Maurizio Scarpari: Dante in cinese, un’impresa italiana. Agostino Biagi tra Italia e Cina
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Questo articolo è apparso in parte in La Lettura del Corriere della Sera, 675, 3/11/2024, p. 23, con il titolo «Dante in cinese. Un’impresa italiana», e in parte nella sezione «Tema del giorno» della App de La Lettura del Corriere della Sera, 7/11/2024, con il titolo «Agostino Biagi tra Italia e Cina».
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Maurizio Scarpari: «Dante in cinese, un’impresa italiana. Agostino Biagi tra Italia e Cina»
Quasi nulla si sapeva, fino a poco tempo fa, di Agostino Biagi (1882-1957), missionario francescano e in seguito pastore evangelico. Le sue opere, rimaste inedite, sono riemerse dall’oblio solo di recente, quando una pronipote, Mara Carocci, ha messo mano alle carte e ai manoscritti di quel «prozio che da giovane era stato in Cina come missionario» di cui suo padre Elio le aveva parlato spesso con ammirazione, descrivendolo come figura controversa di grande dirittura morale e spessore culturale, socialista, comunista «per convinzione» e antifascista militante.
Figlio di genitori «illetterati» di umili origini, secondo di nove fratelli, Agostino aveva mostrato presto una forte propensione per gli studi, una profonda spiritualità e un’integrità morale che gli permetteranno di coltivare uno straordinario percorso intellettuale e religioso. Per le lingue aveva un vero talento: oltre all’italiano arriverà a conoscere bene il latino, il greco, il francese, l’inglese, il tedesco, il russo. Aveva appreso anche il cinese, sia classico e letterario che colloquiale, ancor prima di recarsi in Cina nel 1902, grazie alla presenza di due giovani seminaristi cinesi nel convento dove compiva il suo noviziato. In tre anni di intenso studio aveva imparato «circa sei-settemila caratteri» e, una volta in Cina, dopo solo un anno aveva ottenuto il titolo di insegnante di filosofia, di lingua cinese e di lingue straniere. Rimpatriato «inopinatamente» nel 1907 contro la sua volontà, ufficialmente per motivi di salute, quasi certamente per disaccordi con i superiori circa la gestione delle missioni, non sarà più inviato in Oriente nonostante le sue continue richieste. La Cina rimarrà comunque al centro dei suoi studi e mai verrà meno l’interesse per i classici di quella tradizione filosofica e letteraria.
Deluso dalla gerarchia ecclesiastica, nel 1919, dopo un lungo travaglio interiore, abbandonò l’Ordine per unirsi alla Chiesa evangelica battista. Fu una decisione drammatica: rinnegato dal padre, accettò di buon grado incertezze, ristrettezze economiche e sacrifici pur di non rinunciare ai suoi principi.
Agostino Biagi fece del «vivere il vangelo» con coerenza e intensità il fondamento della sua vita, mantenendo integro lo spirito francescano, vivendo in modo sobrio e semplice. Nonostante i conflitti familiari, i contrasti con le gerarchie, le avversità e l’indigenza, rimase sempre fedele agli ideali di giustizia sociale e alla missione spirituale e pastorale di cui si sentiva investito, nella ricerca di un equilibrio tra fede e passione politica, sorretto dall’amore per lo studio e la scrittura. A Genova frequentò gruppi antifascisti e comunisti, partecipando a riunioni clandestine e offrendo lezioni settimanali agli operai; risalgono probabilmente a quel periodo alcuni opuscoli sulla dottrina di Karl Marx e sui rapporti tra cristianesimo e comunismo. La sua propensione per l’insegnamento lo portò a ricoprire vari ruoli educativi, spesso ostacolati dal regime fascista che lo teneva sotto stretta sorveglianza. Tuttavia nel 1942 il grande orientalista Giuseppe Tucci, riconoscendone competenze e capacità, gli affidò l’insegnamento del cinese nelle sedi genovese e torinese dell’Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente da lui fondato e diretto. Per l’occasione Biagi preparò due dispense, un glossario e un dizionario che furono molto apprezzati da Tucci e vennero adottati per i corsi in tutte le sedi dell’Istituto.
