José Joaquín Beeme: La Spagna di Pasolini. Alcune note su una passione corrisposta
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La Spagna di Pasolini
Alcune note su una passione corrisposta
José Joaquín Beeme
Fundación del Garabato
Silvio Parrello ‘er Pecetto’, uno di quei “ragazzi di vita” che nel quartiere Monteverde custodisce un singolare altarino pasoliniano e che si concesse per il nostro libro-intervista Pasolini raccontato, fu ospite presso l’Istituto Cervantes di Roma nel convegno Pasolini e la cultura spagnola, in occasione del ventennale della morte di Rafael Alberti, poeta andaluso amico di Lorca (entrambi tra i massimi esponenti della Generazione del ’27) ed esule in Trastevere durante la dittatura militare di Franco. Amico pure di Pasolini, che tra ammirazione e terrore si considerava un apprendista di bottega davanti a quell’“alta montagna di cristallo” piena di “selvaggio, donchisciottesco pudore”, i cui inni popolari — così diversi delle sue corde poetiche — leggeva con insostenibile entusiasmo. “Maledetti angeli!”, gridava stupito nella presentazione de Sobre los ángeles, raccolta di poesie surrealiste di Rafael.
Ma le confluenze spagnole in Pierpaolo Pasolini sono tante, lontano dall’essere esaurite, e destano sempre più interesse. Invito qui ad approfondirle a partire da qualche nota sommaria.
Dentro all’esperienza dialettale friulana, Pasolini dedicava il numero 3 (e ultimo) della rivista Quaderno romanzo (Accademiuta di Casarsa, giugno 1947) alla letteratura catalana, allora proibita dalla dittatura franchista che, altrettanto, vietava i suoi libri. In quel numero monografico, che contiene l’antologia “Fiore di poeti catalani” ad opera del prete-poeta Carles Cardó, esule a Friburgo, scrive una diatriba contro la censura sulle lingue oppresse e apparenta la poesia di San Francesco con quella di Ramon Llull (San Bonaventura sarebbe il suo filosofo di riferimento), i dialoghi di Bernat Metge con quelli del Boccaccio, l’ispirazione dei valenzani Jordi de Sant Jordi e Ausiàs March con Petrarca, mentre la prima traduzione della Divina Commedia, afferma, sarebbe stata proprio in catalano. Sempre in Friuli, nel quaderno scolare Las hojas de las lenguas romanas, a firma di El juanero, si aveva già messo alla prova traducendo in spagnolo (“lenguaje amarillo”, in quanto solare) i suoi propri versi, fortemente ispirati a Juan Ramón Jiménez, Antonio Machado e lo stesso Lorca.
Ma l’ostacolo della censura si affievolisce in 1965. Carlos Barral pubblicherà per i tipi di Seix Barral (Biblioteca Breve) la sceneggiatura di Mamma Roma (dove, tra l’altro, Anna Magnani ed Ettore Garofolo ballano sulle note del Violino tzigano di Joselito) e Accattone. La versione spagnola è del poeta e italianista José Agustín Goytisolo, che aveva incontrato il cineasta nella sua casa dell’EUR nel 1963, grazie alla traduttrice catalana-sefardita Myriam Sumbulovich, e lo aveva aiutato col romanesco e il gergo delle borgate. Il più grande dei fratelli Goytisolo aveva una rara affinità con il poeta bolognese: le perdite in guerra (un bombardamento dell’Aviazione Legionaria di Mussolini uccise sua mamma), il calcio di quartiere, le auto Alfa Romeo, la morte tragica (lo spagnolo si gettò da un balcone).
Data la sua formazione critica tra comunismo ed estetica di matrice longhiana, Pasolini non poteva restare indifferente all’opera di Picasso. Dopo aver visitato la mostra Picasso, a cura di Lionello Venturi col sostegno del PCI, nella Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea, scrisse il poema “Picasso” (uscito nel 1953 nel semestrale Botteghe oscure, poi raccolto tra Le ceneri di Gramsci, libro che avvicinò Goytisolo al pensatore marxista), dove mette in confronto la visceralità di popolo di Goya con l’anti-umanesimo che via via si andava schiudendo nelle tele più avanguardiste del malagueño.
