Ester Bianchi: Religioni, patrimonio e identità culturale nella Cina d’oggi. Ritorno a Confucio/8
Prosegue con questo intervento di Ester Bianchi (Professore associato di Religioni e filosofia della Cina e di Sinologia all’Università di Perugia)), il dibattito a cura di Amina Crisma sul libro di Maurizio Scarpari, Ritorno a Confucio. I precedenti interventi di Attilio Andreini, Giangiorgio Pasqualotto, Paola Paderni Luigi Moccia, Ignazio Musu e Guido Samarani sono stati pubblicati nella rubrica “Osservatorio Cina” di questa rivista . L’immagine in alto è “Sogno cinese” (da I discorsi del cuore del Venerabile Xuecheng).
“Ritorno a Confucio. La Cina di oggi fra tradizione e mercato” di Maurizio Scarpari è uno studio di ampio respiro che non si limita a spiegare la Cina attraverso la lente della sua tradizione, di per sé impresa tutt’altro che semplice. L’altro merito del libro risiede nella capacità del suo autore di svelare anche ai non addetti ai lavori, con un linguaggio semplice e avvalendosi di esempi concreti e di immediata comprensione, implicazioni e retroscena delle politiche economiche e sociali della Cina contemporanea. Ho fatto personalmente tesoro di queste lezioni, contenute per la maggior parte nella prima metà del libro, ma è al tema del riflesso della cultura tradizionale sulla modernità che voglio dedicare le mie osservazioni, portando al dibattito lanciato da inchiestaonline il mio contributo di storica delle religioni.
Come l’autore, sono convinta che la Cina di oggi non possa essere compresa appieno prescindendo dai valori e dalle caratteristiche della sua civiltà millenaria. Allo stesso tempo, il “ritorno” cui allude il titolo non implica un semplice ritorno al passato: la tradizione, come è già stato fatto notare in queste pagine (Andreini e Moccia), è anche cambiamento e trasformazione, nella misura in cui si avvale del passato per veicolare l’idea dell’opportunità di un suo rinnovamento. In effetti, quella che si incontra oggi in Asia Orientale non è certo una tradizione immobile e stantia, mero riflesso di un glorioso passato; al contrario, essa è viva, dinamica, presente e profondamente ‘moderna’ e ‘modernizzata’. In altri termini, oltre a insegnarci, da buon classicista, che la modernità include aspetti del passato, Scarpari ci mostra come quegli stessi aspetti, rivisitati o plasmati per andare incontro alle esigenze del mondo contemporaneo, costituiscono una delle principali forze motrici del rinnovamento:
È infatti alla propria tradizione e a quei principi di governo che hanno mantenuto unito, pur tra alterne vicende, l’impero per oltre due millenni che guardano oggi con rinnovato interesse i leader cinesi. Teorie e concezioni che sembravano abbandonate sono oggi rivisitate e riformulate nella consapevolezza che lo sviluppo dell’economia non può procedere ulteriormente senza il sostegno di quei valori, di quegli ideali e di quelle credenze religiose che hanno tenuto insieme così a lungo etnie e culture diverse (Scarpari, p. 97).
Degli antichi insegnamenti qui chiamati in causa, non sono solo i principi e le dottrine di Confucio a fungere da “modello di vita e di sviluppo per la Cina del futuro” (Pasqualotto). Se il discorso politico attuale è pregno di richiami alla classicità di matrice confuciana, non sono rari i riferimenti alle religioni della Cina, che sono in fase di grande rinascita su tutto il territorio e in ogni ceto sociale. Il revival delle religioni cinesi è certamente un fenomeno popolare e per molti versi spontaneo, ma esso è anche sostenuto, agevolato e sempre più spesso alimentato dalla leadership del paese, soprattutto per quanto concerne il Daoismo e il Buddhismo istituzionali.
Un “ritorno” che non si limita quindi al solo Confucio e alla sua scuola, ma che interessa anche quelle tradizioni culturali di natura religiosa che, assieme al Confucianesimo, sono dotate di un forte carattere identitario e hanno contribuito nei secoli a plasmare la “tradizione cinese” che si vuole oggi rinvigorire. Considerati pilastri della civiltà cinese, Daoismo e Buddhismo hanno fatto la loro comparsa nei discorsi politici a partire dagli anni novanta in quanto elementi di stabilità sociale e, più di recente, sono menzionati per il loro potenziale ruolo nella creazione della “società armoniosa” tanto auspicata da Hu Jindao e per la realizzazione del “sogno cinese” voluto da Xi Jinping.
