspetto, il contributo italiano al Consiglio europeo di dicembre potrebbe essere particolarmente importante….”(nel sito del Senato, commissione difesa, del giorno su indicato, p. 2).
Non è possibile in questo articolo dar atto di tutti gli importanti contributi di Galtung in questi settori che vengono riportati in questo libro, per questo, nel chiudere, vorrei solo ripetere che lo ritengo fondamentale per la conoscenza della teoria e della pratica di Galtung in rapporto alla pace ed alla nonviolenza, e che mi auguro che venga tradotto e pubblicato anche in Italia in modo che anche il nostro pubblico possa leggerlo e goderne, spero, come anche io ne ho goduto.
NOTE
1 Oltre ai molti articoli apparsi su vari giornali e riviste, sono stati tradotti e pubblicati in italiano, a mia conoscenza, i seguenti libri: Imperialismo e Rivoluzioni: una teoria strutturale, Rosenberg & Sellier, Torino, 1977; Ambiente, Sviluppo e Attività Militare, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1984; Ci sono alternative!, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1986; Gandhi oggi. Per una Alternativa politica nonviolenta, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1987; Palestina- Israele: Una soluzione nonviolenta?, Ediz. Sonda, Torino, 1989; Buddismo: una via per la pace, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1992; I diritti umani in un’altra chiave, Ediz. Esperia, Milano, 1997; Pace con mezzi pacifici, Ediz. Esperia, Milano, 2000; La trasformazione dei conflitti con mezzi pacifici: il Metodo Transcend, U.N.D.P, Centro Studi Sereno Regis, Torino, 2006; Ediz. ampliata, Provincia di Bolzano, 2010; con D. Ikeda, Scegliere la pace, Ediz. Esperia, Milano, 2007; Affrontare il conflitto: Trascendere e Trasformare, Ediz. Plus, Pisa, 2008.
2 PRIO, “Internation Peace Research Institute in Oslo” nel 1959, e la rivista “Journal of Peace Research”, nel 1964.
3 La ricerca è stata portata avanti nel 1985 da Anita Kemp su 133 ricercatori per la pace, molti dei quali membri dell’IPRA (Associazione Internazionale di Ricercatori per la Pace), che Galtung aveva contribuito a fondare nel 1964. Si veda l’introduzione di Fischer, nel libro citato, a pag. 7.
4 Dietrich Fischer dirige attualmente le edizioni dell’Università fondata da Galtung , la Transcend University Press (TUP). In passato, dal 2009 al 2012 ha diretto l’Accademia Mondiale per la Pace dell’Università di Basilea (Svizzera), ed , in precedenza (2003-2009), è stato direttore accademico del Centro Universitario Europeo per gli studi per la Pace di Stadtschlaining (Austria).
5 Questi aspetti sono ripresi, in massima parte, da un libro autobiografico dello stesso Galtung: Johan Lackland. On the Peace Path Through the World, pubblicato nel 2000 in norvegese, con due successive ristampe. Il libro ha vinto il massimo premio letterario norvegese ed è stato tradotto in varie lingue
6 Per un approfondimento di questo tema, cui Galtung ha dedicato molti studi all’interno di quella che lui chiama la scienza trilaterale (basata sui dati, le teorie ed i valori), con una impostazione da lui definita come “costruttivismo”, che vede la ricerca non finire con un bel libro ma attraverso la modifica della realtà nel senso desiderato, ed una verifica del fatto di esserci riusciti a farlo, si veda il suo: ”Empiricism, Criticism, Constructivism: Three Aspects of Scientific Activity”, in J. Galtung, Methodology and Ideology, C. Ejlers, Copennhagen, 1977, pp. 41-71. Per un ulteriore approfondimento si può vedere anche il cap. 9 , “Il ruolo dei valori nella ricerca scientifica”, del mio libro: Metodi di analisi nelle Scienze Sociali e Ricerca per la Pace: una introduzione, Transcend University Press e MultImage, Basilea – Firenze, 2013.
