Valeria Zanier, Gaia Perini: Tradire il Grande Fratello. Sguardo sul femminismo cinese contemporaneo in dialogo con Leta Hong Fincher
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Valeria Zanier e Gaia Perini
Tradire il Grande Fratello a Bologna: uno sguardo sul femminismo cinese contemporaneo in dialogo con la giornalista e sinologa Leta Hong Fincher
Nei giorni 8 e 9 ottobre il Dipartimento di Lingue, Letterature e Culture Moderne (LILEC) dell’Università di Bologna ha ospitato Leta Hong Fincher, giornalista, attivista e studiosa del femminismo cinese, nonché ResearchAssociate al Weatherhead East Asia Institute della Columbia University. La permanenza a Bologna è stata possibile grazie al supporto del Master inter-universitario GEMMA (Curriculum Women’s and Gender Studies – Studi di Genere e delle Donne).
Leta ha generosamente condiviso i risultati delle sue ricerche sull’attivismo femminista e sul movimento #MeToo in Cina in due incontri: un seminario dedicato agli studenti del LILEC e una presentazione aperta al pubblico. Nel seminario, all’interno del corso magistrale The revision of the body in women’s literature, sono intervenuti la direttrice del LILEC Paola Scrolavezza, il docente titolare del corso Francesco Cattani e Valeria Zanier, docente di Lingua e letteratura cinese.
L’incontro con il pubblico si è tenuto presso la Biblioteca Amilcar Cabral. In questa occasione, Leta ha avuto modo di presentare il suo ultimo libro Tradire il Grande Fratello. Il risveglio femminista in Cina (recentemente pubblicato in versione italiana da add). La presentazione è stata coordinata da Valeria Zanier e Gaia Perini, esperta di letteratura cinese e assegnista di ricerca presso il LILEC.
Nel corso dei due incontri, Leta ha trasportato la platea in un viaggio nel tempo e nello spazio, che inizia nell’ormai lontano 2015, quando, alla vigilia dell’8 marzo, cinque giovani donne intenzionate a distribuire sui mezzi pubblici degli adesivi contro le molestie sessuali vengono fermate dalla polizia e portate in carcere. Le cinque – divenute note al resto del mondo con il nome di Feminist Five – furono rinchiuse e interrogate per quasi quaranta giorni, con l’accusa di essere delle “attaccabrighe fomentatrici di disordini”, una formula tanto vaga quanto potenzialmente fatale, che avrebbe potuto trasformare la loro prigionia in un incubo ancor più lungo, se non fosse stato per le proteste dell’opinione pubblica, cinese e internazionale.
Il Partito Comunista Cinese sembra difatti dimenticarsi regolarmente di quel principio che un secolo fa esso stesso aveva promosso, ossia che “la resistenza nasce proprio dove c’è la repressione” (nar you yapo, nar you fankang): la detenzione arbitraria, gli interrogatori orwelliani, gli abusi psicologici e fisici non solo non hanno intaccato le convinzioni politiche delle cinque, ma anzi hanno finito per sortire l’effetto opposto a quello voluto, provocando una fiammata di consapevolezza femminista in tutto il paese. Lo dimostra il movimento #MeToo, sorto da lì a poco, che si è diffuso a macchia di leopardo grazie al passaparola e soprattutto grazie a internet. Per aggirare la censura, l’hashtag del movimento è stato tradotto foneticamente servendosi dei caratteri di “riso” e di “coniglio” e il #coniglio-di-riso, con la frivolezza tattica tipica del femminismo, si è messo a saltellare indisturbato in rete, dando voce alla rabbia, ma anche alla forza della sorellanza.
Per comprendere appieno la rilevanza dell’opera di Leta come attivista femminista e divulgatrice, occorre fare una riflessione sui cambiamenti che l’apertura all’economia di mercato ha portato in Cina. Pur se non ci sono state modifiche del sistema politico, le riforme di Deng Xiaoping iniziate alla fine degli anni ‘70 hanno portato il partito comunista a cercare fonti di legittimità al di fuori dell’ideologia socialista. Lo stato ha incoraggiato la diffusione dei valori del consumismo e dell’individualismo nella società, richiamando come elementi unificatori e identitari quegli ideali confuciani, che erano stati messi al bando da Mao Zedong. Ciò ha favorito il ritorno di un atteggiamento misogino diffuso. Abbracciando l’invito ad interessarsi della sfera privata, le donne hanno potuto esprimere la propria femminilità, repressa negli anni di Mao, ma si sono però trovate a confrontarsi con una società meno sensibile alle istanze di liberazione, che erano state integrate nel percorso rivoluzionario.