E per il nuovo teatro che propugnava, un teatro di parola che ricorda Unamuno, un rito dialogico e dialettico che va oltre Brecht, Pasolini sceglie come canovaccio una tragedia cardine del Secolo d’Oro spagnolo. Il suo Calderón (1973), dramma in XVI episodi scritto durante una convalescenza da ulcera e unica delle sue sei tragedie ad essere rappresentata mentre era in vita, portava La vita è sogno di Calderón de la Barca al contesto del franchismo nel 1967: Rosaura si risveglia in tre mondi di classe (aristocratico, postribolare, piccolo borghese) facendo incursioni ne Las Meninas di Velázquez e nei lager nazisti con un Basilio marito-padre e un Sigismondo che funge da alter ego. Già “Che cosa sono le nuvole?”, episodio pasoliniano del film collettivo Capriccio all’italiana (1968), si apriva con manifesti di strada riproducenti quadri di Velázquez (perfino nella cabina del suo camioncino, al posto delle foto di donne nude, il monnezzaro Modugno ha una stampa della Venere allo specchio), mentre gli attori-marionette indossavano abiti risalenti alla corte asburgica spagnola; tra questi Totò / Iago che formula una riflessione nettamente calderoniana: “eh figlio mio, noi siamo in un sogno dentro a un sogno”. E ricordiamo che la prima prova narrativa di Pasolini, che aveva come protagonisti tre giovani friulani che tra migrazione e sogni di riscatto compongono una elegia marxista del mondo rurale, si intitolava Il sogno di una cosa.
I film di Pasolini, già apprezzati e glossati da critici e storici à la page (Romà Gubern, José Luis Guarner), trovano nello scrittore Terenci Moix una complicità particolare. Negli articoli che da Roma invia al giornale La Vanguardia (poi raccolti nello stendhaliano Crónicas italianas) evoca la frequentazione, lungo due anni, del circolo pasoliniano: Moravia e Morante, la Callas, Paolo Poli, anche Alberti e la sua compagna María Teresa León. Tra queste “voci che creano” l’amico Pasolini, come lui intellettuale gay di rottura, che però vedeva nel suo ammiratore spagnolo, appassionato cinefilo, un giovanotto con una “filmoteca fra le gambe”. Il “tutto è santo” di Medea, benedizione e al tempo stesso oscura maledizione, digrada nel ragazzo di Barcellona in un desolato “niente è santo, niente è sacro, poco è rispettabile.”
Ma in fatto di cinema forse la vicenda più stuzzicante accadde dietro le quinte de Il Vangelo secondo Matteo. Nella disperata ricerca durata due anni del carismatico protagonista, per il quale Pasolini voleva una “faccia da poeta” (pensò perfino a Ginsberg o Kerouac), il poeta sovietico Yevtushenko direttamente rifiutò, ma anche il fratello di Goytisolo, Luis, per il quale Pasolini e altri intellettuali italiani avevano firmato una lettera chiedendo la scarcerazione dalla prigione di Carabanchel. Il catalano non era interessato al ruolo perché immedesimato nei suoi romanzi e perché aveva un fenotipo opposto all’immagine iconica di Gesù. Nel gennaio 1964 però successe qualcosa. A casa di Pasolini arriva il poeta e germanista Giorgio Manacorda accompagnato da Enrique Irazoqui Levi, figlio di un basco e di un’italiana, militante del PSUC in missione per tessere alleanze e raccogliere soldi per conto del clandestino Sindacato Democratico di Studenti all’Università di Barcellona, dove fu allievo del filosofo marxista Manuel Sacristán. Pasolini rimase folgorato davanti a questo Greco il cui volto esprimeva “tutta la sofferenza del suo popolo” e, dopo avergli girato attorno, esclamò: “Ho trovato Gesù! È qui a casa mia!” Ma il giovane, allora fervente stalinista, non voleva sapere di finzioni cinematografiche, men che meno incarnando il capostipite di una chiesa connivente con Franco; cedette infine perché il cinema, dopotutto, poteva arrecare dei benefici, anche economici, alla causa… E perché, durante le riprese nel viterbese (il regista non diede alcuna dritta sulla performance, Cristo sarebbe sorto in sala di montaggio), si rese conto del potere del personaggio ogni volta che le donne venivano a chiedergli il miracolo.
Pasolini aveva anche promesso, in compenso, di andare a Barcellona per sostenere la lotta dell’opposizione antifascista. Nella Ciudad Condal, nel novembre 1964, ritrovò l’amico Goytisolo e conobbe altri intellettuali quali Poter i Moix, López Llaví, Ricard Salvat. Con sguardo curioso che sembrava inquadrare filmicamente ogni interlocutore, chiedeva di tutto: l’ominosa presenza dei grises (polizia del regime), il caffè-cognac carajillo, le tariffe dei putti, le palomitas di mais gonfiato… José Maria Castellet, antologista dei poeti postmoderni o ‘nuovissimi’, indovinava “dentro alla sua insignificante presenza una personalità considerevole (…) con occhi fortemente inquietanti (…) Uno sguardo in allerta e fuga, per cui fugace: chi non ha conosciuto la chiamata selvaggia del sesso (il tunnel notturno delle grandi città) non capirà sicuramente la fugace inquietudine del suo sguardo: salvarsi dipende dal caso, anche l’ignominia…” Era quella “carica elettrica” che percepiva pure Arnau Olivar, storico del cinema: “Non era pacifico e signorile, tranquillo, come Visconti, neppure uno che pensa come Rossellini; era un uomo scomodo (incordio), aveva la rabbia, la violenza e l’imperfezione artistica di Michelangelo.” Sembrava, ricorda il politico socialista Salvador Clotas, un cappellano laico: “Di poche parole, come se stesse sempre pensando, molto riservato; non beveva in un’epoca dove noi di [la discoteca rive gauche] Boccaccio avevamo altre abitudini; nessun interesse per i giovani.”
