Umberto Bresciani: Per forza che Confucio doveva tornare. Ritorno a Confucio/10
Prosegue con questo intervento di Umberto Bresciani (Docente alla Università Cattolica Fujen di Taipei, Taiwan) il dibattito a cura di Amina Crisma sul libro di Maurizio Scarpari, Ritorno a Confucio. I precedenti interventi di Marco Fumian, Ester Bianchi, Attilio Andreini, Giangiorgio Pasqualotto, Paola Paderni, Luigi Moccia, Ignazio Musu e Guido Samarani sono stati pubblicati nella rubrica “Osservatorio Cina” di questa rivista .
Ho letto con estremo interesse i vari interventi del dibattito di Inchiesta Online sul “ritorno a Confucio.” Tra le righe ho anche potuto capire quanto il nuovo libro del prof. Scarpari sia stimolante. Mi riprometto di leggerlo appena possibile; ma nel frattempo mi sono sentito spinto ad esprimere io stesso la mia opinione in proposito con questo articoletto, forse troppo autobiografico.
A dire il vero, già ventanni fa io ero convinto che Confucio sarebbe tornato ad avere un ruolo nella Cina contemporanea, anzi che il suo ritorno fosse già in atto, sia pure gradualmente. Proprio perché spinto da tale convinzione mi ero messo a lavorare sodo per scrivere un libro sui Nuovi Confuciani, coloro che sono stati gli artefici o per lo meno gli ispiratori di questo ritorno.
A questa convinzione ero arrivato gradualmente, a partire dall’anno 1972, quando presi la strana decisione di iscrivermi alla National Taiwan University, Dipartimento di Lettere Cinesi, con l’intenzione di ottenere un M.A. La mia vera intenzione era di riuscire a capire a fondo la cultura cinese, perché dopo tre anni di full immersion linguistica e molte letture diversificate mi trovavo davvero ancora in alto mare.
Durante il triennio di studi per il M.A., frequentavo assiduamente le lezioni, anche se il mio cinese soffriva ancora di limitazioni. I miei professori erano quasi tutti rifugiati dalla Cina. Diversi di loro erano stati docenti della Beijing University. Nel 1949, trovandosi all’opposto degli ideali politici di Mao Zedong, avevano trovato il modo di fuggire e di rifugiarsi a Taiwan. Il governo di Taiwan era piuttosto autoritario e le attività politiche erano limitate, comprensibile per un’isoletta assediata da tanti nemici esterni e interni. Negli studi universitari comunque si respirava un’aria di discreta libertà. Il maoismo era tabù; per il resto si poteva parlare di tutto. I docenti non erano neanche decisamente conservatori; direi che prevalesse la linea liberale dei seguaci di Hu Shi (1891-1962).
Ricordo un corso sul Libro dei Riti, insegnato dal prof. Kong Decheng, discendente ufficiale di Confucio nella 76esima generazione, una persona molto seria, ma dimessa e gentile. E poi il prof. Mao Zishui, studioso ed esegeta di fama, che vestiva ancora la tonaca del letterato dell’800. Nonostante fosse vicino ai novanta, era estremamente arzillo. Sapendo della mia presenza, un giorno si mise a mettere a confronto Mao Zedong e Mussolini. Notava che entrambi avevano frequentato il liceo magistrale e poi si erano buttati nell’attività politica e che entrambi erano appassionati di storia antica.
Altre cose che il prof. Mao diceva superavano le mie capacità linguistiche, nonostante parlasse un buon cinese mandarino, seppure molto svelto. Se avesse parlato con l’accento della sua regione (Zhejiang), sarei rimasto spiazzato del tutto. A volte, notando un segno di perplessità su qualche volto, si alzava dalla sedia e saltava alla lavagna, dove scriveva a velocità supersonica qualche citazione antica. Purtroppo la sua scrittura era talmente corsiva, che io, e forse non solo io, riuscivo a decifrare ben poco.
Allora io pensavo che il prof. Mao – che non era neanche lontano parente di Mao Zedong – si permettesse di parlarne così apertamente in forza della sua età. Solo qualche anno più tardi venni a sapere che nel 1918 Mao Zedong aveva finito il liceo a Changsha e con alcuni compagni se n’era andato a Beijing, approfittando del fatto che il suo preside di Changsha, Yang Changji (1871-1920), aveva trovato lavoro alla Beijing University. Mao Zedong sperava di poter passare l’esame di ammissione all’università. Trovò un lavoretto come aiutante in biblioteca e per un periodo abitò proprio in casa del prof. Mao Zishui, vecchio amico di Yang Changji. In cambio dell’alloggio gratuito doveva fare qualche servizietto in casa, come portare il tè agli ospiti. Alla fine, frustrato, non riuscendo in alcun modo ad entrare alla Beijing University, Mao Zedong se n’era tornato nello Hunan per cercare altre strade, portando con sè verso docenti e studiosi in generale una buona dose di rabbia, che si manifestò più tardi nelle ripetute purghe degli intellettuali e nelle sue famose ramanzine anche a studiosi di fama come Liang Shuming.