7 L’organizzazione da lui fondata nel 1993, Transcend, che ha recentemente dato vita anche ad un Centro stanziale nel sud della Germania, nei pressi di Basilea (dove c’è una cattedra di Peace Research tenuta da Fischer, il curatore di questo libro) e cioè l’ ” Istituto Galtung per la teoria e la pratica della pace”, riunisce molti di questi ricercatori. Risultano infatti iscritti circa 500 membri di 70 paesi diversi, che operano in quattro settori:1) Azione, soprattutto attraverso la mediazione dei conflitti; 2) Educazione e Formazione, che opera in particolare attraverso l’Università per la pace che fa corsi on line, o in località varie, compresa la sede su citata; 3) Informazione, che cerca di diffondere il giornalismo di pace, e che pubblica, online, un giornale settimanale, ed ha una casa editrice, appunto quella che pubblica il libro che sto recensendo; 4) infine la ricerca, per il coordinamento della quale è nato l’Istituto Galtung su citato.
8 Galtung parla di due tipi di mediazione: 1) La prima dà al mediatore solo il ruolo di facilitatore o conciliatore, ma non quello di suggerire le soluzioni del conflitto ai contendenti, perché questi devono trovarle da soli ; 2) nella seconda, con la quale si è trovato a lavorare più spesso Galtung, il mediatore aiuta le parti in conflitto informandoli su come un conflitto simile è stato risolto altrove, ed offrendo loro proposte che siano in accordo con gli obbiettivi delle parti in conflitto, lasciando però a loro la decisione se accettarle o meno
9 Questa implica il superamento di quelli che vengono chiamati, nella teoria dei giochi, i giochi a “somma zero”(in cui uno dei contendenti vince e l’altro perde), ed il passaggio invece ai “giochi a somma variabile”, nei quali è possibile soddisfare i bisogni o gli interessi, in forma parziale ma anche totale, di tutti i contendenti. Per questi due tipi di giochi e la loro applicazione al problema della guerra e della pace si legga il capitolo: “Il processo di costruzione della guerra e della pace “ nel mio libro, Per un futuro senza guerre, Liguori Edit., Napoli, 2008, pp. 59- 82. Si veda anche il concetto di “trascendenza”(o trascendimento) nel grafico a pag. 24 del manuale di Galtung dell’UNDP/Centro Studi Sereno Regis, nella versione allargata pubblicata dalla Provincia di Bolzano
10 Quest’ultima è vista da Galtung come le motivazioni intellettuali e culturali (nazionalismo, razzismo, sessimo, ecc.) che giustificano il persistere delle prime due.
11 La ricerca è stata svolta, nel 1976, da Köhler e Alcock (introduz. di Fischer, p. 11). Dato il modello di sviluppo in corso, che tende ad accrescere gli squilibri, il problema, da allora, si è sicuramente aggravato.
12 Generale F. Mini, Perché siamo così ipocriti sulla guerra?, Chiare Lettere, Milano, 2012. Questi, parlando della guerra al terrorismo dei paesi occidentali, sviluppatasi dopo l’attentato alle torri gemelle di New York (guerra che, secondo Amartya Sen, il premio Nobel dell’Economia, nel modo con cui viene portata avanti ora, sta accrescendo il terrorismo invece di abbatterlo) scrive che questa è : “Un salasso enorme di risorse finanziarie ed umane, con le migliaia di morti, feriti e traumatizzati dalle guerre, ma una vera pacchia per le industrie militari, che guarda caso avevano mal digerito i piani di riduzione già pianificati nel 2000 e che si sono dette subito pronte a sostenere patriotticamente lo sforzo bellico della nazione. Le cinque principali compagnie del settore (Lockheed Martin, Boeing, Northrop Grumman, General Dynamics e Raytheon) nel 2001 avevano un fatturato di 217 miliardi e un profitto netto di 6,7 miliardi. Nel 2010 il fatturato è stato di 386 miliardi e il profitto di ben 24,8 miliardi di dollari (ibid., p.40). Per la tesi di A. Sen si veda: “ Gandhi and the World”, in, Sarvodaya, Luglio-Agosto 2006 (trad. ital. in, Quaderni della Fondazione Balducci: Quale Europa per una civiltà di Pace ?, n. 17, 2007, pp. 113-124).
13 Altre ricerche hanno abbondantemente confermato la correlazione positiva tra l’accumulazione delle armi e lo sviluppo delle guerre, e contestato invece la tesi delle armi come strumento di dissuasione e di mantenimento della pace. Per queste ricerche .si veda il capitolo: “L’analisi causale della guerra”, nel mio libro, Consenso, Conflitto e Mutamento Sociale, Ediz. Franco Angeli, Milano, 1990, pp. 123-164.