E poi nel febbraio 1965, preclusa dalle autorità l’aula magna di Medicina per la star cristiano-marxista-omosessuale, con grande tumulto studentesco, Pasolini dovette offrire una conferenza nella sala di autopsie dell’ospedale clinico di Barcellona, tutti in piedi aspirando formaldeide in una specie di congregazione segreta e rispondendo, paradossalmente, alle domande dello stesso invitato: libri, film, polizia, sindacato di regime… Tornava allora dal Marocco durante una delle pause di Edipo re, e ne approfittò per visitare assieme a Goytisolo le baraccopoli della città. Anche i cimiteri: Poble Nou, Montjuic, dove omaggiò con fiori freschi, presi in prestito da altre tombe, quelle degli anarchici Durruti e Ferrer i Guardia, anche quella del presidente repubblicano catalano Companys, fucilato dai golpisti. Lo ricordava nel poema “Trattative con Franco”, appendice di Poesia in forma di rosa: “un cimitero e un mucchio di baracche. Bisogna venire in Spagna per vedere il silenzio di un uomo che non è un uomo.”
Chiudo con un aneddoto che vide, luglio del ’75, Pasolini a tu per tu con Salvador Dalí, testimone Nico Naldini. Il pittore, avvolto da una corte di giovani e buffoneschi modelli, è omaggiato in una cena di gala all’hotel Ritz di Barcellona. Ascolta, sicuramente onorato, la proposta degli italiani affinché disegnasse il manifesto di Salò, e risponde che in effetti avrebbe un’idea geniale ma che ne parleranno il mattino dopo. Proprio allora si presentano due sinistri avvocati che chiedono 100.000 dollari per i diritti di riproduzione de Il grande masturbatore. Naldini e Pasolini rimangono allibiti, la cifra è totalmente fuori budget, e Dalí incassa il rifiuto con malcelata freddezza. Alla fine, giocoforza, si sceglie la conosciuta foto di scena con i ragazzi al guinzaglio, scattata dall’inglese Deborah Beer.
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Per saperne di più:
Roberto AMABA e Fernando GONZÁLEZ (ed.), Pier Paolo Pasolini. Una desesperada vitalidad, ShangriLa, Santander 2015
Miguel DALMAU, Pasolini. El último profeta, Tusquets, Barcellona 2022
—, “Pasolini en Barcelona”, La Vanguardia, Barcellona 26.02.2022
Francesca FALCHI, El Juanero. Pasolini e la cultura spagnola, Firenze Atheneum, Firenze 2003
—, Pasolini y la cultura española, Alrevés, Barcellona 2012
José Agustín GOYTISOLO, “Un hombre triste”, Diario 16, Culturas, Madrid, 5.11.1988
Salvador LÓPEZ ARNAL, “Entrevista a Enrique Irazoqui”, El Viejo Topo, Barcellona, 31.08.2019
Francesco LUTI, “Pier Paolo Pasolini y José Agustín Goytisolo (Pasolini en Barcelona)”, Cuadernos Hispanoamericanos, Madrid 2015
Ino LUCIA e JJ BEEME (ed.), Pasolini raccontato. Indagini di un ragazzo di vita, ANPI Ispra – Altre Latitudini – Fundación del Garabato, 2022
Terenci MOIX, Crónicas italianas, Seix Barral, Barcellona 1971
Hilari PELLICÉ, Pasolini a Barcelona, documentario, Filmoteca de Catalunya / Istituto Italiano di Cultura, 2015
Giona TUCCINI, “Paesaggi del Novecento. Pasolini e Machado tra mito e memoria”, Sot la Nape, LIV, Società Filologica Friulana, 2002
José Joaquín Beeme
Laureato in Giurisprudenza e master in Storia ed Estetica della Cinematografia, ha lavorato come giornalista culturale (Diario 16) ed editore per diverse case editrici spagnole e italiane (Unaluna, La Torre degli Arabeschi, Altre Latitudini). Ha coordinato durante 24 anni il laboratorio audiovisivo del Joint Research Centre della Commissione Europea.
Creatore, assieme alla storica dell’arte Malena Manrique, della Fundación del Garabato, si propone di studiare e promuovere i processi creativi espressi da artisti di ogni tempo in svariati supporti e tecniche: abbozzi, taccuini, fotografie, filmati, animazioni sperimentali e qualsiasi altra forma di arte visionaria.
Nelle foto:
- Pier Paolo Pasolini
- Enrique Irazoqui Levi (che impersona Gesù ne Il Vangelo secondo Matteo) e Pier Paolo Pasolini nel 1964
- José Joaquín Beeme e il suo gatto
Category: Arte e Poesia