Il principale obiettivo della sua attività di studioso è stato promuovere le relazioni tra Cina e Italia attraverso la divulgazione dei classici della letteratura di entrambi i Paesi, nella convinzione che «conosciuto l’animo di un popolo, si conosce il modo migliore d’intendersi con quello e di cooperare con lui pel bene comune».
In italiano sono di un certo interesse un dramma in tre atti, Budha [sic] e Cristo, il saggio Cina e Italia e i numerosi opuscoli di propaganda che preparò per la diffusione clandestina a sostegno dell’attività antifascista, come Comunismo e dittatura del proletariato, Sunto del Capitale di C. Marx, Sintesi della dottrina di Carlo Marx, Poche parole sulla Repubblica Sociale italiana e altri.
La sua opera più importante è però la prima traduzione integrale in cinese dall’originale della Commedia dantesca. È sorprendente che la traduzione sia stata realizzata da un italiano e non da un traduttore madrelingua cinese o da una équipe di specialisti, come la complessità dell’opera imporrebbe. Un’impresa, datata 1921, che precede di 78 anni la prima traduzione integrale dall’originale condotta da un cinese, l’italianista Tian Dewang, che risale al 1999, mentre proprio nel 1921 apparve una versione dei primi tre canti, ma realizzata (a cura di Qian Daosun) dal giapponese, e solo nel 1939 la prima traduzione integrale, ma dal francese, di Wang Weike. A rendere ancor più straordinaria l’iniziativa è il fatto che Biagi abbia cercato di rispettare la metrica tradizionale cinese salvaguardando, al tempo stesso, la metrica della terzina dantesca, ricorrendo a registri linguistici e stilistici diversi: un primo più aulico e formale, che si rifà grosso modo al cinese letterario (lingua colta e raffinata, ricca di allusioni e riferimenti al mondo classico, la cui struttura e il cui lessico differiscono molto dal cinese colloquiale), in tre versioni distinte, in versi di quattro, cinque e sette caratteri, e un secondo in lingua colloquiale, «né erudita né piatta», in versi di sette caratteri, proponendo una resa differente rispetto alla versione in settenari in cinese letterario. Non si tratta quindi di un’unica traduzione, bensì di quattro.
Dal cinese antico Biagi ha tradotto alcuni classici confuciani, tra cui il Mengzi (Maestro Mencio), la principale opera del confucianesimo dopo il Lunyu (Dialoghi di Confucio), e il Zhuangzi (Maestro Zhuang, datata 1921), il più importante testo del daoismo filosofico dopo il Laozi Daodejing (Canone della Via e della Virtù di Laozi): «Da Confucio conosciamo i fondamati [sic] della vita sociale, da Lao-tse i fondamenti della vita spirituale dei Cinesi. Con la traduzione di Meng-tse (e in altro volume di Tchuang-tse), mi sono proposto di far conoscere lo sviluppo delle dottrine dei Due maggiori filosofi di quel popolo» scrive nell’Introduzione al Mengzi. Ha tradotto anche alcune opere di narrativa dal cinese letterario: il Liaozhai Zhiyi (Mirabili novelle del ritiro dei sussurri) di Pu Songling (1640-1715) e Le memorie di un viaggiatore in Occidente, raccolta di estratti del romanzo Xiyouji (Viaggio in Occidente) del XVI secolo. In cinese colloquiale sono una breve autobiografia e alcuni inni e canzoni popolari della tradizione risorgimentale e comunista, come Addio, mia bella addio!, Internazionale, Inno dei lavoratori, Bandiera rossa ed altri.
Con la fine della guerra ebbe inizio il periodo forse più difficile: perso il lavoro, si ammalò di Parkinson ed ebbe così inizio un calvario per sé e per la moglie, Sofia Lippi (1890-1967), che gli stette sempre accanto. Agostino morì nella più totale indigenza. Sessantacinque anni dopo la sua morte, sarà la pronipote che mai conobbe, Mara, a rendere nota la sua vita intensa e straordinaria, ravvisando in lui quello spessore umano e intellettuale che non gli venne riconosciuto in vita. Nell’ottobre 2021 la quasi totalità dei documenti in possesso della famiglia Carocci è stata donata all’Accademia della Crusca, che ha costituito un fondo ad hoc accessibile a studiosi e ricercatori, che si sono messi subito al lavoro dedicandogli un volume appena uscito, Agostino Biagi e la sua traduzione in cinese della Divina Commedia.
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