Francesca Brandes: Carnival di Pier Luigi Olivi. J’accuse artistico contro la violenza del sistema globalizzato
Mai come quest’anno il Carnevale veneziano potrebbe rendere giustizia alle proprie premesse, a quella tristezza infinita, imbellettata, dissolutoria che va tanto d’accordo con l’inazione, con il restare alla finestra mentre tutto si corrompe. Ancor prima che la danza macabra prenda il via, ci ha pensato l’acqua alta spaventosa del novembre scorso, con il suo contraltare di figurine pubbliche a rubarsi la scena della Piazza; poi, ancor più di recente, il coronavirus e il blocco dei voli dal Celeste Impero che – si è stimato – ha tenuto lontani dalla Laguna tra i quindicimila e i ventimila turisti cinesi: a pochi giorni dall’inizio ufficiale della manifestazione, metà delle camere disponibili in città sono ancora libere, mantenendo un picco del settanta per cento di prenotazioni solo nei fine settimana. Il semel in anno di antica memoria potrebbe naufragare in un buco nero, flop economico o psicosi collettiva che dir si voglia.
E i veneziani? Sembrano smarriti, per lo più; in bilico tra calli e salizade in preda a folle travestite e lo spauracchio del pan che manca. In entrambi i casi, in apparenza, una regressione nell’oscuro, come l’avrebbe definita Mircea Eliade. Eppure, qualcosa di diverso si percepisce, come un’ansia sottile. O una domanda, a cui non si è ancora risposto. Mentre si moltiplicano assemblee pubbliche ed iniziative volte a coinvolgere la cittadinanza (in vista anche delle prossime elezioni comunali) esce Carnival di Pier Luigi Olivi, per la serie La BIBIennale di Venezia, con la partecipazione dello storico dell’arte Tomaso Montanari e la collaborazione di Laura Di Lucia Coletti: un’opera intelligente e netta che di quello smarrimento, di quella richiesta troppo spesso inespressa fa humus per una protesta più ampia. Con le voci di Ernesto “Che” Guevara, Pier Paolo Pasolini, Chico Mendes e Papa Francesco, la denuncia corrode, scava a fondo in quell’universo ensoriano che è la realtà contemporanea. Perché il Carnevale più grottesco è proprio quello dell’attualità, quella urlata, instabile, prona alle divisioni e ai ribaltamenti di fronte. Nulla, come commenta Montanari con graffiante efficacia, è più spaventoso della maschera di Donald Trump mentre nega il riscaldamento globale e si scaglia contro quelli che definisce «le Cassandre di turno», Greta Thunberg in testa. Nulla è più tragico delle voci che Olivi chiama a testimoniare l’orrore di un mondo che non riconosce i segnali: tutte impiccate, nel dissacrante collage di Carnival.
Eppure l’ultima opera dell’artista veneziano, da molti anni impegnato sul fronte della salvaguardia della città, possiede l’anima di una Fenice. Il suo grido, ancora una volta, non è sterile: si riesca a mettere in piedi un Carnevale 2020 credibile (almeno secondo gli stilemi turistici in voga, sufficientemente stolido e volgare), oppure si assista ad una contrazione degli arrivi, questo sarà un anno diverso. Perché questi mesi, specie dall’acqua granda di novembre 2019 in poi, sono stati mesi in cui si è riacquistata coscienza, ritrovato un orgoglio che si credeva smarrito.
Ci sono stati giorni sacri, di una sacralità laica, in purezza; giorni in cui una ragione sincera (e così poco ragionata, poco calcolata) ha portato con sé – con fantasia e coraggiosa in-coscienza – i segni del cambiamento. Forse è per questo che Pier Luigi Olivi ha dedicato Carnival ai giovani di Fridays for Future: alle loro radici antiche di solidarietà e alle loro gemme in fiore; al loro lavoro nel fango tra le macerie di Pellestrina, con gli stivali alla coscia per le calli del Centro Storico.
Un’opera di denuncia serve davvero a poco, se non propone strumenti, se non offre alternative. In questa chiave di lettura, non vi è nulla di utopico. È così che il messaggio di Carnival – in tutta la sua rabbia desolata – consente una deviazione di rotta, uno sviamento. La ribellione di Olivi è un messaggio che si fa figura e, in quanto figura, possiede capacità di resistenza e vigilanza. In breve, è struttura di una diversa possibilità. Quei giovani rappresentano l’abitare nella differenza; esistono, possiedono un’origine fisica e concettuale che significa relazione. Sono futuro, un futuro diverso all’ennesima potenza. Inoltre, l’intervento dell’opera – attraverso il caso estremo di Venezia, la sua crisi accelerata, l’assoluta necessità di trasformazione – mira ad abbracciare una regressione nell’oscuro ben più ampia, un’ingiustizia radicata nel profondo: lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e, su tutto, la difficoltà estrema di riconoscere il prossimo come fatto della stessa carne, con le medesime necessità. Così, quel grido ricordato dal Papa argentino, quel «Dov’è tuo fratello?», risuona alto nei campi ancora deserti, aleggia nelle manifestazioni mondiali dei giovani per la salvaguardia del pianeta.
Poco celano le maschere, le baute dell’ipocrisia; poco i falsi annunci, la carità pelosa: «È proprio per quel tanto d’impossibile che reca con sé che la verità attiene al reale», sostiene Jacques Lacan. Ci vorrà tempo, si spera non troppo, per riconoscerlo, ma l’aria è già cambiata.
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