Maurizio Scarpari: Tianxia, “tutto sotto il cielo”. Pechino si candida all’egemonia
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Pubblichiamo con il consenso dell’autore quest’articolo di Maurizio Scarpari apparso su La Lettura del Corriere della Sera del 16 giugno 2024.
«L’umanità si trova oggi in una fase di grande sviluppo, trasformazioni e aggiustamenti […] che ci portano a condividere uno stesso destino globale nella buona e nella cattiva sorte […]. Si fa sempre più potente lo slancio verso un’epoca di pace e sviluppo, e verso una cooperazione di mutuo vantaggio». Queste parole sono state pronunciate da Xi Jinping il 18 gennaio 2017, nella sede ginevrina delle Nazioni Unite, all’indomani del discorso elogiativo della globalizzazione che egli tenne al World Economic Forum di Davos e a due giorni dall’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca. Nove mesi dopo venne riconfermato per un secondo quinquennio alla guida del partito comunista e del Paese.
Con tutta probabilità non aveva previsto che da lì a poco si sarebbe scatenata un’ondata protezionistica senza precedenti che avrebbe inasprito i rapporti della Cina con gli Stati Uniti e, in misura diversa, con l’Unione Europea e gli altri Paesi democratici. A complicare la situazione hanno inoltre concorso la pandemia, una crisi economica e finanziaria come non si vedeva da decenni, l’aumento della disoccupazione giovanile, il deficit demografico ai minimi storici, la guerra nel cuore dell’Europa e la «amicizia senza limiti… solida come la roccia… duratura» con Vladimir Putin. Non una «alleanza», ma un meno impegnativo «partenariato strategico», considerato da entrambi i leader fattore stabilizzante dell’assetto politico internazionale «che favorisce la pace e la prosperità nel mondo». È il contrario di quanto viene percepito da molti, in un momento in cui sembra prevalere un disordine globale che dall’Europa si propaga al Medio Oriente, dall’Africa – di cui poco si parla nonostante sia diventata sempre più terra di conquista e di massacri, ma anche di lucrosi accordi commerciali e infrastrutturali – all’Indo-Pacifico, dove lo spirito pacifista cinese, spesso invocato come se discendesse da una tradizione storicamente dimostrata, è percepito dai Paesi dell’area con sempre maggiore diffidenza, in un clima di crescente preoccupazione. Va notato che nel 2017 la posizione al vertice e i fondamenti ideologici del pensiero politico di Xi Jinping non erano stati ancora del tutto definiti. Si è dovuto attendere il XX Congresso del partito dell’ottobre 2022 per averne il quadro completo, e cogliere il potenziale «rivoluzionario in grado di trasformare la Cina e il mondo», per usare le parole di Steve Tsang, direttore del China Institute della School of Asian and African Studies dell’Università di Londra, e della sua collaboratrice Olivia Cheung, impareggiabili autori di The Political Thought of Xi Jinping, appena pubblicato da Oxford University Press. Fu in quell’occasione che, in virtù di un emendamento alla carta costituzionale approvato nel 2018, fu eliminato il vincolo dei due mandati, consentendo a Xi di rimanere al potere.
Con il trascorrere dei mesi dall’inizio della «operazione militare speciale» la dichiarata neutralità cinese nel conflitto russo-ucraino si è rivelata sempre meno credibile, apparendo sempre più evidente invece il coinvolgimento e il sostegno ideologico, politico, diplomatico, economico, finanziario e in parte anche militare del governo cinese – e di altri regimi sostenuti dalla Cina accumunati da un sentimento anti-occidentale – all’amico russo, con cui Xi Jinping ha condiviso fin dal 2013 un obiettivo preciso: destabilizzare e depotenziare con ogni mezzo l’Occidente, Stati Uniti innanzi tutto ma non solo, con l’intenzione dichiarata di creare un nuovo ordine mondiale «più giusto ed equo» in cui non esistano nazioni o civiltà privilegiate, modificando a proprio vantaggio l’attuale ordine internazionale liberale o sostituendolo del tutto. Di conseguenza, le relazioni si sono ulteriormente irrigidite, aumentando i rischi di un conflitto armato di dimensione globale.