14 Su questo aspetto si veda, di Galtung, quanto scrive nel suo libro, La trasformazione dei conflitti con mezzi pacifici: il Metodo Transcend, citato, nella versione allargata pubblicata dalla Provincia di Bolzano, ed anche quanto dice su questo S. Romano, ex Ambasciatore italiano in vari paesi del mondo, nella conversazione con M. Sclavi che introduce il libro, Costruire una pace. Per imparare a non credere nella fatalità delle guerre, Consensus Building Institute (CBI), Bruno Mondadori, Milano, 2007. Ma data la novità di questo approccio rispetto ai tradizionali canoni storiografici, credo sia giusto dire qualche cosa di più sul significato ed i metodi di questa “storia controfattuale”. Galtung, come accennato, la collega alla terapia del passato ponendosi il problema: “quand’è che è successo qualcosa di sbagliato, e che cosa si sarebbe potuto fare in quel momento critico?. L’idea generale sarebbe di esplorare il passato in termini prescrittivi, come una storia controfattuale”, una “storia nel modo congiuntivo”, una “storia come se”, mettendoci al di sopra della storia, anziché permettere alla storia di mettersi al di sopra di noi. Dopo di che sarebbe raccomandabile una qualche prognosi: “Data la situazione attuale, cosa pensi che accadrà?”. Al che potrebbe seguire una diagnosi: perché le cose stanno così?”. E infine:” bene, come possiamo uscire da questo pantano ?”; o modi più elaborati di far emergere suggerimenti terapeutici” (op. cit., p. 114). E l’ex ambasciatore Sergio Romano, nella sua conversazione con Marianella Sclavi, dice: ”la storiografia angloamericana a partire dagli anni ottanta produce un genere nuovo che è la “storiografia controfattuale”, virtuale, che è la storia fatta con i se e tuttavia molto documentata e scientifica”. E Romano, dopo aver citato alcune ricerche storiche che hanno seguito questa metodologia, dice: Penso che queste ricerche e attività che ruotano attorno…..alla storia virtuale siano stimolanti e sempre più necessarie ai giovani d’oggi, perché allargano l’immaginazione e soprattutto inducono la gente a non credere nella fatalità delle conclusioni” (op. cit. pp. 6-7).
15 Ma secondo Galtung , che come abbiamo visto è stato allievo di Arne Naess, il fondatore dell’ecologia profonda, la ”pace positiva” richiede il superamento dell’ economia attuale (che egli chiama “economia di morte”) per dar vita invece ad una “economia vivente” che abbia, come obbiettivo principale, non il mercato ed i profitti, ma la soddisfazione dei bisogni umani di base delle persone più svantaggiate (introd. di Fischer, p. 11).
16 Si veda il suo manuale nelle due versioni elaborate, e pubblicate anche in Italia: La trasformazione dei conflitti con mezzi pacifici: il Metodo Transcend, 2006; 2010.
17 Si vedano gli atti di quella conferenza, curati da Matteo Soccio, La prevenzione dei conflitti armati e la formazione dei corpi civili di pace, pubblicati dalla Casa per la Pace di Vicenza, 2013, e distribuiti dalla Rivista “Azione Nonviolenta”, alle pp. 107-118.
18 Secondo i dati pubblicati da Stiglitz, premio Nobel per l’Economia, sono di oltre 3.000 miliardi di dollari (si veda J. Stiglitz, L. Bilmes, The Three Trillion Dollar War, W. W. Norton & Co. , New York, 2008)
19 Si veda, di D. Fischer, “On the relative cost of mediation and military intervention “, in, The Economics of Peace and Security Journal, www.epsjournal.ork.uk , vol. 1, n.2, 2006. In questo saggio egli sottolinea come, a livello internazionale, nell’International Peace Academy, affiliata alle Nazioni Unite, che si occupa di questo tipo di problemi, operassero, in quella data, solo 3 mediatori specializzati, mentre erano in atto nel mondo centinaia di conflitti che avrebbero necessitato di essere mediati. Al contrario nelle organizzazioni internazionali che si occupavano di problemi economici c’erano migliaia di professionisti. Ad esempio nella World Bank ve ne erano all’incirca 11.000. Per questo egli proponeva l’organizzazione di una Agenzia apposita delle Nazioni Unite con qualche migliaia di specialisti in mediazione. Dello stesso autore si veda anche , “The Economics of War and Peace, Overview”, in , Encyclopedia of Violence, Peace and Conflict, a cura di, L. Kurtz, Academic Press, San Diego, California, II ediz., 2008. Quest’ultimo testo è stato anche tradotto in italiano e pubblicato nella documentazione allegata al volume degli atti del convegno di Vicenza, a cura di M. Soccio, citato, alle pp. 138-154.