Nel marzo del 2014, ad esempio, Xi Jinping ha rilasciato una chiara dichiarazione sul ruolo e la responsabilità del Buddhismo e del Daoismo nel processo di rivitalizzazione della cultura cinese. A loro volta, i leader della chiesa buddhista e daoista sembrano avere accolto di buon grado l’incarico loro affidato, come si evince dalle numerose affermazioni pubbliche al riguardo. Già nel 2013, ad esempio, Shenghui, Vicepresidente dell’Associazione Buddhista della Cina, rifletteva che solo comportandosi secondo modelli disciplinari adeguati i monaci e le monache avrebbero potuto “realizzare il sogno cinese”. Il tema è stato ripreso in seguito dall’attuale Presidente dell’Associazione, il maestro Xuecheng, nonché da Li Guangfu, Presidente dell’Associazione Daoista di Cina, nel discorso tenuto per la sua elezione (giugno 2015). Nell’agosto del 2015, infine, autorità di entrambe le religioni si sono incontrate in occasione del Convegno per la creazione della cultura daoista e buddhista nazionale, ribadendo la propria identità come parti integranti del patrimonio culturale immateriale del paese. È questa solo una selezione di alcune dichiarazioni ufficiali che, lungi dall’essere esaustiva, può comunque dare un’idea del fenomeno in atto.
Il recupero dei valori tradizionali di cui stiamo parlando, siano essi etici, filosofici, spirituali o religiosi, avviene in un processo generalizzato di rivendicazione delle proprie radici culturali e assume così anche la valenza di denuncia dell’inadeguatezza del modello occidentale per la Cina. L’inclusione delle religioni fra le componenti di una tradizione che si pone come suggello di identità culturale, ne ha indubbiamente favorito la rinascita, togliendole dall’ombra in cui le aveva relegate il Maoismo e restituendo loro un ruolo attivo e positivo nella società cinese.
Il ritorno alla tradizione avviene su vari fronti e con diverse finalità. Finora ne abbiamo visto il grande potenziale nella ricerca di un consenso interno, ma il suo utilizzo all’esterno dei confini nazionali è almeno altrettanto importante, anche se i tempi non sono forse ancora maturi per poterne apprezzare appieno i risultati. Di fatto, la ricerca del consenso internazionale come fattore essenziale per la propria affermazione nel mondo è diventata una priorità della politica estera cinese, e la cultura tradizionale è ritenuta lo strumento più efficace per conseguirlo (Scarpari, p. 73).
In questo contesto, Daoismo e Buddhismo possono tornare utili nella gestione dei rapporti bilaterali con Taiwan e, soprattutto per quanto concerne il Buddhismo, nelle relazioni diplomatiche con altri stati asiatici. È indubbio inoltre che le rispettive ramificazioni anche nel cuore dell’Europa o dell’America aiutano a creare un’immagine più rassicurante della Cina in Occidente. Il fenomeno sta prendendo piede anche nel nostro paese, come dimostrano le attività della Chiesa Taoista d’Italia, collegata all’Associazione Daoista di Cina, o del Tempio dell’Associazione Buddista di Prato, che al momento è in fase di trasformazione in vero e proprio monastero affiliato al Longquansi di Pechino, quartier generale del già menzionato Xuecheng.
Quanto tutto ciò possa davvero essere efficace in un’ottica di soft power è difficile da stabilire. Scarpari riflette diffusamente sul tema in un capitolo ad hoc. Per quanto l’ambito religioso, mi limito a osservare che, nonostante la grande attrattiva esercitata da pratiche meditative e valori spirituali già tradizionalmente associati con la cultura cinese, finché sussisteranno conflitti e problemi relativi alla questione tibetana o alla chiesa cattolica sotterranea, difficilmente la Cina riuscirà a proiettare un’immagine positiva delle proprie politiche religiose. Il rischio è quindi, in questo caso come in altri delineati da Scarpari (mi riferisco ad esempio alla polemica sugli Istituti Confucio), che le politiche messe in atto ottengano risultati opposti rispetto a quelli auspicati.
Chiaramente, sarebbe inopportuno non menzionarlo, la religione pone delle problematiche sul piano ideologico che non emergono in riferimento al Confucianesimo. È infatti noto come la politica di libertà religiosa attuata in Cina dall’inizio degli anni ottanta sia giustificata ideologicamente sulla base dell’assunto che la religione scomparirà spontaneamente con la maturazione della società socialista. Ai membri del PCC è ancora vietato di aderire a una qualsiasi fede, benché molti osservatori riferiscano di una crescita all’interno del partito della percentuale di chi pratica forme di religione in privato, o benché non si faccia più mistero della presenza di fedeli all’interno delle rispettive famiglie.
In conclusione, Daoismo e Buddhismo sembrano essere salvaguardati, quantomeno stando alle dichiarazioni ufficiali, non tanto come religioni in sé, quanto come componenti importanti del patrimonio culturale della Cina, perché in un paese comunista risulta meno sconveniente e più facilmente accettabile parlare di “culture tradizionali” piuttosto che di credi religiosi. Una contraddizione, tra le tante, della Cina contemporanea, che tuttavia non deve portarci a formulare affrettati giudizi di valore, quanto piuttosto a comprendere, ancora una volta, la sfaccettata complessità della realtà cinese. Una realtà che, al pari di ogni civiltà, per essere capita anche solo in minima parte richiede adeguati strumenti conoscitivi e una certa dose di umiltà intellettuale.
Category: Osservatorio Cina, Storia della scienza e filosofia