Presentando al Palais des Nations la dottrina della «comunità umana dal destino condiviso», uno dei tre fondamenti della politica estera cinese della nuova era (essendo gli altri due l’Iniziativa di sviluppo globale e l’Iniziativa per la civilizzazione globale), Xi Jinping prometteva al mondo che il suo Paese non avrebbe mai «perseguito l’egemonia, l’espansione o una sfera di influenza, indipendentemente dal livello di crescita economica che avrebbe raggiunto in futuro», operando piuttosto nel pieno rispetto dei reciproci interessi e per «creare un nuovo modello di relazioni non conflittuali in un’ottica di pace e armonia». Per colmare la distanza tra le parole e i fatti, a garanzia della sincerità dei suoi buoni propositi, Xi si era rifatto a una prassi dialettica ben rodata, chiamando a testimone della sua buona fede la storia passata, secondo una narrazione funzionale allo scopo che, reiterando formulazioni generiche impossibili da dimostrare, intendeva fornire loro una parvenza di plausibilità pur in assenza di ogni riscontro oggettivo. Un’azione mistificatoria che può portare a un’interpretazione distorta della realtà. Sul piano della politica, tale espediente retorico, utilizzato per oltre due millenni in Cina, è definito dagli studiosi cinesi yang ru yin fa «apertamente confuciano, segretamente legista» o rubiao yu fali «legismo mascherato da confucianesimo». Come ha spiegato Huang Yushun, docente di filosofia dell’Università dello Shandong, questa impostazione strategica era alla base del modello ideologico concepito nel primo periodo imperiale (221 a.C.-220 d.C.): un sistema ibrido che «non potendo adottare pratiche di governo dispotiche, affermava di assumere a modello [i valori confuciani, che mettevano idealmente al primo posto della politica] i principi di ‘benevolenza e virtù’ e del ‘buon governo, nel pieno rispetto di tutti sotto il cielo’» ma che, nella pratica, «adottava il modello dispotico promosso dai legisti [fautori di uno Stato forte, accentratore e dispotico] senza rischiare di essere tacciati di tirannia». Tale modello ideologico è stato riproposto tutte le volte che l’impero si era ricompattato dopo un periodo di disunione.
La dottrina della «comunità umana dal destino condiviso» si richiama anch’essa alla migliore tradizione filosofico-politica cinese, che ruota intorno al concetto di tianxia: «[tutto/tutti] sotto il cielo». In epoca Zhou (1045-256 a.C.) una visione universalistica identificava il tianxia con l’intero mondo e in epoca imperiale con il vasto impero (221 a.C.-1911), al di fuori dei cui confini vivevano popoli non civilizzati, considerati «barbari». Zhao Tingyang, dell’Accademia cinese di scienze sociali di Pechino e autore di Sotto il Cielo: Tianxia. Un antico sistema per un mondo futuro, tradotto in numerose lingue e ora anche in italiano da Astrolabio – Ubaldini, è il più convinto sostenitore del movimento di rivalutazione della nozione di tianxia. Egli ritiene che il sistema creato dalla dinastia Zhou riuscì a fornire un esempio pratico di come il concetto di tianxia potesse essere un modello realizzato di «internalizzazione» pacifica, nel senso di «niente fuori» (wuwai). È a questa concezione di un mondo inclusivo e privo di conflitti che si dovrebbe attingere come fonte d’ispirazione per immaginare un assetto internazionale diverso dall’attuale, in cui il soggetto politico sia il mondo stesso e i suoi confini siano i più ampi possibile grazie a un graduale processo di «mondializzazione del mondo». Partendo dalla constatazione che di fatto viviamo in un non-mondo costituito da nazioni indipendenti che non riescono a collaborare efficacemente su scala globale a causa di interessi particolari e del loro egoismo nazionalistico, Zhao postula la creazione di un’entità sovranazionale in grado di affrontare i problemi assumendo una visione globale in un’ottica di armonia, pace e benessere collettivo, basandosi sull’utopica speranza che, adottando valori universali fondati sul dialogo, l’inclusività e la coesistenza pacifica piuttosto che sull’individualismo, l’umanità possa superare i propri egoismi e vedere ogni relazione da una prospettiva autenticamente globale, secondo il principio confuciano di «armonia nel rispetto delle diversità» (he er bu tong).