A un certo punto dovevo scegliere l’argomento della tesi per il mio M.A. Ovviamente non cercai nessun argomento che avesse a che fare con il confucianesimo, essendo io convinto come tutti a quel tempo che il confucianesimo fosse una cosa di poco conto e ormai relegata nel passato. Scelsi per la mia tesi di studiare Mozi, il filosofo dell’amore universale, pensando che fosse l’unica cosa ancora valida nella millenaria tradizione culturale della Cina. Per di più si prestava a qualche confronto con la religione cristiana del mondo occidentale.
All’esame della tesi, alle presenza di tre docenti esaminatori, fui promosso. Al momento di accomiatarsi, uno dei tre mi strinse calorosamente la mano, congratulandosi con me per l’impegno dimostrato e aggiungendo: “Se però vuoi capire la cultura cinese, devi cominciare a conoscere il confucianesimo.” Questo mi stimolò non poco a proseguire gli studi per il Ph.D., e ad osservare più da vicino il confucianesimo.
E così continuai gli studi, sia pure part time e quindi un po’ a scoppio ritardato, perché dovevo anche lavorare. Nel frattempo il mio cinese era migliorato e alle lezioni capivo ormai quasi tutto. Allora cominciai a rendermi conto che Confucio, in modo esplicito o implicito, entrava sempre nei discorsi dei docenti. Cominciai a pensare che il suo ruolo doveva essere fondamentale nella cultura. Alla fine dei corsi, e specialmente dopo il lavoro della tesi dottorale, ne avevo un’idea ancora più chiara. Ormai avevo afferrato che Confucio era la figura cardine della cultura cinese, anche se certi aspetti del suo pensiero mi risultavano ancora difficili da penetrare. Cominciavo a fare mentalmente dei raffronti. Mi veniva da pensare che, se vogliamo prendere l’esempio dalla cultura dell’Europa, per capire bene l’importanza di Confucio nella tradizione culturale della Cina, bisogna dire che occupa il posto di Socrate-Platone e di Gesù Cristo (Vangelo).
Al momento di scegliere un argomento per la tesi del dottorato, questa volta decisi di studiare Zhang Xuecheng (1738-1801), un personaggio del ‘700 che parlava di filosofia della storia ed è stato perfino paragonato a Giambattista Vico. La filosofia della storia era un argomento che mi piaceva. Inutile precisare che Confucio era anche alla base del pensiero di Zhang Xuecheng. Studiando gli scritti di questo pensatore, mi convinsi definitivamente che Confucio era il nome unificante di tutta la storia e la cultura ufficiale della Cina, almeno per gli ultimi due millenni.
Come possibile eliminare d’un colpo tutta una tradizione culturale? In Europa ci si provarono i giacobini durante la Rivoluzione Francese, ma il tentativo durò pochi anni. Mao Zedong si era riproposto di rifare i cinesi dalle fondamenta. Non solo proibì di studiare Confucio (o meglio, si poteva studiarlo però solo per criticarlo), ma cercò di sostituire il posto di Confucio nel cuore dei cinesi con il culto alla sua persona. A questo scopo pubblicò e distribuì a tutti il suo libretto rosso. Da tanti secoli i cinesi studiavano a memoria i detti di Confucio; d’ora in poi dovevano studiare a memoria i detti di Mao.
Gli anni di Mao appartengono a un passato ormai lontano. Attualmente in Cina sia i governanti che gli intellettuali fanno a gara a citare e a lodare Confucio. Bisogna però sottolineare che i due schieramenti partono da due prospettive diverse, hanno un ordine del giorno diverso. Il governo è selettivo, ovviamente utilizza Confucio per i suoi scopi. Una cosa che interessa principalmente al governo è di offrire alla società dei valori. Nel vuoto di valori morali e sociali causato dal tramonto degli ideali rivoluzionari, gli insegnamenti di Confucio vengono a coprire un bisogno. Millenni di storia sono a provare che il confucianesimo con i suoi insegnamenti è un fattore importante di coesione sociale, quindi molto utile all’ordine e alla pace nella società.