Già nel pionieristico saggio Leftover Women. The Resurgence of Gender Inequality in China (2014), Leta aveva colto in pieno le ripercussioni di questa trasformazione, che aveva di fatto sancito una pesante disparità di genere nel mondo del lavoro e una divisione dei ruoli femminili e maschili nella famiglia. Le donne, collocate nella sfera riproduttiva e di cura dei bambini e degli anziani, sentivano grande pressione per sposarsi e mettere al mondo figli, al punto che, per coloro che non riuscivano a realizzarsi come mogli e madri prima di compiere trent’anni era stato coniato il termine dispregiativo shengnu (traducibile come “leftover women” o “donne avanzo”).
Le studentesse e gli studenti che hanno partecipato al seminario hanno espresso un vivo interesse per le origini del femminismo cinese. Tra le intellettuali cinesi, che hanno dato vita alle prime riflessioni, le più note sono He-Yin Zhen (1884-1920) e Qiu Jin (1875-1907), che portarono avanti un percorso molto originale, indipendente dal femminismo occidentale. Entrambe vissero il periodo finale dell’ultima dinastia imperiale cinese, He-Yin Zhen vide anche i primi anni della Cina repubblicana (dopo la rivoluzione Xinhai del 1911). Entrambe contribuirono al grande cambiamento culturale che investì la Cina in quel periodo, non solo come intellettuali teoriche, ma anche come attiviste che si batterono per una Cina indipendente dall’occupazione straniera e per una società più equa. Qiu Jin si impegnò nella pubblicazione e nella diffusione diretta delle istanze femministe per stimolare l’autoconsapevolezza nelle donne meno istruite. He-Yin Zhen può essere meglio inquadrata come anarco-femminista. Entrambe osteggiarono la concezione patriarcale confuciana, che non solo vedeva la donna come sottomessa all’uomo, ma permetteva il concubinato, che ha consolidato l’idea della donna come proprietà privata.[1]
Le femministe del primo Novecento possono essere considerate una fonte di ispirazione per le giovani cinesi del XXI secolo? In realtà queste donne, pur avendo svolto un ruolo chiave per l’emancipazione femminile, non sono affatto conosciute nel loro paese. Come altri intellettuali e rivoluzionari cinesi dell’epoca, Qiu Jin e He-Yin Zhen non avevano vita facile nella Cina imperiale e vissero diversi anni da esiliate in Giappone. Qui l’ambiente era molto più favorevole alle idee progressiste. In seguito, dopo l’instaurazione della Repubblica Popolare Cinese nel 1949, il partito tagliò molti legami con la storia della prima repubblica, poiché collegata al successo del rivale partito nazionalista. Questo spiega l’oblio che avvolse le prime riflessioni femministe cinesi e la cesura che ancora oggi si avverte.
Similmente a quanto avveniva nel tardo periodo imperiale, anche oggi una parte considerevole dei movimenti cinesi viene organizzato grazie alla dimensione transnazionale. Studenti, accademici, intellettuali hanno la possibilità di incontrarsi fuori dalla Cina continentale: negli Stati Uniti, a Hong Kong, a Taiwan. Negli ultimi anni, l’isola di Taiwan è diventata il luogo d’incontro preferito per le femministe cinesi, grazie all’atmosfera aperta e all’ambiente progressista particolarmente favorevole non solo nei confronti dell’emancipazione femminile, ma anche delle istanze delle comunità LGBTQ.
All’incontro tenutosi alla Biblioteca Cabral, il pubblico ha chiesto a Leta perché mai il governo cinese avrebbe avuto così paura di cinque giovani che distribuiscono degli adesivi in autobus ed anche chi è e cosa rappresenta, in definitiva, il Grande Fratello del titolo. Questa domanda ha permesso alla studiosa di fare il punto della situazione sullo stato di salute dell’attivismo cinese. Nella Cina odierna i cittadini sono oggetto di un controllo capillare ed è diffusa l’autocensura. Questo ci fa percepire il paese come estremamente immobile e cupo. In contrasto con quest’atmosfera negativa, Leta ha coraggiosamente evocato la parola “speranza”. Nel novembre del 2022 si è verificata la più grande protesta anti-governativa dai tempi della manifestazione di piazza Tian’an men del 1989. La scintilla era stato un incendio scoppiato in un quartiere di Urumqi, il capoluogo dello Xinjiang, nel quale erano morte diverse persone, tra cui bambini. La provincia di Xinjiang, situata nel nord-ovest del paese, è da anni tristemente famosa per gli abusi contro la popolazione musulmana. In tale occasione, molte persone incolparono dell’incendio il rigido confinamento imposto dal governo per la politica “zero covid”. Le persone scesero in piazza in tante città. In prima fila, tante donne marciarono sfidando la polizia, spesso mostrando fogli bianchi per denunciare la censura, senza paura di essere colpite o arrestate. Perché tante donne? Una lettura condivisa da tanti sui social collegò la grande presenza di donne all’aumento delle violenze domestiche che si era registrato nei tre anni di severi lockdown.
La folla scesa in piazza raggiunse l’obiettivo e il governo abbandonò la politica “zero covid”. È giusto, quindi, parlare di “speranza” in Cina. Si può e si deve continuare a cercare forme alternative di resistenza.