Si tratta di una visione idealista ispirata dai classici dell’epoca Zhou: «Il mondo – sentenzia ad esempio il Lüshi chunqiu (Primavere e Autunni del Signor Lü), III secolo a.C. – non appartiene a un singolo uomo, ma al tianxia». È pur vero però che «di tutto ciò che è sotto il cielo, non vi è terra che non sia del sovrano», recita un verso dello Shijing (Classico delle odi), raccolta di poemi databili tra il 1000 e il 600 a.C., ed «è solo perché il Figlio del Cielo (= il sovrano) è in grado di uniformare i princìpi sotto il cielo che nel tianxia vige l’ordine», sostiene il Mozi (Maestro Mo), V-III secolo a.C. La dinastia Zhou regnò in uno dei periodi più complessi e tormentati della storia cinese quando era la forza delle armi a determinare la politica, non l’inclusività e la coesistenza armoniosa, condizione ritenuta comunque imprescindibile dell’esistenza stessa. Per trovare un’alternativa da suggerire ai signori della guerra si moltiplicarono gli sforzi di schiere di intellettuali di diversa estrazione e formazione, ma saggi e filosofi non trovarono sovrani disposti ad ascoltarli. Non a caso gli ultimi secoli della dinastia passarono alla storia come il periodo degli Stati Combattenti; nondimeno le correnti di pensiero trovarono continuità e sviluppo nei secoli.
Zhao Tingyang individua tre livelli concettuali che concorrono a dare spessore semantico al termine tianxia: 1) la dimensione geografica, che comprende tutte le terre e i popoli sotto il cielo; 2) la dimensione psicologica, umana e sociale, che implica l’accettazione di un accordo universale che sia inclusivo e unisca «i cuori di tutti i popoli» (minxin); 3) la dimensione politica, che prevede la creazione di una o più istituzioni globali che assicurino l’ordine superando gli egoismi nazionali e personali.
Vi è però un’altra accezione del termine che va tenuta in considerazione. Il concetto di tianxia si oppone alla nozione di «regno, stato» (guo), ma non è del tutto antitetico all’idea di zhongguo, che alla lettera significa «regno al centro (zhong)» del tianxia. Durante la dinastia Zhou il «regno al centro» era sede della corte reale e del potere politico, religioso e cultuale. Nell’immaginario dei cinesi di ogni epoca quell’area ha rappresentato per secoli la culla della civiltà, dove ha preso corpo quel patrimonio di valori che connota la civiltà cinese come la civiltà e che ha definito i canoni della classicità e della «cinesità»: principi etici e concezioni di buon governo esportabili grazie all’azione positiva e moralizzatrice di sovrani illuminati e all’influenza esercitata da modelli di governance idealizzati da una letteratura di stampo prevalentemente confuciano. In epoca imperiale il binomio zhongguo fu talvolta impiegato come sinonimo di tianxia, mentre dall’epoca tardo-imperiale esso venne assunto come nome della nazione cinese. Non deve quindi stupire se ancor oggi, con la riformulazione dell’ideologia imperiale da parte di Xi Jinping, sia tornata prepotentemente in auge l’aspirazione di riportare la «Cina al centro di tutto ciò che è sotto il cielo», obiettivo sotteso, ma non troppo, del «sogno cinese» di cui Xi parla fin dalla sua incoronazione a leader del partito, dell’esercito e della nazione. Dalla sua apparizione nell’VIII secolo a.C. il concetto di tianxia ha una forte connotazione sino-centrica che, poggiando su un’antica concezione cosmologica, implica un ordine gerarchizzato delle relazioni internazionali. Xi Jinping ha ripreso la tradizionale visione sino-centrica, nazionalistica e identitaria del mondo, che ha ispirato il progetto egemonico Belt and Road Intiative (Bri), meglio noto come della Nuova Via della Seta, una rete infrastrutturale, economica, politica e culturale che avvolge l’intero mondo avendo Pechino come epicentro.
Il mondo futuro immaginato da Zhao Tingyang non potrà mai realizzarsi contravvenendo all’evidenza che le decisioni al vertice spettano alle nazioni più potenti e che le alleanze vengono create a proprio vantaggio dai Paesi più influenti. La sua proposta è stata fortemente criticata non solo al di fuori della Cina, ma anche al suo interno, perché discende dall’idealizzazione di un passato mitizzato, troppo lontano dalle vicende ricostruite sulla base delle fonti storiche. Le sue tesi potrebbero portare, per stessa ammissione di Zhao, a strumentalizzazioni ideologiche e a derive di stampo imperiale, come la Cina della nuova era di Xi Jinping sembra a tutti gli effetti dimostrare.
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