I governanti inoltre hanno bisogno di giustificare la loro presenza al potere, e lo fanno sfruttando il nazionalismo delle masse. I cinesi da un secolo a questa parte sono divenuti molto nazionalisti. Il governo non può non tenerne conto e si fa lui paladino della cultura cinese. Ora che il loro paese ha già una posizione di rispetto nel consesso mondiale, e che si vive nell’era globalizzata delle culture e religioni contrapposte, i cinesi devono poter presentare al mondo la propria identità culturale. Non possono certo presentare il marxismo, merce di recente importazione. Questo è un altro motivo, altrettanto importante, per cui i governanti attuali si fanno paladini della tradizione culturale della nazione, imperniata sul confucianesimo.
I confuciani odierni si trovano fra i docenti e gli studenti universitari, ma anche fra gli imprenditori e gli ufficiali governativi e perfino fra i membri del partito. Loro cercano invece di riscoprire e di seguire Confucio, cioè di trovarvi l’ispirazione per la vita di oggi. Ma non sono organizzati e non ci sono statistiche, anche se si percepisce che sono legioni. Le frequenti citazioni da Confucio nei discorsi di Xi Jinping li mettono in imbarazzo, perché per loro diventa difficile decidere come comportarsi. L’esperienza storica di lunghi secoli insegna loro che il potere facilmente manipola gli intellettuali e gli fa dire quello che vuole lui. È famoso il detto di Yu Yingshi che l’alleanza con il potere è per gli intellettuali come “il bacio della morte”.
Fra le varie tendenze che si notano attualmente fra i confuciani, si trovano quelli che temono l’alleanza con il governo e cercano di tenersene a distanza. Ci sono poi quelli che in un modo o nell’altro cercano di combinare le due realtà ideologiche (confucianesimo e comunismo); ed ecco che si incontrano dei teorici del ‘socialismo confuciano’, oppure del ‘confucianesimo marxista’. Infine ci sono quelli che sognano di poter riportare Confucio al prestigio che godeva nei secoli delle dinastie. In alternativa al confucianesimo portato dai filosofi di Taiwan o di Hong Kong, troppo ‘filosofico’ e ‘spirituale’, e anche un po’ inficiato di valori occidentali (democrazia), questi ultimi lottano per il trionfo di un ‘confucianesimo politico’, che si ispiri ai metodi politici della dinastia Han debitamente aggiornati al presente. Questi non esitano a sostenere che il confucianesimo deve arrivare a diventare religione di stato. Notare che questi ultimi, sebbene dichiaratamente antimarxisti, hanno qualcosa d’importante in comune con i traguardi della politica governativa, in quanto la premessa in entrambi i casi è di riuscire a costruire il futuro della Cina senza dover ricorrere alle teorie filosofiche e politiche del mondo occidentale.
Osservando nell’insieme la lunga storia della Cina, si può facilmente riscontrare che il confucianesimo ha attraversato altri momenti molto difficili, non meno bui di quanto lo sia stato il secolo ventesimo. In tutti i casi alla fine gradualmente quest’antica dottrina è tornata a rivivere e a far sentire la sua presenza. Per non dire dei ripetuti casi storici di dinastie fondate con le armi da un guerriero o da un bandito – esempi appariscenti sono gli Han e i Ming – e poi gradualmente trasformate in regimi ben organizzati durati vari secoli, con il confucianesimo al posto d’onore. Sempre in chiave di culture comparate, perché non ricorrere all’esempio del cristianesimo nella cultura dell’Europa. In quasi due millenni di storia, quale cristianesimo si è realizzato? Nelle diverse epoche storiche ci sono state svariate versioni o realizzazioni della stessa dottrina-religione. Lo stesso è avvenuto – e si presume continuerà ad avvenire – in Cina per il confucianesimo e le sue realizzazioni pratiche.
Ecco grosso modo le ragioni per cui anch’io ad un certo punto mi ero convinto che il ritorno di Confucio era semplicemente questione di anni o al più di pochi decenni. Ora mi viene da riflettere che Confucio da parte sua non sarebbe stato tanto assillato dalla brama di ritornare in auge fra i suoi cinesi, lui che diceva: “Se è volontà del Cielo, la verità trionferà; se è volontà del Cielo, la verità perirà.“ (XIV, 36) Con ciò non si deve vedere Confucio come un tipo rassegnato, perché lui era tutt’altro che fatalista. Lui amava definirsi “un uomo così dedito allo studio e all’insegnamento che dimentica persino di mangiare; quando scopre qualche verità, la gioia che ne trae è tale che dimentica ogni preoccupazione, e non si accorge neanche dell’avvicinarsi della vecchiaia.” (Dialoghi, VII, 19, traduz. Lippiello leggermente modificata)
Category: Osservatorio Cina, Storia della scienza e filosofia