Infine, in entrambi gli incontri la studiosa ha dedicato ampio spazio ad illustrare come il corpo delle donne sia da considerarsi un sito fondamentale per i dispositivi di potere e di controllo. Il paternalismo autoritario di Xi Jinping si regge su un modello di famiglia patriarcale in cui la maternità è un obbligo, per cui non si può lasciar spazio al dissenso su un punto così decisivo. Tra il 2013 e il 2015 una delle politiche più controverse della storia della Cina contemporanea – la politica del figlio unico – è stata gradualmente abbandonata. Dunque, la Cina ha rinunciato all’intervento sulla popolazione adottando al suo posto una politica demografica liberale? In realtà non è proprio così. Il governo cinese ha rinnovato il suo interesse a ‘gestire’ la vita delle famiglie e il corpo delle donne, persino aumentando le misure per aumentare il tasso di natalità e vincere la sfida contro il rapido invecchiamento e la diminuzione della forza lavoro. Nel 2021 è stata lanciata la “politica dei tre figli”. Malgrado ciò, il desiderato aumento delle nascite non si è verificato. E sono proprio le donne cinesi, in coppia o no, a non sentirsi sufficientemente motivate a fare figli. Un recente sondaggio ha mostrato che il 30,5% dei giovani tra i diciotto e i ventisei anni residenti in aree urbane non crede nel matrimonio. Di questi, il 73,4% è di sesso femminile. Concorrono in queste decisioni la consapevolezza dei sacrifici lavorativi e personali che metter su famiglia comporta. Oltre al gravoso impegno economico per far studiare i figli, influiscono le insicurezze sulla crescita economica e la percezione diffusa delle condizioni di precarietà nel mondo del lavoro.
La decisione di non fare figli può dunque essere letta come un’azione estrema di resistenza da parte delle donne cinesi, una delle rare forme di dissenso che l’attuale governo cinese non riesce a bloccare. È una protesta silenziosa, ma potente, e sta fortificando le sue radici grazie a riferimenti culturali, che alimentano e aiutano ad articolare una nuova riflessione femminista. Uno dei personaggi più influenti per le giovani cinesi è, infatti, Ueno Chizuko. L’anziana professoressa giapponese è diventata molto famosa in Cina per la sua aperta denuncia della misoginia diffusa nella società giapponese e della pressione sociale sulle donne. Le sue fan hanno dichiarato di considerare Ueno un modello per la sua scelta di non sposarsi e di non avere figli. Alla luce di queste considerazioni, la condizione della donna in Cina emerge con un sempre più marcato carattere globale. Come scrive Leta nell’introduzione del suo libro, “nel mondo, quasi una donna su cinque – in totale, oltre 650 milioni – vive in Cina” e le scelte riproduttive delle donne cinesi hanno un impatto immediato sulla demografia mondiale, oltre che sulla stabilità del paese.
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Valeria Zanier è professoressa associata di Lingua e Letteratura cinese presso il Dipartimento di Lingue, Letterature e Culture Moderne (LILEC) dell’Università di Bologna. I suoi interessi di ricerca si concentrano sulla Storia economica e sociale della Cina in epoca contemporanea e, più precisamente, sul ruolo transnazionale della Cina nel secondo dopoguerra. In precedenza, ha insegnato a Ca’ Foscari e alla Katholieke Universiteit Leuven, Belgio ed è stata Ricercatrice Marie Curie Senior presso il Dipartimento di Storia Internazionale alla London School of Economics and Political Sciences dove ha portato avanti uno studio sull’evoluzione delle reti commerciali, delle infrastrutture capitalistiche e degli attori commerciali tra Cina ed Europa Occidentale negli anni della Guerra Fredda.
È autrice di numerosi libri e articoli, tra cui: Dal grande esperimento alla società armoniosa trent’anni di riforme economiche per costruire una nuova Cina, Milano, Franco Angeli, 2010; Europe and China in the Cold War: Exchanges Beyond the Bloc Logic and the Sino-soviet Split (con Marco Wyss e Janick Marina Schaufelbuehl), Leiden, Brill, 2018.
Gaia Perini è assegnista di ricerca e docente a contratto di letteratura cinese al Dipartimento di Lingue, Letterature e Culture Moderne all’Università di Bologna. Attualmente lavora al progetto di ricerca “Narrare la Cina postsocialista: lavoro, memoria, precarietà”, incentrato sulle riforme degli anni ’90 viste attraverso la lente della letteratura. Interessata al legame fra la storia del Novecento cinese e le opere letterarie, si è occupata di Ba Jin e Lu Xun; ha tradotto “Impero o Stato-nazione? La modernità intellettuale in Cina” dello storico del pensiero Wang Hui. Studia inoltre il femminismo cinese.
[1]Di He-Yin Zhen è stata recentemente pubblicata una selezione di articoli a cura della sinologa Cristina Manzone. Il tuono dell’anarchia, D editore, 2023.
Category: Osservatorio Cina