20 Galtung, nel suo intervento a Vicenza, già citato, ha sostenuto che dei circa 100 conflitti nel quale si è trovato, o è stato chiamato, a mediare, 20 hanno avuto risultati positivi, negli altri 80 i risultati sono stati per lo meno soddisfacenti. Si veda, su questo, anche il suo libro, 50 Years: 100 Peace and Conflicts Perspectives, Transcend University Press, Basel, 2008. Nel libro curato da Fischer, oltre a quella citata, si accenna a varie di queste attività di mediazione di Galtung: in particolare quella, ancora da giovane in USA, tra Ku Klux Klan e persone di colore da loro perseguitate, oppure, Irlanda del Nord, conflitto Indo-Pakistano sul Kashmir, Korea nel conflitto tra Nord e Sud, Serbia nella lotta nonviolenta contro Milosevic, conflitto tra paesi mussulmani e la Danimarca a causa della pubblicazione di vignette considerate dai primi blasfeme.
21 Si veda, oltre al saggio di Galtung (n. 16) riprodotto in questo libro, si veda anche, sempre di J. Galtung, The Fall of the US Empire – And Then What?, Transcend University Press, Basel, 2009.
22 Personalmente ho utilizzato questa teoria nelle mie ricerche, ma in modo molto diverso da quello accennato da Fischer, e cioè non a livello collettivo, come nei casi analizzati da Galtung , ma a livello familiare, e cioè nei rapporti tra marito e moglie. Facendo infatti ricerche sui giovani e la pace abbiamo calcolato il loro “ indice di alienazione“ mettendolo in confronto con un “indice di impegno”, e correlandoli ambedue con lo squilibrio culturale tra marito e moglie, dividendoli in tre categorie a seconda che il padre abbia un titolo di studio superiore, uguale, o inferiore a quello della madre. Dalla ricerca risulta che gli studenti più impegnati (e meno alienati) sono quelli che hanno la madre con titolo superiore a quello del padre, mentre il contrario avviene per quelli che hanno invece il padre con titolo di studio superiore. Questo conferma il risultato di tante ricerche che mostrano come le donne siano, in generale, più pacifiste degli uomini, e come, quando hanno un titolo di studio superiore ai loro mariti, riescano più facilmente a trasmettere il loro impegno anche ai figli. Per la costruzione degli indici, e l’illustrazione di questi andamenti si veda il libro da me curato, Giovani e Pace. Ricerche e Formazione per un Futuro meno violento, Pangea Ediz., Torino, 2001, pp. 91-94.
23 Il concetto di discriminazione positiva può servire a comprendere meglio anche l’impostazione pedagogica di Don Lorenzo Milani. Egli infatti, pur non conoscendo questa teoria di Galtung, ha scelto di educare i giovani delle classi povere, in particolare i figli di contadini e di operai, non mescolandoli con gli altri (come invece facevano gli altri pedagogisti, anche di sinistra) proprio per poter dar loro gli strumenti culturali che possano servirgli per non essere sopraffatti dai figli dei ricchi che hanno invece un ambiente familiare molto più favorevole. Si veda il famoso libretto, che utilizza il metodo della scrittura collettiva, di cui Don Milani è stato un grande maestro, Scuola di Barbiana, Lettera ad una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 1976.
24 Questo premio viene chiamato il “Right Livelihood Award” e viene assegnato ogni anno, nel Parlamento Svedese, il 9 dicembre, alla vigilia dell’assegnazione del Premio Nobel per la Pace. Il premio serve ad onorare coloro che lavorano a soluzioni pratiche ed esemplari dei problemi più urgenti del mondo.
25 Due sole frasi di Galtung per chiarire l’importanza di questa attività: 1) “La strada alta, la strada del giornalismo di pace, dovrebbe mettere a fuoco la trasformazione del conflitto. I conflitti dovrebbero essere visti come una sfida per il mondo, come, ad esempio, l’esistenza di 2000 nazioni che desiderano avere uno stato-nazione in un mondo con solo 200 paesi, e solo 20 stati-nazione. Dal momento che i popoli, i gruppi, i paesi, ed i gruppi di paesi sembrano voler ostacolare la strada di ciascuno degli altri (è questo sul quale si basa il conflitto) c’ è un chiaro rischio di violenza. Ma nel conflitto c’è anche una chiara opportunità per il progresso umano, usando il conflitto per trovare strade nuove, essendo immaginativi, creativi, trasformando il conflitto in modo che le opportunità vengano in primo piano. Senza violenza” (p. 76); 2) “Il giornalismo di pace cerca di depolarizzare [il conflitto] mostrando il nero ed il bianco di tutte le parti, e descalarlo mettendo in luce la risoluzione della pace e del conflitto almeno altrettanto della violenza. E come si può vedere se questo ha successo. Il cambiare discorso all’interno del quale si pensa, si parla e si agisce è un approccio molto potente” (p. 77).
26 Due saggi del libro trattano di questo tema. Anche qui solo due citazioni che servano a chiarire un poco di più l’importanza della della lettura dell’intero libro: 1) “Perciò la chiave per una transizione da un 20mo secolo di guerra ad un 21mo secolo di pace si può trovare in una transizione dallo stato al non-stato come punto di gravità della politica mondiale, come è successo per molto tempo, in molti paesi, per la politica domestica. La gente vive nella sua comunità, si collega attraverso le proprie organizzazioni (comprese le famiglie)- in breve, la società civile. Lo stato provvede e protegge la messa in opera che renda possibile questo. Ma lo stato perderà gradualmente il suo peso, e non perché non “è più necessario per proteggere il capitalismo” ma perché ha raggiunto il suo livello di assurdità dal momento che è diventato più una minaccia che un beneficio per la maggior parte delle persone ….La politica mondiale dovrebbe essere nelle mani di attori più interessati alla pace, e meno capaci di dar vita a guerre…. ma non aspettatevi troppo, procedete lentamente, date vita ad iniziative parziali, per prima cosa a zone regionali di pace”(p. 88 e segg.); 2) E sulle azioni per abolire la guerra dalla storia dell’umanità scrive Galtung : “a) delegittimando la guerra come strumento, anche se i fini sono legittimi; b) attraverso il controllo delle armi, togliendo il loro puntamento/ non schierandole, disarmando; c) criticando le regole di guerra, la cultura profonda e le strutture di guerra; d) mettendo a fuoco i costi della violenza visibili ed invisibili; e) attraverso una forte mobilitazione della mediazione e della conciliazione; f) migliorando le regole della pace e la cultura profonda e le strutture di pace; g) mettendo a fuoco i benefici, visibili ed invisibili, della pace” (p. 130).
27 Si veda, su questo, la bella relazione di Gianni Alioti, sindacalista della CISL che da anni si occupa di questi temi, ad un convegno di Pax Christi a Bologna, nel quale si dimostra che i nostri militari mistificano i dati delle nostre spese militari, dividendo le loro spese tra vari ministeri, compreso quello di sviluppo economico, e sostenendo perciò che le nostre spese militari sono inferiori a quelle degli altri paesi europei, insistendo perciò a non farle tagliare. Questo, sostiene Alioti (che dimostra anche la falsità dei numeri di occupati che la partecipazione italiana al progetto degli aerei F35 porterebbe al nostro paese), non risulta per niente vero perché le nostre spese militari, pro capite, sono superiori a quelle della Spagna e della Germania, e di moltissimi altri paesi europei. Si veda di G. Alioti, “Crisi economica e spese militari”, relazione al convegno, Per una difesa senza armi: proposte politiche programmatiche, Bologna, 27 ottobre 2012, nel sito di Pax Christi, Bologna. Anche Andreis, in un convegno di qualche anno fa, dimostra come questa tendenza dei militari italiani alla mistificazione dei dati sia di lunga data tanto che sia la Nato che il SIPRI (il Centro studi svedese specializzato nell’analisi delle spese militari mondiali) non accettano i dati ufficiali dei nostri militari e li correggono. Dal 1999 al 2007 risulta infatti che i nostri militari parlano di una di spesa media dello 0,87 rispetto al PIL, mentre la Nato ce ne attribuisce lo 1,8%, ed il SIPRI addirittura il 2,0%. Di S. Andreis si veda , “La spesa militare italiana”, in Disarmare il territorio: atti del convegno di Brescia, 21,22 Aprile 2007, nella rivista, Guerre & Pace, giugno-luglio 2007, p. 9.
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